Produttività o occupazione? Un falso dilemma?*

Tutto, o quasi, cominciò con David Ricardo, nel 1821.
Nella terza edizione del suo capolavoro – una delle sette meraviglie dell’economia politica – Ricardo inserì il capitolo “On Machinery”[1]. Faceva ammenda per aver aderito fino ad allora all’idea prevalente – la “teoria della compensazione”, di Adam Smith e seguaci – secondo cui i macchinari produttivi non ridurrebbero l’occupazione, limitandosi a riallocarla fra i settori. Invece, sostenne nel 1821 Ricardo, possono ridurla. I Ludditi disoccupati, che in quegli anni spaccavano le macchine tessili, non avevano solo torti… Produttività e occupazione sarebbero in conflitto[2].
E’ cosi?
Oggi, se si accettano le misure aggregate dello stock di capitale, non esenti da critiche teoriche[3], disponiamo di statistiche sia sul rapporto capitale/lavoro sia sul progresso tecnico. Entrambi sono potenzialmente capaci, in specie il progresso tecnico, di accrescere la produttività anche risparmiando forza-lavoro. Il progresso tecnico – maggior prodotto a parità di inputs – può arrivare a esprimere ben due terzi della crescita di lungo periodo del Pil nel capitalismo moderno. Ciò è avvenuto anche in Italia, nel 1898-1913, “l’età giolittiana”, e nel 1952-1973, il tempo del “miracolo economico”[4].
Un primo tentativo di verifica empirica, sulla base di medie decennali relative agli USA e alla Francia dalla fine dell’Ottocento ai primi anni 1990, non aveva apprezzato alcun nesso fra produttività del lavoro e occupazione. Anche alla luce di considerazioni teoriche gli autori avevano concluso che “la chiave per un’elevata occupazione non è data dal tasso di variazione della produttività, ma da una domanda globale del prodotto totale adeguata al pieno utilizzo della capacità produttiva”[5]. Più di recente su dati cross section relativi a 20 paesi industrializzati – presumibilmente più vicini alla frontiera dell’efficienza – per il 1970-2007 è stata invece stimata una correlazione negativa fra progresso tecnico e occupazione[6]. Nella media dei 20 paesi a un aumento annuo della produttività congiunta di lavoro e capitale (TFP) dell’1%  si è significativamente associato un calo dello 0,5% l’anno sia delle ore lavorate sia degli occupati. La varianza risulta però alta, con un R2 di 0,50. L’Italia si situava sulla retta di  regressione, con una produttività in crescita per l’appunto dell’1% l’anno e un monte ore però in aumento, anche se solo dello 0,2% l’anno. Gli Stati Uniti avevano più occupati della norma, il Giappone meno della norma.
Questi dati possono far temere, sulla scia di Ricardo, che fra occupazione e crescita vi sia contrasto. Rinunciare all’occupazione sarebbe esiziale, anche sotto il profilo politico-sociale[7]. Ma sarebbe non meno grave rinunciare al progresso tecnico, quindi alla crescita. Solo la crescita può lenire i tre malanni del capitalismo: l’instabilità, l’iniquità, l’inquinamento[8]. Se imprese e Stato desistessero dall’accettare e promuovere l’innovazione, la distruzione creatrice, il progresso tecnico la crescita si spegnerebbe. E’ impensabile tornare, come nella prima rivoluzione industriale, al solo motore dello sviluppo rappresentato dalla scala quantitativa dell’accumulazione di capitale e quindi dell’applicazione di lavoro, attraverso il risparmio e l’investimento. E’ enorme la mole degli ammortamenti attualmente necessari, di fronte a uno stock di capitale moltiplicatosi rispetto a due secoli fa. In Italia, ad esempio, lo stock netto di capitale era nel 2013 quasi ottanta volte quello del 1861[9].
Se davvero esiste, il problema di un legame inverso fra progresso tecnico e occupazione nel trend è attenuato da quattro ordini di considerazioni, riflesse nell’alta varianza del legame sul piano econometrico:

