Profili di responsabilità penale nell’esercizio delle funzioni di governo locale

Entrambi i concetti di responsabilità penale e di funzioni di governo locale comprendono una molteplicità di manifestazioni, di natura anche molto variegata; è dunque opportuno proporre un modello di classificazione delle stesse, per capire quali meritino un effettivo approfondimento, prima di entrare nel vivo della questione[1].
Le modalità con le quali, all’interno di un ente di governo locale, possono porsi problemi di responsabilità penale, sono molteplici e molto diverse l’una dall’altra.
C’è, anzitutto, il contesto più patologico, quello che vede il pubblico amministratore, e/o il pubblico dirigente o funzionario, far uso in modo deliberatamente illecito del proprio ruolo o del proprio ufficio, per arricchirsi indebitamente, attraverso condotte concussive, d’indebita induzione a dazioni di danaro, o manifestazioni di disponibilità alla corruzione.
Si tratta di un contesto sul quale non vale la pena indugiare affatto, atteso il gravissimo disvalore insito nel prestarsi a condotte di questo tipo: tra un pubblico ufficiale corrotto e un qualsiasi autore di delitti contro il patrimonio non c’è grande differenza, entrambi depredano con gli strumenti che hanno a disposizione – l’uno la carica pubblica, l’altro le proprie armi – ricchezze di altri.
All’estremo opposto, rispetto a questo ambito, si colloca invece un profilo di responsabilità penale certamente meritevole di attenzione: quello della responsabilità colposa nell’esercizio di funzioni di governo locale, prodotta da fenomeni di cd. mal-governo del rischio.
È noto che la società contemporanea esige, con sempre maggior ampiezza, anche dalle politiche pubbliche e dalle loro applicazioni amministrative (siccome lo esige dai privati che vivono il rischio come fisiologicamente connesso all’esercizio di una determinata attività), un governo rigoroso dei meccanismi procedurali che presiedono alla tutela di determinati beni pubblici, o comunque di determinati beni sociali considerati imprescindibili per la qualità della vita delle nostre comunità.
Ambiente, paesaggio, decoro e sicurezza urbana, tanto per citare quelli più intuitivi, sono beni rispetto ai quali la politica legislativa ha stabilito i meccanismi, le procedure attraverso le quali anche le funzioni di governo locale sono partecipi del governo del rischio; con la conseguenza che profili di scarsa diligenza, perizia, prudenza nella gestione di tali meccanismi, se sono cause colpevoli di determinati eventi dannosi, possono diventare fonte di responsabilità penale per chi di tale mal-governo si sia reso responsabile.
Questo è certamente un profilo che merita approfondimento.
Tra questi due estremi, poi, si può individuare un contesto – per così dire – mediano, anch’esso meritevole di approfondimento, che è quello della responsabilità penale che può derivare quale conseguenza di un uso illegittimo, o meglio sarebbe dire illecito, della discrezionalità amministrativa, capace di riverberare dei profili di dolosa attività abusiva nell’esercizio di una determinata funzione di amministrazione locale.
Il legislatore, consapevole della criticità di questa materia, ha tipizzato con assoluto rigore le forme e le modalità con le quali questo tipo di condotta illecita può diventare penalmente rilevante, a titolo di abuso d’ufficio: ha indicato delle specifiche modalità tipiche che configurano il reato – la violazione di legge o di regolamento e la mancata astensione in caso di conflitto d’interessi –, ha preteso un dolo di sostegno della condotta criminosa particolarmente marcato – quello intenzionale ­–, ha indicato la necessità che il comportamento generi un evento illegale – un ingiusto vantaggio patrimoniale o un danno ingiusto –.
Queste “cautele normative”, da un lato mettono certamente a riparo l’amministratore locale che si comporti correttamente da macro-rischi penali di questo tipo.
Tuttavia, l’ambito della responsabilità per abuso d’ufficio, a ben vedere, presenta soverchie criticità, perché non serve essere votati all’illecito – come nelle ipotesi di concussione e di corruzione – per poterci cadere; mentre l’effetto destabilizzante, da un punto di vista giuridico, oltreché sul profilo reputazionale e della carriera politica di chi v’inciampa, è particolarmente pesante, paragonabile a quello del pubblico amministratore che doverosamente vede la propria carriera compromessa, in quanto responsabile di fatti della tipologia della prima classe.
