L’offerta economicamente più vantaggiosa

I

Tra diritto dell’Unione e diritto Italiano

di Filippo Satta

1. Noi, ormai, siamo così impregnati di Europa e della comunità in cui essa si è sviluppata negli anni, da quasi dimenticare che l’attuale struttura giuridica di tutti i grandi settori del nostro ordinamento economico non solo è di ordine comunitario, ma anche relativamente recentissima. L’Italia ha costruito strade, ferrovie, porti, caserme, ospedali, autostrade, aeroporti, opere pubbliche insomma, a partire dall’unità, 1865, più di 150 anni fa. Le prime forti direttive comunitarie in materia di appalti pubblici sono del 2004: di 13 anni fa. Innegabilmente esse gettarono le fondamenta di un nuovo diritto dei contratti pubblici: un diritto, si può ben dire, che costringeva alla vera concorrenza di amministrazioni ed imprese.
Per quanto qui specificamente rileva, è opportuno ricordare che l’art. 53 della direttiva 2004/18 dettava i criteri per l’aggiudicazione dell’appalto. Erano due.
Il primo era quello dell’offerta economicamente più vantaggiosa dal punto di vista dell’amministrazione aggiudicatrice. Esso comprendeva una serie di criteri di merito, si potrebbe dire, quali la qualità, il prezzo, il pregio tecnico, le caratteristiche estetiche e funzionali, le caratteristiche ambientali, il costo di utilizzazione, la redditività, più alcune altre voci minori. Come era ovvio, alla stazione appaltante competeva stabilire il “peso” che avrebbe attribuito a ciascuno di questi criteri.
Nulla di ciò per il secondo criterio di aggiudicazione. Era esclusivamente il prezzo più basso, rimesso quindi alla valutazione e decisione dei singoli concorrenti. Necessariamente qualcuno chiedeva il compenso più ridotto, ovvero offriva il prezzo più basso. Si aggiudicava così l’appalto.
Il d. l.vo 12 aprile 2006, n. 163 – il ben noto primo codice italiano-comunitario dei contratti – recepì la direttiva, con qualche ritocco, si potrebbe dire. Per quanto riguarda i prezzi, l’art. 81 del codice disponeva che, salve alcune eccezioni, “nei contratti pubblici … la migliore offerta è selezionata con il criterio del prezzo più basso o con il criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa”.
Del prezzo più basso (art. 82) c’è poco da dire. Si distingueva tra i contratti a misura ed i contratti a corpo: per i primi era previsto un ribasso sull’elenco prezzi o un’offerta a prezzi unitari; per i contratti a corpo era previsto un ribasso sull’importo dei lavori o, di nuovo, un’offerta a prezzi unitari.
Merita invece di essere osservata la norma sull’offerta economicamente più vantaggiosa, disciplinata con il successivo art. 83.
Esso disponeva che “quando il contratto è affidato con il criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa, il bando di gara stabilisce i criteri di valutazione dell’offerta, pertinenti alla natura, all’oggetto, e alle caratteristiche del contratto” . “A titolo esemplificativo”, questi criteri erano 13; riguardavano il prezzo, la qualità, il pregio tecnico, le caratteristiche estetiche, funzionali, ambientali, il costo di esercizio ed alcuni altri. Nel bando venivano elencati i criteri di valutazione e veniva precisata la ponderazione relativa attribuita a ciascun criterio.
Posto ormai in una prospettiva storica, il regime dei criteri del 2006 sembra appartenere ad un altro mondo. Le amministrazioni gestiscono i criteri, li ponderano, si fanno assistere. Basti ricordare l’ultimo comma dell’art. 83: “Per attuare la ponderazione o comunque attribuire il punteggio a ciascun elemento dell’offerta, le stazioni appaltanti utilizzano metodologie tali da consentire di individuare con un unico parametro numerico finale l’offerta più vantaggiosa.”
Si può dunque dire in sintesi che la scelta dell’offerta più vantaggiosa era fondamentalmente meccanica. Per ogni concorrente si elaborava un punteggio; il più “ricco” di punti vinceva.