Vale concentrarsi su quest’ultimo interrogativo.
Sia in Europa sia negli USA la TFP è impallidita. Negli Usa la sua crescita è proseguita, tuttavia rallentando nel decennio recente rispetto al precedente dall’1% allo 0,4% l’anno. In Europa è andata anche peggio: la dinamica della TFP è scesa su ritmi quasi nulli in alcuni paesi (Austria, Germania, Spagna), addirittura negativi in altri (Italia, Francia, Olanda, Belgio, Portogallo)[11]. Ci si attenderebbe quindi che il tasso di disoccupazione sia più alto negli USA e più basso in Europa. E invece è vero il contrario: 10% nell’area dell’euro, 5% negli USA.
I salari sono stati moderati in entrambi i continenti. Li hanno compressi i salari cinesi e indiani. Pur aumentando, i salari asiatici sono rimasti relativamente bassi, frenati dalla vasta forza-lavoro tuttora sottoccupata in agricoltura: 30% in Cina, 50% in India.
Al di là delle rigidezze dei mercati del lavoro europei, è stato decisivo il diverso livello della domanda globale: più alta negli USA, più bassa in Europa.
La produttività accresce profitti e/o salari. L’aumento dei redditi favorisce la domanda per consumi e per investimenti. Ma, come Keynes ha chiarito, l’offerta può mancare di generare domanda sufficiente a dar lavoro a tutti coloro che al salario corrente lo cercano[12]. Un equilibrio di sottoccupazione può persistere a lungo.

* Lectio Magistralis
Pierluigi Ciocca
UNIVERSITA’ DEGLI STUDI ROMA TRE
ANNUAL LECTURE ASTRIL
Roma, 9 novembre 2016