Metodologicamente può trattarsi per primo quest’ultimo contesto, per poi riprendere, alla fine, il tema della responsabilità colposa. L’uno e l’altro, tuttavia, impongono di entrare nel vivo anche dell’analisi dei diversi ambiti, e delle diverse soggettività, nelle quali si posso esprimere le funzioni di governo locale.
Proprio il tema dei soggetti coinvolti nelle funzioni di governo locale induce a una prima considerazione, di tipo ordinamentale, che ha – forse è più corretto affermare dovrebbe avere – importanti conseguenze anche sul piano della responsabilità penale individuale.
Il tema è quello, noto, attualmente cristallizzato nell’art. 107 del T.U.E.L., della separazione rigida, che vige tra il livello dell’indirizzo politico e il livello dell’azione amministrativa all’interno degli Enti locali.
La norma che ho appena citato sembra essere molto chiara: mentre agli organi di governo – politico – spettano poteri d’indirizzo e controllo, la gestione amministrativa, finanziaria e tecnica è attribuita in via esclusiva ai dirigenti, dotati di autonomo potere di spesa, di organizzazione delle risorse umane, strumentali e di controllo.
Ai dirigenti – prosegue l’art. 107 citato – spettano tutti i compiti non espressamente annoverati tra le funzioni d’indirizzo e di controllo politico-amministrativo, tra i quali – e sono certamente i più importanti – l’adozione degli atti e dei provvedimenti amministrativi che impegnano l’amministrazione verso l’esterno.
I dirigenti amministrativi sono responsabili di tutto, si potrebbe osservare, posto che presiedono le commissioni di gara e di concorso, hanno la responsabilità della procedura dei concorsi e degli appalti, stipulano i contratti, assumono gli atti di gestione finanziaria, compresi gli impegni di spesa, gli atti di amministrazione e gestione del personale, i provvedimenti di autorizzazione e concessione (anche in ambito edilizio), di sospensione dei lavori, di irrogazione di sanzioni … e così via.
La responsabilità dei dirigenti, in relazione agli obiettivi dell’Ente, è sancita come diretta ed esclusiva, della correttezza amministrativa, dell’efficienza e dei risultati della gestione.
Quale spazio può residuare, al netto della patologia dell’accordo criminale doloso tra dirigente di un Ente locale e soggetto del governo politico, per una responsabilità penale di quest’ultimo, se l’azione amministrativa è sottratta per legge dalle sue responsabilità istituzionali?
Nessuno verrebbe da dire a prima lettura, perché non può commettere condotta abusiva in ambito amministrativo, colui che la responsabilità dell’azione amministrativa non ha.
Questo è il contesto nel quale si collocano quelle decisioni della Corte di Cassazione le quali, di fronte ad una condotta abusiva in ambito amministrativo, facente riferimento a funzioni di esclusiva competenza dirigenziale, hanno ritenuto non configurabile alcuna condotta di abuso d’ufficio in capo al vertice dell’organo del governo politico dell’Ente, vale a dire il Sindaco.

Così, ad esempio, in relazione alla mancata adozione di un provvedimento di demolizione di un’opera edilizia abusiva, letteralmente in quanto l’art. 107, comma 3 lett. g) d.l. 267/00 attribuisce espressamente ai dirigenti ‘tutti i provvedimenti di sospensione dei lavori, abbattimento e riduzione in pristino di competenza comunale (Cass. Pen., sez. VI, 09/04/2003, n. 39087).
Residua però, naturalmente, per Sindaci e assessori, lo spazio per la responsabilità penale normalmente ascrivibile alla disciplina del concorso di persone nel reato; il tema non è banale, non è riducibile all’affermazione – ovvia – che se il soggetto del governo politico concorre con il dirigente nella commissione di un reato, dello stesso ovviamente risponde.