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2. La dir. 2014/24, oggi in vigore, ed il d.lvo 18 aprile 2016, n. 50, che la ha recepita nell’ordinamento italiano, sono tutt’altra cosa. L’art. 67 della direttiva e l’art. 95 del codice dei contratti, con cui il primo è stato recepito, disegnano uno scenario di indicibile complessità, che costituisce comunque un’ulteriore, significativa evoluzione della disciplina che regola le procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici. Rimane ferma la formula “offerta economicamente più vantaggiosa”; ma essa è un’altra cosa, disciplinata in maniera molto più articolata e complessa di quanto non fosse nella dir. 2004/18. Sono due assetti sostanziali, prima che normativi, profondamente diversi.
Secondo l’art. 67.2 della dir. 2014/24, l’offerta economicamente più vantaggiosa è individuata partendo dal prezzo indicato dall’impresa concorrente, ma sottoponendo questa cifra al vaglio, se così si può dire, del costo totale, onnicomprensivo, dalla costruzione alla scomparsa dell’opera (o, mutatis mutandis, alla conclusione del servizio). Secondo la direttiva, si consente così alla stazione appaltante di calcolare il costo dell’intero ciclo di vita di quanto offerto dai concorrenti. A questo costo si applica un rapporto qualità-prezzo, calcolato considerando una serie di criteri, che investono in profondità la struttura operativa dell’impresa offerente. La direttiva parla di aspetti qualitativi, ambientali e/o sociali, connessi all’oggetto dell’appalto; per assolvere la funzione di “criteri” di valutazione, essi sono articolati in tre capitoli. Il primo è la qualità, che comprende pregio tecnico, caratteristiche estetiche e funzionali, progettazione adeguata ed alcune altre voci. Il secondo è l’organizzazione, che si esprime con le qualifiche e l’esperienza del personale incaricato di eseguire l’appalto. Il terzo riguarda i servizi post-vendita e l’assistenza tecnica. Le amministrazioni sono così poste in grado di valutare e controllare le dichiarazioni dei concorrenti, “al fine di valutare il grado di soddisfacimento dei criteri di aggiudicazione delle offerte”.
In sintesi: secondo la direttiva, l’offerta economicamente più vantaggiosa dal punto di vista dell’amministrazione aggiudicatrice viene individuata in termini dinamici, vale a dire in un rapporto tra il c.d. costo del ciclo di vita e l’efficacia di quanto offerto, sotto tutti gli aspetti qualitativi, ambientali e sociali, connessi all’oggetto dell’appalto. Essi riguardano tutti i profili possibili della qualità, dell’organizzazione dell’impresa o di alcuni altri servizi, ivi compresi l’assistenza tecnica e le condizioni di consegna.
Nella direttiva, dunque, l’offerta più vantaggiosa è individuata partendo dal prezzo e seguendo “un approccio costo/efficacia, quale il costo del ciclo di vita”. Questo processo comprende la ricerca del miglior rapporto qualità-prezzo, valutando aspetti qualitativi di vario genere, connessi all’appalti cui si tratta.

È bene ricordare che tutto ciò si colloca all’interno del criterio sistemico definito “costo del ciclo di vita” dell’oggetto dell’appalto. Come è ben noto, si tratta di tutti i costi che ricorrono per l’acquisto, l’esercizio, la manutenzione e la “soppressione” del bene.
Il punto nodale è chiaro. I criteri di aggiudicazione per l’individuazione dell’offerta economicamente più vantaggiosa hanno un’alta valenza sociale e culturale. Sono strumenti che consentono alla stazione appaltante di entrare nelle imprese e di valutare il cuore delle loro strutture. Se ne ha così una conoscenza “reale”, che ben può condurre ad individuare l’offerta nel suo complesso economicamente più vantaggiosa.