Deve, allora, supplire la domanda pubblica: maggiori spese statali, minori imposte, fino a portare il prodotto effettivo al livello del prodotto potenziale, che la produttività innalza. Idealmente andrebbero prevenute le recessioni…
Non si è riusciti, negli USA, a evitare la recessione del 2008-2009. Ma fra il 2007 e il 2010 in America la spesa pubblica è salita dal 37 al 43% del Pil. Le entrate di bilancio si sono ridotte dal 33 al 31% del Pil. Il disavanzo pubblico è quindi aumentato dal 4 al 12% del Pil. Contemporaneamente la banca centrale ha moltiplicato la base monetaria senza soluzione di continuità, abbattendo i tassi d’interesse sebbene il debito pubblico sia aumentato dal 64% del Pil nel 2007 al 95% nel 2010, al 108% nel 2016. Già nel 2010 la ripresa del Pil era trainata dalla domanda interna. La disoccupazione scendeva. La bilancia dei pagamenti di parte corrente restava in deficit.
Nell’Eurozona, invece, sebbene la recessione del 2008-2009 sia stata più profonda che negli USA – con il Pil caduto del 4,5%, rispetto al 3,1% negli USA – la politica fiscale espansiva è stata invece meno decisa e la politica monetaria espansiva meno continua. Fra il 2007 e il 2010 la spesa pubblica europea è passata dal 46 al 51% del Pil. Le entrate di bilancio sono rimaste invariate, sul 45% del Pil. Il disavanzo è salito dall’1 al 6% del Pil, meno che negli USA. Il Sistema Europeo delle Banche Centrali ha addirittura ridotto il passivo del suo bilancio – e quindi la base monetaria – di un terzo fra l’estate del 2012 e l’estate del 2014, mentre il debito pubblico passava dal 70% del Pil nel 2007 al 94% nel 2014, per scendere al 92% nel 2016. La ripresa della domanda interna era inferiore a quella del Pil. La disoccupazione saliva. Si dilatava l’avanzo della bilancia di parte corrente. L’area dell’euro cadeva di nuovo in recessione nel 2012-2013.
Il quesito di fondo riguarda l’Europa. Perché la politica della domanda europea è stata relativamente timida, in un contesto di deflazione, disoccupazione, attivo nei conti con l’estero?
Hanno influito le regole restrittive sul bilancio e sul debito pubblico, da Maastricht al fiscal compact. Ma ha ancor più influito il rigore che un paese – la Germania – ha applicato a se stesso e imposto ai partners europei.
A molti sfugge come per questa scelta la Germania, lungi dal lucrare vantaggi d’ordine economico, abbia pagato e paghi costi molto alti, su tre piani.                     – Dopo una flessione del 5,6% nel 2009, nel 2012-2016 il Pil tedesco è cresciuto in media annua dell’1,1%: meno del già mediocre 1,7% realizzato prima della recessione, nel 1998-2007. Anche lo sviluppo del Pil potenziale ha rallentato.     – La bassa dinamica della domanda interna tedesca è sfociata in un abnorme avanzo della bilancia commerciale e di parte corrente (8,4% del Pil, quasi 300 miliardi di dollari, nel 2016). Sono state così cedute al resto del mondo cospicue risorse reali. Queste risorse avrebbero invece potuto essere utilmente impiegate nel Paese, per consumi delle famiglie e investimenti delle imprese e dello Stato.               – L’estensione del rigore tedesco a Spagna, Francia, Italia, Grecia ha fatto sì che la disoccupazione, alta nell’Europa Mediterranea e strutturalmente bassa in Germania, orientasse verso la Germania i flussi migratori provenienti dalla sponda Sud del Mediterraneo. Chi sbarca vivo a Lampedusa vorrebbe proseguire per Berlino…La Germania, la cui popolazione è già per un quarto immigrata, ha dovuto accogliere nel 2015 più di un milione di rifugiati, con pesanti oneri economici e aspre tensioni sociali e fra i partiti.