Non è banale perché il tema di quali siano le modalità concrete attraverso le quali può realizzarsi il concorso di un soggetto, assieme ad altri, nella commissione di un reato, è uno dei più complessi e affascinanti della dottrina penalistica, che non trova risposta nella dizione normativa; che il codice del 1930 ha voluto neutra e priva di contenuto precettivo, stabilendo solo che tutti coloro che concorrono rispondono della commissione del reato, ma senza nulla dire su come si concorre.
L’impostazione dottrinale che ha riempito di contenuto la dogmatica del concorso di persone nel reato è quella della cd. teoria dell’accessorietà, che nasce in Germania, dove è stata elaborata la distinzione tra correità e partecipazione, quest’ultima classificata in istigazione (complicità morale) ed agevolazione (complicità materiale): l’ordinamento penale tedesco, pur riunendo le diverse forme di concorso sotto uno stesso titolo del Codice, dedicato alla categoria di genere della «partecipazione» in senso lato (Teilnahme), distingue nettamente la correità (Mittäterschaft), prevista nel §47, dall’istigazione (Anstiftung) e dalla agevolazione (Beihilfe), disciplinate rispettivamente nei §48 e 49.
Nell’ambito di questa dottrina sono possibili più declinazioni delle modalità di disciplina del concorso, tra le quali le più importanti sono certamente quella dualista e quella monista.
La concezione dualista, non considerata dal nostro legislatore attuale (diversamente dal precedente codice Zanardelli), differenzia la responsabilità tra correo – colui che partecipa alla commissione del fatto – e complice – colui che vi contribuisce dall’esterno, senza compiere alcun segmento dell’azione criminosa tipica, considerandoli responsabili, rispettivamente, per la commissione di reati diversi, seppur compresi nella fattispecie concorsuale.
La concezione monista sposata dal nostro legislatore, invece, considera che  autore principale e compartecipe si configurano come soggetti cui si devono contributi diversi, ma nell’ambito di un unico reato; e dell’unico reato entrami sono chiamati a rispondere, in concorso; anche se il compartecipe, magari, non ha posto in essere alcun segmento, nemmeno minimo, della condotta criminosa contestatagli a titolo di concorso.
È questo l’ambito del cd. concorso morale, nelle forme della determinazione, che fa sorgere un proposito criminoso precedentemente inesistente, e dell’istigazione, che rafforza un proposito criminoso già esistente; nozioni diverse che risultano tuttavia certamente riconducibili ad una categoria concettuale unica – vale a dire quella dell’istigazione, di cui parla l’art. 115 del c.p. –, che comprende anche la forma della determinazione.
Quando un soggetto è da considerarsi istigatore del commesso reato da parte di un altro soggetto? Quando la spinta dall’esterno del primo è causa efficiente del comportamento materiale del secondo, afferma la giurisprudenza; e quindi il giudice deve accertare i collegamenti tra i due soggetti, deve precisare perché il reato è venuto a realizzarsi in ragione e in conseguenza di quegli specifici incentivi, deve capire se l’autore materiale del reato ha percepito l’indicazione dell’istigatore come vera e propria causa determinante della sua azione criminosa.
Alla luce di quanto ho appena ricordato, il tema della costruzione, prima investigativa e poi processuale, dell’eventuale concorso morale del vertice dell’organo del governo politico, rispetto all’azione criminosa di un dirigente amministrativo, è molto delicato, manifesta delle potenziali criticità, in ragione del disallineamento fisiologico che sussiste tra organo politico che nomina – e può revocare – i dirigenti, e questi ultimi: e quindi della normale capacità di condizionamento del primo, in posizione apicale, sulle decisioni e sulle azioni dei secondi.
Con la conseguenza, da tenere bene a mente, che l’organo di vertice politico corre il rischio, in ragione della propria posizione di supremazia istituzionale, di divenire una sorta di “istigatore da posizione”, nel senso che i suoi desideri, le sue semplici indicazioni, possono essere interpretati, dagli organi amministrativi, come causa determinante di una data azione; e questo significa, purtroppo, correre il rischio di essere coinvolti in una vicenda di tipo penalistico, pur rimanendo estranei sia a comportamenti materialmente illeciti, sia ad azioni di chiara e voluta istigazione alla condotta illecita altrui.