3. Il nuovo codice italiano, il d. l.vo n. 50 del 2016, che ha attuato la direttive 2014/24, dedica l’art. 95 alla disciplina dell’offerta economicamente più vantaggiosa, alterando significativamente l’assetto tracciato dalla direttiva..
Secondo questo articolo 95, l’offerta economicamente più vantaggiosa, che conduce all’aggiudicazione, èindividuata sulla base del miglior rapporto qualità/prezzo o sulla base dell’ele-mento prezzo o del costo, seguendo un criterio di comparazione costo/efficacia quale il costo del ciclo di vita …” (co. 2).
Il co. 6° specifica poi che l’offerta economicamente più vantaggiosa, individuata, come si è appena visto, sulla base del miglior rapporto qualità/prezzo, “è valutata sulla base di criteri oggettivi, quali gli aspetti qualitativi, ambientali o sociali, connessi all’oggetto dell’appalto”. Questi criteri sono enunciati nei successivi 7 paragrafi, da a) a g). Si possono così riassumere:a) la qualità, dal pregio tecnico alle caratteristiche estetiche e funzionali ed alla progettazione nel senso più ampio, dalla sicurezza con le relative certificazioni al contenimento dei consumi e delle risorse ambientali, etc.;
a) la qualità, dal pregio tecnico alle caratteristiche estetiche e funzionali ed alla progettazione nel senso più ampio, dalla sicurezza con le relative certificazioni al contenimento dei consumi e delle risorse ambientali, etc.;
b) il possesso di un Ecolabel UE per un congruo numero e valore delle forniture;
c) il costo di utilizzazione e manutenzione avuto riguardo a tutte le componenti inquinanti e di mitigazione degli impatti dei cambiamenti climatici;
d) la compensazione delle emissioni di gas ad effetto serra;
e) l’organizzazione, le qualifiche e l’esperienza del personale;
f) i servizi post vendita;
g) le condizioni di consegna.
L’art. 95 prosegue con i commi da 7 in poi. Così, il co. 8 dispone che i documenti di gara descrivono i criteri di valutazione e la loro ponderazione; il co. 9 integra il co. 8, nel senso che se la stazione appaltante non ritiene possibile la ponderazione indica l’ordine decrescente di importanza dei criteri.
Anche qui, dal co. 10 in poi, seguono norme che non riguardano l’offerta economicamente più vantaggiosa.

4. È dunque il momento di trarre le conclusioni in ordine a questa disciplina della legge italiana rispetto a quella dell’Unione, la direttiva 2014/24.
Come si è visto, la direttiva mirava ad avere una valutazione compiuta delle vicende che sarebbero seguite all’aggiudicazione della gara: ovviamente, essendo queste vicende il parametro per formulare una serie di giudizi, i calcoli riguardavano tutti i concorrenti. L’art. 67 della direttiva prevedeva così una serie di vere e proprie intrusioni nella struttura e nell’organizzazione delle imprese, volte a esprimere il loro “valore” in termini di punteggio positivo – quindi, in favore del concorrente con il bagaglio favorevole, dovuto alla qualità, all’organizzazione, ai servizi post-vendita.
Gli elementi più rilevanti erano due. Il primo punto di riferimento era indiscutibilmente il prezzo proposto da ogni concorrente. Ad esso si aggiungevano o sottraevano altri punteggi, per altre cause. Il co. 2 dell’art. 67 e l’art. 68 della direttiva sono illuminanti: qualità, organizzazione, servizi post-vendita, consegna finale si riflettevano positivamente o negativamente sul prezzo; i costi del ciclo di vita erano la base per l’attribuzione di un punteggio. Per dirla in termini elementari si aggiungevano gli oneri di funzionamento, manutenzione, di smaltimento o riciclaggio.
Nella legge italiana non sembra esservi traccia di tutto ciò. Vi si trovano i consueti criteri formali (“ordine crescente o decrescente di importanza dei criteri”). L’art. 95 detta norme sui costi del ciclo di vita, senza che mai questo tipo di istituto sia richiamato nel corso della legge.

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5. Quale conclusione? E, a monte di questa domanda, per quali motivi il Governo, nella sua funzione di legislatore delegato ex art. 76 Cost., può aver deciso una rottura così forte rispetto alla direttiva comunitaria?