Non è pensabile che la classe dirigente tedesca ignori tutto ciò. Vi sarà pure un economista a Berlino… Se chi governa la Germania, edotto di siffatti costi economico-sociali, è comunque disposto a sopportarli, evidentemente i fini perseguiti sono d’altra natura: metaeconomici, politici, di politica estera, di potere.                      La memoria dell’essere stati debitori, in particolare nei confronti dei vincitori delle due guerre mondiali[13], può motivare nei tedeschi come una “colpa” il ritrovarsi ancora una volta indebitati. Ma la posizione attiva netta verso l’estero della Germania supera ormai il 60% del Pil. Un credito netto di 1400 miliardi di euro va ben oltre la volontà di non indebitarsi, di non dipendere da altre nazioni. Chi governa la Germania forse pensa che gli altri paesi europei, in quanto debitori, possano essere politicamente condizionati dal paese creditore. Ciò sarebbe molto grave. Ne risulterebbe minata alla radice l’idea stessa di un’Europa unita, fra pari. Anche per il timore di un’egemonia tedesca i cittadini inglesi hanno a mio avviso optato per la Brexit.
Più in generale, con un’azione coordinata si possono almeno perseguire entrambi gli obiettivi: il progresso tecnico, per la crescita di lungo periodo, il sostegno della domanda globale, per la piena occupazione.
Sul futuro dell’innovazione in uno studio recente Robert Gordon[14] ha sostenuto che prevarrà una tendenza al ristagno. A suo parere l’innovazione, pur proseguendo, avrà un impatto limitato sulla produttività. Lo studio è incentrato sugli USA, che tuttavia restano leader mondiali nella ricerca scientifica e nella tecnologia. Se il pessimismo di Gordon fosse fondato per gli USA, lo sarebbe ancor più per l’Europa. Gli smartphone non cambiano il lavoro negli uffici. L’e-commerce rappresenta non più del 7% delle vendite americane al dettaglio. In futuro, la medicina curerà meglio i corpi, non la demenza senile e l’Alzheimer; la robotica non potrà fare a meno dell’uomo, e così l’intelligenza artificiale, i Big Data, l’auto senza guidatore.
L’ipotesi stagnazionista dal lato dell’offerta di Gordon è più realistica e preoccupante di quella avanzata, dal lato della domanda, da Larry Summers e altri[15]. Quest’ultima si fonda principalmente sui bassi tassi d’interesse attuali, fisherianamente attribuiti a un risparmio eccedente l’investimento. Irving Fisher riguardava il tasso d’interesse “as determined by impatience to spend income and opportunity to invest it”[16]. Su scala mondiale risparmio e investimento, ex post necessariamente coincidenti, nel 1998-2007 si erano attestati sul 23,5% del Pil del globo; nell’ultimo decennio sono saliti, sino al 25,5% nel 2016. Soprattutto, i bassi tassi dell’interesse odierni possono essere interpretati keynesianamente. Decisive sono le aspettative di deflazione, unite alla liquidità creata da politiche monetarie espansive che tuttavia non riescono a invertire quelle stesse aspettative. Prevale quindi la “convenzione” keynesiana di tassi d’interesse, nominali e reali, dal 2008 storicamente bassi[17].
Le proiezioni dell’IMF di medio termine, al 2021, escludono un ristagno del Pil mondiale. Ne cifrano la crescita appena al disotto del 4% l’anno[18]. Ma i propellenti sarebbero Cina e India, con i loro ritmi di sviluppo del 7% l’anno e un peso del loro Pil  ormai pari a un quarto di quello mondiale (non arrivava al 9% nel 1950). Le previsioni sono molto peggiori per gli USA (2%) e soprattutto per l’area dell’euro (1,5%).
Una risposta della politica economica che può sia promuovere la produttività sia alimentare la domanda globale deve ricercarsi negli investimenti pubblici.
Nelle economie avanzate gli investimenti pubblici sono tendenzialmente diminuiti rispetto al Pil: dal 4% degli anni 1980 all’attuale 3%. La qualità delle infrastrutture è conseguentemente scaduta. Lo si riscontra persino in Germania, dove i conti dello Stato sono in equilibrio[19]. Gli investimenti in infrastrutture devono tornare a crescere. Keynes li voleva strutturalmente alti per stabilizzare il capitalismo[20]. Vanno programmati secondo priorità, appaltati sulla base di regole giuridiche chiare, attuati secondo criteri d’efficienza, collaudati con ogni scrupolo.