Vi è poi – ma qui la consapevolezza della natura illecita del comportamento è più evidente – il potenziale di “ricatto”, attraverso la rappresentazione del rischio di revoca del dirigente, che può usare il vertice politico del governo locale sul dirigente amministrativo; tuttavia, se tale “incentivo” viene usato per favorire un’azione illecita del dirigente amministrativo, non residuano dubbi circa il fatto che esso potrebbe assumere il significato della determinazione o dell’istigazione, in capo al secondo, a commettere il reato: situazione che anch’essa può determinare la responsabilità del “politico”, a titolo di concorso con il dirigente, nel reato commesso materialmente dal secondo.
Rispetto a quest’ultimo scenario, tuttavia, vanno evidenziati tutta una serie di temperamenti, che non dovrebbero rendere così – per semplificare – automatico, questo profilo di responsabilità penale concorsuale.
Anzitutto, non qualsiasi interesse o desiderio del politico può riverberare sempre i tratti della determinazione e/o dell’istigazione a commettere il reato, perché il dirigente sollecitato gode delle tutele e degli obblighi che, rispetto al suo ruolo, l’ordinamento gli attribuisce.
Iniziando dal versante delle tutele, nonostante la natura (quantomeno in parte) privatistica del rapporto di lavoro che lega il dirigente al Comune di appartenenza, proprio perché al dirigente è attribuito l’esercizio di potestà pubblicistiche e il potere d’impegnare l’amministrazione con i soggetti a essa esterni, la Cassazione ha inteso responsabilizzare in modo significativo l’organo di vertice del governo politico di un Ente locale, stabilendo che la revoca illegittima del dirigente da parte del sindaco può integrare il reato di abuso d’ufficio (Cass. Pen., sez. VI, 02/04/2009, n. 19135).
Ma, poi, sul versante degli obblighi il dirigente amministrativo, che è pubblico ufficiale, ha un dovere giuridico di resistenza alle pressione indebite del politico che gli deriva dall’obbligo, penalmente sanzionato, della denuncia delle notizie di reato che apprende nell’esercizio delle sue funzioni: tra esse rientrano certamente le pressioni indebite dell’organo politico.

E appare arduo poter dubitare del fatto che le pressioni indebite dell’organo politico sul dirigente amministrativo, per determinarlo ad una condotta illecita, se sostenute dall’argomento del potere di ricatto del primo sul secondo, e laddove – come è fisiologico che possa essere – legate ad un particolare tornaconto di natura economica in capo al primo, diventano condotte penalmente illecite, dell’organo politico, a titolo di concussione o quantomeno d’induzione indebita: che il dirigente pubblico ufficiale ha il dovere di denunziare.
Fuori dalle ipotesi di concorso di persone nel reato tra organo politico e dirigente amministrativo, comunque, l’art. 107 del T.U.E.L. sembra operare da norma di salvaguardia per il primo, rispetto all’eventuale azione illecita del secondo.
Tuttavia, alla prima lettura delle norme “liberatorie” è sempre bene farne seguire quantomeno una seconda, perché è noto che le regole tollerano sempre delle deroghe; e soprattutto perché la separazione così netta tra governo politico e amministrazione, che ho appena ricordato, non è sempre facile da declinare e da far valere in capo a determinati soggetti.
Anzitutto, da un punto di vista logico, prima che giuridico, se i vertici dirigenziali dell’Ente locale sono nominati fiduciariamente dal vertice politico, affinché perseguano gli obiettivi d’indirizzo politico amministrativo degli organi di governo, un collegamento, di merito, tra le due diverse funzioni, comunque c’è: e non è sempre facile capire come tracciare la linea di confine tra le stesse.
Inoltre, la regola dell’art. 107 non vale per gli Enti locali cosiddetti minori, con popolazione inferiore ai 5.000 abitanti.
Il dato non può essere trascurato, anzi è molto significativo, perché questi cosiddetti “minori” risultano essere – dati ISTAT al 1 gennaio 2016 – il 69,83% dei comuni italiani, con un picco del 98,65% – 73 su 74 – in Valle d’Aosta.