Le risposte possibili sembra che possano essere tre. La prima, più semplice, è che le procedure concorsuali per l’affidamento dell’appalto nella versione originaria, della direttiva 2014/24 sono certamente complesse, fonte di non banali difficoltà.- e quindi di errori di valutazione con la conseguente responsabilità. Basti ricordare che, per diverse valutazioni di merito (qualità, organizzazione, servizi post-vendita), la stazione appaltante deve saper entrare nella struttura dei singoli concorrenti, per osservare la struttura ed il funzionamento delle loro organizzazioni, ad un numero non prevedibile di livelli. Più in concreto, si dovrebbe attribuire alla stazione appaltante il potere-dovere di entrare nei gangli organizzativi di ogni impresa e di accedere a tutto ciò che può rivelare come funzionino, come operino i vari uffici cui possono essere ascritte competenze professionali di rilievo. Basti pensare al “pregio tecnico”, alle “caratteristiche estetiche e funzionali”, oltre a tutte le altre attività operative, elencate nel co. 6, lett. a.
La seconda difficoltà, strettamente collegata alla prima, è quella della coerenza, della continuità degli accertamenti che la stazione appaltante dovrebbe fare. Se si parla di specialità, di elevata qualità delle prestazioni richieste all’impresa – e sopratutto da essa offerte – potrebbero insorgere problemi di riservatezza, da cui potrebbe essere difficile uscire.
La terza è forse la più seria di tutte. Non occorrono grandi indagini per rendersi conto che, nell’art. 67, la direttiva ha introdotto un vasto spazio di discrezionalità in capo alle stazioni appaltanti. Basti pensare al costo del ciclo di vita del bene ed alle attività che devono essere svolte per soddisfare le necessità della stazione appaltante nel futuro prossimo o lontano, a seconda dei casi. Questo pone un problema serissimo: qualcuno deve decidere, facendo dipendere la sua decisione dalla valutazione di eventi e situazioni futuri, possibili, ma non certi, spesso carichi di scelte da fare. In altri termini, spesso occorre prendere decisioni, proiettando il presente verso l’ignoto.
Se si vogliono introdurre situazioni di questo genere, per quel rilevantissimo fine che è l’acquistare la massima conoscenza del bene o del servizio da realizzare con l’appalto, la soluzione è una sola. Ci si deve fidare di qualcuno, cui affidare questo compito. Deve avere tutti i poteri necessari e lo si deve esonerare da qualsiasi responsabilità, salvo il dolo, perché in un’opera di questo genere l’errore è sempre possibile.