Dal lato della domanda l’effetto espansivo degli investimenti pubblici può essere ricompreso, nel volgere di un biennio, tra due e tre[21]. Il moltiplicatore supera di molto quello – prossimo o inferiore all’unità – della spesa pubblica per consumi correnti, dei trasferimenti pubblici a famiglie e imprese, della detassazione. Assumendo un’elasticità 0,5 del rapporto disavanzo pubblico/Pil rispetto all’aumento dello stesso Pil, l’investimento pubblico si autofinanzia in tempi brevi, anche se viene inizialmente coperto da indebitamento. Ad esempio, un investimento aggiuntivo pari all’1% del Pil aumenta il Pil di oltre il 2%, e quindi per questa via migliora dell’1% del Pil il saldo del pubblico bilancio. Ma l’effetto netto sulla domanda globale resta positivo anche nel caso in cui l’investimento sia inizialmente coperto da riduzione di spese correnti o da aumento del gettito fiscale. Accrescendosi il Pil, se il bilancio pareggia, il debito pubblico flette in rapporto al Pil.
Dal lato dell’offerta, gli investimenti pubblici aumentano la produttività dell’intero sistema economico allorché ne beneficiano infrastrutture, fisiche e immateriali, R&D, reti, utilities, istruzione. Ancor più importante è la messa in sicurezza del territorio da alluvioni, frane, terremoti, che altrimenti colpirebbero la persona stessa dei cittadini, oltre ai loro averi e alle loro attività economiche. I disastri che l’Italia sta vivendo al centro dell’Appennino ne sono tremenda testimonianza.
Il caso dell’Italia è davvero grave. Gli investimenti fissi lordi della P.A. in rapporto al Pil sono caduti di più e sono più bassi che negli altri paesi avanzati (3,5% negli anni Ottanta del Novecento, 2% nel 2015). Da due decenni sia la produttività del lavoro sia il progresso tecnico ristagnano, mentre la domanda globale a metà del 2016 resta su livelli dell’8% inferiori a quelli di dieci anni fa e il tasso di disoccupazione è prossimo al 12%. Gli ultimi tre governi – Monti, Letta, Renzi – hanno addirittura tagliato gli investimenti della P.A. a prezzi correnti del 18% (da 45 miliardi di euro nel 2011 a 37 miliardi nel 2015). Preziose risorse – oltre un punto di Pil – sono state sottoutilizzate nella forma di trasferimenti-sussidi-sgravi ad alcune famiglie e ad alcune imprese. Essendo il loro moltiplicatore ben inferiore all’unità – 1/3 di quello degli investimenti pubblici – il sostegno alla domanda è stato modesto. Sussidiata, dal 2013 al 2016 l’occupazione è artificialmente aumentata (3%) più del Pil (1,5%). Ne ha risentito la produttività del lavoro. Quelle stesse risorse sono state sottratte alla manutenzione di infrastrutture seriamente carenti e alla messa in sicurezza di un territorio flagellato da disastri naturali, con morti e feriti oltre alla perdita di beni. Sia l’effetto di domanda, sia l’apporto alla produttività del sistema sarebbero stati ben maggiori se quelle risorse fossero state investite.
Ricorre ancora l’espressione “politica industriale”. Un insigne economista italiano, Claudio Napoleoni, era solito dire: “Che cosa deve essere la politica industriale? Credo che nessuno di noi abbia idee chiare su questo punto…”[22]. Una gestione corretta e funzionale degli investimenti pubblici – per un liberale come Keynes ”programmata”, a complemento degli investimenti privati – può restituire significato all’espressione. Là dove tuttora esistono, anche le imprese a controllo pubblico devono recare un contributo. Studi recenti hanno smentito la visione negativa, quasi demonologica, dell’intervento dello Stato sulle attività produttive e dell’impresa a partecipazione statale. In realtà in vari paesi, Stati Uniti compresi[23], il ruolo dello Stato e dell’impresa pubblica è risultato cruciale per l’innovazione, il progresso tecnico, la loro diffusione nel sistema produttivo. In Italia è stato rivalutato l’apporto dell’Istituto per la Ricostruzione Industriale – l’IRI – dalla sua costituzione nel 1933 alla frettolosa privatizzazione delle sue aziende, fino alla liquidazione nel 2002[24]. Basti citare un solo dato: fra il 1963 e il 1971 l’IRI, occupando meno del 2% della forza-lavoro impiegata nel Paese, aveva espresso, da solo, una spesa per R&D pari a un quarto di quella effettuata dall’insieme delle imprese private nazionali.
Produttività e occupazione non sono condannate a confliggere…