Orbene, una disposizione della legge finanziaria del 2001 (art. 53, comma 23°, l. n. 388/2000) ha previsto che, al fine del contenimento della spesa pubblica, i componenti dell’organo esecutivo del comune possono assumere la responsabilità degli uffici e dei servizi e il potere di adottare atti anche di natura tecnica e gestionale.
Per cui, Sindaco e assessori della maggioranza dei comuni italiani non possono operare garantiti dal pregiudizio d’irresponsabilità amministrativa, che deriva dalla regola generale della separazione da essa dell’indirizzo politico, nel momento in cui sono chiamati a ricoprire contemporaneamente l’uno e l’altro ruolo.
Vi è poi un ulteriore indicatore normativo da considerare, in relazione alla figura più importante del governo locale, che è il Sindaco: eletto direttamente dal suffragio popolare, egli incarna con sempre maggiore importanza e visibilità il ruolo di massima espressione democratica, in quanto diretta e di prossimità. Un’espressione democratica particolarmente rilevante per la cittadinanza, perché d’immediato riferimento, senza particolari mediazioni.
Gli artt. 50 e 54 del T.U.E.L. attribuiscono al Sindaco (come al presidente della provincia, figura che però può essere trascurata, non essendo più destinataria d’investitura popolare elettiva) la responsabilità dell’amministrazione del comune, oltre che la rappresentanza dell’ente, oltreché tutta una serie di potestà amministrative, non in qualità di vertice del governo dell’Ente locale, ma quale ufficiale del Governo nazionale, in materia di ordine e sicurezza pubblica, tenuta dei registri dello stato civile, in materia elettorale e di leva militare (sospesa, non abolita).
A dispetto della separazione predicata dall’art. 107, e degli effetti liberatori che essa ulteriormente produce sulla responsabilità del governo politico di un Ente locale, proprio tali norme sono state invocate quale riferimento, forse è più corretto affermare quale grimaldello normativo, per invocare in capo ai vertici dell’amministrazione politica di un Ente locale alcuni profili di responsabilità da posizione certamente rilevante.
In definitiva, la netta separazione normativa fra funzioni politiche degli organi di governo e funzioni amministrativo-gestionali non è così automatica, come pretenderebbe la legge.
E più di qualche conseguenza sul rischio della responsabilità penale delle funzioni di governo locale questa constatazione ce l’ha di sicuro, in particolare sul versante della responsabilità colposa.
Infatti, l’effetto più rilevante che l’art. 107 del T.U.E.L. dovrebbe produrre, in relazione al tema della responsabilità penale nel governo degli Enti locali, è quello di certificare l’assenza di posizioni di garanzia, in capo a quest’ultimo, rispetto agli effetti dello svolgersi dell’azione amministrativa dei dirigenti.
Questa considerazione è potenzialmente molto rilevante, perché le posizioni di garanzia, nel diritto penale, sono quelle che fondano la responsabilità omissiva impropria, vale a dire la responsabilità per non aver impedito il verificarsi di determinati eventi dannosi, quando si sia gravati dell’obbligo giuridico (quello che deriva dalla posizione di garanzia) di impedirli.
Ebbene, la sostanza teorica del ragionamento può essere sintetizzata in questi termini: se le funzioni gestorie sono della sola dirigenza, il potere d’indirizzo e di controllo politico-amministrativo sull’azione concreta dei dirigenti non comporta il sorgere, in capo agli organi del governo politico, di un obbligo giuridico d’impedire la commissione di eventuali reati da parte dei dirigenti.
In questo contesto si collocano, ad esempio, le decisioni che escludono la responsabilità del Sindaco, per reati in materia urbanistico-paesaggistica, perché dalla disposizione dell’art. 107 in esame – testualmente – se ne deve desumere l’insussistenza in capo al Sindaco di un generale dovere di vigilanza sulle attività che incidono sull’assetto urbanistico e paesaggistico del territorio (Cass. Pen., sez. III, 21/06/2011, n. 36571).