II

Di fronte al progetto esecutivo

di Francesco Karrer

Dopo il parziale ripensamento, con la reintroduzione, seppure con limitazioni (solo quando è prevalente il contenuto tecnologico e quando c’è urgenza) dell’appalto integrato[1], operata dal governo con la prima versione del correttivo al codice degli appalti (d.l.vo 50/2016), diffusa il 9 febbraio u.s., si rafforzano le perplessità sulla applicabilità del criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa (di seguito oepv) nell’aggiudicazione di lavori, quando a base della stessa è posto il progetto esecutivo (ovviamente completo di capitolato, computi, elenco prezzi, schema di contratto).
Che il criterio dell’oepv si attagli meglio alle aggiudicazioni sul progetto definitivo è ovvio: la migliorabilità del progetto sotto una molteplicità di profili è più facile quando il progetto non è ancora del tutto formato. E più semplice è per le commissioni giudicatrici valutare le offerte.
Del resto in Italia la prima esplicita applicazione dell’oepv fu al caso dei servizi di architettura, di ingegneria ed altri servizi tecnici (cat. 12 della cpc 567), ex dpcm 116/1997, in attuazione dell’art. 23, co. 1) lett. b) del d.l.vo 157/1995 di recepimento della direttiva ce 1992/50, abrogato con la legge comunitaria 2001, ma di fatto “sopravvissuto”: dapprima con il regolamento (554/1999), attuativo della “legge Merloni”, e poi con il regolamento (207/2010) attuativo del codice del 2006 (d. l.vo 163/2006).
La sua abrogazione fu causata dalla procedura di infrazione aperta dalla CE che riteneva che la valutazione di uno stesso elemento, nel caso il merito, effettuata sia nella fase di “ingresso” della gara che, successivamente, nella gara vera e propria, non fosse compatibile con il diritto comunitario che allora (oggi tutto ciò è superato) non consentiva la doppia valutazione di uno stesso elemento.
In realtà questo aspetto formalistico, facilmente correggibile, fu volutamente sopravvalutato dal legislatore italiano che interpretava le preoccupazioni, quando addirittura non vere e proprie ostilità, per il criterio dell’oepv da parte degli operatori economici – nel caso i progettisti, ingegneri ed architetti – e comunque di chi opera nei servizi affini all’architettura.
Vale la pena ricordare – Andrea Mascolini scrisse un gustoso articolo al riguardo su «Italia oggi» – , che quando la commissione dovette aggiudicare i lavori di ristrutturazione del palazzo Berlaymont a Bruxelles operò esattamente come era stato previsto dal decreto 116/97, e cioè effettuando la valutazione del “merito tecnico” dell’offerente sia in fase d’ingresso che in quella di gara vera e propria.
Allora gli elementi della valutazione – come li definì il Consiglio di Stato correggendo lo schema del dpcm –, erano: il merito tecnico, appunto; le caratteristiche qualitative, metodologiche e tecniche ricavate dalla relazione di offerta; la certificazione di qualità; il prezzo; il temine di consegna o di esecuzione; il servizio successivo alla vendita; l’assistenza tecnica; altri elementi discrezionalmente scelti dalla stazione appaltante atti a qualificare l’offerente in rapporto allo specifico servizio richiesto.
Gli elementi erano ponderati, con «range» molto ampi.
Interessante è rilevare che la ponderazione del prezzo poteva andare da 5 a 50 punti. Si prevedeva cioè la possibilità che il suo peso potesse essere contenuto; al massimo, alla metà del totale dei punteggi (100).
Anche nel caso dell’aggiudicazione dei lavori su progetto esecutivo – come fissato dal codice -, il peso attribuito al prezzo potrebbe essere anche notevolmente più alto della somma dei pesi attribuiti agli altri elementi.
Proprio in virtù del fatto che si mette a gara un progetto da considerare «perfetto», cioè compiuto in tutto e per tutto.
Il che significherebbe che anche il maggior costo d’acquisto, come è ovvio che accadrebbe in questo caso, sarebbe da considerarsi tra i vantaggi per l’acquirente.
Ciò sembra paradossale, ma solo in apparenza.
È ovvio che per giustificare una tale scelta occorre una motivazione forte, da rinvenirsi nel progetto, e quindi nella responsabilità, prima della commissione giudicatrice e poi del soggetto aggiudicatore: la validazione del progetto, in questo caso, deve essere davvero “di qualità”. Sostantiva e non meramente formale, come avviene nella maggior parte dei casi.
Pagare di più per avere di meno, ma di maggiore qualità, non è certo facile da spiegare nel mondo dei lavori pubblici oggi.
Infatti nella pratica, con il rischio di compromettere il raggiungimento del famoso rapporto qualità/prezzo, avviene che al prezzo si assegni un valore ponderale inferiore al complesso degli elementi di merito. Ciò, si dice, per favorire la qualità dell’offerta. Cosa forse vera nel caso dei servizi, quindi della progettazione.
Molto meno nel caso dei prodotti e quindi dei lavori.
Ciò è quello che accade nel caso di oepv applicata a progetti definitivi. Ma il rischio per la stazione appaltante è teoricamente compensato dal rischio che corre l’appaltatore. Che, in assenza di controlli e collaudazioni effettivamente tali, diminuisce notevolmente. E qui è il punto: in ogni caso occorre una stazione appaltante capace di verificare e validare il progetto, collaudare le opere; in una parola, sorvegliare tutto il ciclo progetto-appalto-realizzazione.
La difficoltà dell’applicazione dell’oepv al progetto esecutivo, malgrado i tentativi di disciplinare il criterio, come ha fatto l’Anac con la 2 linea guida (determinazione 1005 del 21/09/2016; g.u. del 11/10/2016, n. 238), restano notevoli.
Come detto, più il progetto è “perfetto” e “completo” più è difficile migliorarlo; addirittura, nella logica dell’oepv applicata al progetto esecutivo, non dovrebbe essere ulteriormente migliorabile.
Infatti i miglioramenti, secondo questa interpretazione, dovrebbero riguardare soprattutto, se non solo, l’organizzazione dell’appaltatore e le «performance» del prodotto, sia di un’opera, che di un complesso di opere (il caso, ad esempio, d’un quartiere residenziale od altro realizzato da un istituto pubblico).