Note

1.  D. Ricardo, On the Principles of Political Economy and Taxation, Third Edition, John Murray, London, 1821, Ch. XXXI. Gli autori delle altre…sei meraviglie sono, per i gusti di chi scrive, Smith, Marx, Walras, Schumpeter, Keynes, Sraffa.

2.  J. Hicks, A Theory of Economic History, Oxford University Press, Oxford, 1969, pp. 150-154 e Appendix, pp. 168-171.

3.  Cfr. G.C. Harcourt, Some Cambridge controversies in the theory of capital, Cambridge University Press, Cambridge, 1972. 

4.  P. Ciocca, Ricchi per sempre? Una storia economica d’Italia (1796-2005), Bollati Boringhieri, Torino, 2007, Tab. I.4, p. 23.

5.  O. Blanchard-R.M. Solow-B.A. Wilson, Productivity and Unemployment, mimeo, MIT, 1995, p. 19.

6.  A. De Michelis-M. Estevão-B.A. Wilson, Productivity or Employment: Is It a Choice?, in IMF WP 13/97, Washington, May 2013.

7.  A. Sen, L’occupazione: le ragioni di una priorità per la politica economica, in P. Ciocca (a cura di), Disoccupazione di fine secolo. Studi e proposte per l’Europa, Bollati Boringhieri, Torino, 1997.

8.  P. Ciocca L’economia di mercato capitalistica: un modo di produzione da salvare, in P. Ciocca-I. Musu (a cura di), Natura e capitalismo. Un conflitto da evitare, Luiss University Press, Roma, 2013.

9.  C. Giordano-F. Zollino, A Historical Reconstruction of Capital and Labour  in Italy, 1861-2013, in “Rivista di Storia Economica”, 2015, Tab. A3, pp. 211-213. Nello stesso arco di tempo il  rapporto capitale/lavoro è aumentato di tre volte e il prodotto (A. Baffigi, Il Pil per la storia d’Italia. Istruzioni per l’uso, Marsilio, Venezia, 2015, Tav. 5, p. 209) di trenta volte. 

10.  “Fino a quando l’economia cresce durevolmente le conseguenze delle ristrutturazioni tecnologiche e organizzative si avvertono poco. Quando la produzione cala ogni singolo produttore riduce l’occupazione. Quando la produzione riprende ma non ci si aspettano onde lunghe favorevoli, tutti i singoli produttori troveranno conveniente sfruttare i cambiamenti tecnici e organizzativi che hanno consentito di risparmiare lavoratori, per non assumerne di nuovi” (G. Lunghini, Politiche eretiche per la piena occupazione, in Ciocca, Disoccupazione di fine secolo, cit., pp. 269-270).

11.  OECD, Statistics. Multi-factor Productivity.

12.  J.M. Keynes, The General Theory of Employment, Interest and Money, Macmillan, London, 1936.

13.  G. Stolper-K. Häuser-K. Borchardt, The German Economy 1870 to the Present, Weidenfeld & Nicolson, London, 1967.

14.  R.J. Gordon, The Rise and Fall of American Growth. The U.S. Standard of Living Since the Civil War, Princeton University Press, Princeton, 2016.

15.  C. Teulings-R. Baldwin (eds.), Secular Stagnation: Facts, Causes and Cures, Cepr, 2014.

16.  I. Fisher, The Theory of Interest, Macmillan, New York, 1930.

17.  Cfr., su questi temi, P. Ciocca-G. Nardozzi, The High Price of Money. An Interpretation of World Interes rates, Clarendon Press, Oxford, 1996.

18.  IMF, World Economic Outlook, Washington, April 2016, Tab. A1, p. 168.

19.  Si vedano recenti interviste di economisti tedeschi culturalmente diversi come Otmar Issing e Peter Bofinger.

20.  J.M. Keynes, Activities 1940-1946. Shaping the Post-War World: Employment and Commodities, in The Collected Writings of J. M. Keynes, XXVII, Macmillan, London, 1980, p. 352 e passim.

21.  IMF, World Economic Outlook, Washington, October 2014, Ch. 3.

22.  C. Napoleoni, Intervento, in Cedes, Crisi, occupazione, riconversione, Rosenberg & Sellier, Torino, 1977, p. 39.

23.  M. Mazzucato, The Entrepreunerial State. Debunking Public vs. Private Sector Myths, Anthem Press, London, 2013.

24.  AA.VV., Storia dell’IRI, 6 Voll., Laterza, Roma-Bari, 2012-2014.