Tra queste performance, quelle di tipo socio-ambientale, di cui al dm 11 gennaio 2017, che, all’all.2., stabilisce i “criteri ambientali minimi per l’affidamento di servizi di progettazione e lavori per la nuova costruzione, ristrutturazione e manutenzione di edifici pubblici”, che aggiorna il dm del 24 gennaio 2015.
Nello stesso decreto, malgrado il titolo dichiari che si disciplina l’affidamento di servizi di progettazione, si danno indicazioni generali alle quali deve attenersi la stazione appaltante; tra le quali, quando e come nel ciclo progetto – appalto lavori si devono perseguire (probabilmente nel progetto di fattibilità tecnica ed economica, oggi il primo livello della progettazione) alcuni “classici” obiettivi ambientali (conservazione del suolo, grado di impermeabilizzazione dello stesso, perdita di habitat, conservazione del paesaggio agrario, ecc., tutelando al contempo la salute e dando priorità al recupero di edifici esistenti, ecc.).
Il tutto certificato – e così si introduce il tema molto generale e complicato via via sempre più per effetto dell’esistenza di un mercato delle certificazioni – da un professionista abilitato.
Nonché indicazioni sull’applicazione del criterio oepv e criteri minimi non solo per l’affidamento dei servizi di progettazione, ma direttamente anche per le costruzioni; progetto e costruzione sono infatti usati come sinonimi!
Sembra che il legislatore in questo modo abbia voluto stabilire una sorta di «standard» minimo nazionale. Forse perché già Inghilterra, ma oggi fuori dalla UE, e paesi scandinavi in genere, reclamano con insistenza uno standard europeo della qualità dell’edilizia.
In base al citato dm il miglioramento dell’offerta consisterebbe nell’offrire di più rispetto a questi contenuti minimi. Come esattamente propongono i certificatori: “qualità base”, “qualità argento”, “qualità oro”, “qualità platino”.
Ma chi offre un prodotto in qualità platino dove trova la convenienza per poterlo offrire?
Alla commissione giudicatrice scoprirlo.
Analoga questione riguarda l’elemento ciclo di vita della costruzione. Va detto al riguardo che il dm citato tratta di edifici considerati in “un’ottica di ciclo di vita”. Non del ciclo di vita «tout court» dell’edificio/costruzione, come si fa nel codice e nella bozza di correttivo. Del ciclo di vita si sa in ordine a singoli materiali/prodotti, ma non di materiali integrati a formare una costruzione. Fino ad oggi infatti l’analisi del ciclo di vita, durabilità e dichiarazioni ambientali (“life-cycle assessment”), riguardava uno specifico prodotto.
Ora, con il codice, questo concetto è esteso ad un’intera costruzione.
Peraltro, si pone un ulteriore interrogativo: che rapporto c’è tra il cosiddetto ciclo di vita delle costruzioni e la vita nominale delle stesse, oggetto centrale delle norme tecniche sulle costruzioni in applicazione degli eurocodici?
Una conclusione provvisoria: solo provando si potrà sciogliere il dilemma. Sempre che il malato abbia una buona resilienza, per dirla nell’”ottica” del ciclo di vita!

Note

1.  Procedura di aggiudicazione per mezzo della quale il passaggio dal progetto definitivo a quello esecutivo è compito dell’appaltare dei lavori.