Allo stesso modo si spiega quella – oramai consolidata – giurisprudenza di legittimità che, rispetto alle conseguenze dannose per l’incolumità individuale che possono derivare causalmente da una negligente manutenzione delle strade, individua, per il reato di lesioni colpose, la sola responsabilità del dirigente del dipartimento dei lavori pubblici, o comunque dell’ufficio tecnico comunale preposto alla manutenzione della rete stradale del Comune ove si è verificato l’infortunio, e non del Sindaco o dell’assessore competente (Cass. Pen., sez. IV, 02/07/2013, n. 33206; Cass. Pen., sez. IV, 16/02/2011, n. 13775; Cass. Pen., sez. IV, 01/04/2008, n. 21040).
Da ultimo, può essere ricordato come una conferma della tesi dell’irresponsabilità penale del governo politico, per le conseguenze dell’azione amministrativa dei dirigenti, è certamente data, quantomeno in termini di coerenza ordinamentale, dalla disciplina in materia di responsabilità erariale del governo politico di un Ente: l’art. 1, l. n. 20/1994, stabilisce infatti che, in caso di danni derivanti da atti che rientrano nella competenza propria degli uffici tecnici e amministrativi, la responsabilità contabile non si estende ai titolari degli organi politici, che in buona fede li abbiano approvati, ovvero ne abbiano autorizzato o consentito l’esecuzione.

Sarebbe infatti ben paradossale immaginare di poter configurare un’ipotesi di responsabilità penale, la più grave, in capo a chi, per la medesima fattispecie, è sollevato per legge dal profilo della responsabilità erariale; se la posizione di garanzia è esclusa in relazione all’evento dannoso di natura patrimoniale, è assurdo pensare che essa possa sussistere in relazione all’evento dannoso di natura penalistica.
L’esclusione della responsabilità da posizione di garanzia, per i reati omissivi impropri, naturalmente, non produce nessun effetto sulla responsabilità penale degli organi del governo politico, per le eventuali responsabilità penali omissive proprie.
I soggetti del governo politico degli Enti locali, infatti, rivestono certamente la qualifica di pubblici ufficiali, che non possono essere penalmente indifferenti rispetto alla condotta illecita dei dirigenti amministrativi. Ed ecco che l’assessore o il Sindaco, così come non rispondono penalmente dell’omesso impedimento del reato commesso dal dirigente amministrativo, se della commissione del reato stesso vengono a conoscenza rispondono certamente del delitto previsto dall’art. 361 c.p., essendo obbligati, a pena di sanzione penale, a denunziare tutti i reati dei quali abbiano avuto notizia nell’esercizio o a causa delle loro funzioni.
Il tema dello spazio della penale responsabilità degli organi del governo locale, nell’ambito della suddivisione tra funzioni d’indirizzo politico e attività amministrativa tracciata dall’art. 107 del T.U.E.L. può considerarsi interlocutoriamente esaurito, ancorché sarà ripreso in coda alla presente riflessione.
Appare opportuno, a questo punto, dedicare un po’ di attenzione alla figura di vertice degli organi del governo locale, che è certamente quella del Sindaco, che, come già accennato, è titolare, in forza della previsione dell’art. 54 del T.U.E.L., di compiti amministrativi propri, quale organo delegato del governo. Rispetto a tali compiti, la prospettiva della separazione tra indirizzo politico e azione amministrativa, fino a questo momento analizzata, non può essere fatta valere.
Tale previsione legislativa richiama – anche con una certa ridondanza – i temi dell’ordine e della sicurezza pubblica, rispetto ai quali il Sindaco è designato come soggetto che sovraintende: a) all’emanazione degli atti attribuitigli dalla legge e dai regolamenti, b) allo svolgimento delle funzioni affidategli dalla legge, c) alla vigilanza su tutto quanto possa interessare la sicurezza e l’ordine pubblico, informandone tempestivamente il prefetto.
Questo contesto normativo, che è in linea con il sempre più massiccio coinvolgimento dei Sindaci, da parte della cittadinanza, quali interlocutori primari dei problemi di sicurezza pubblica sul territorio, è il prodotto di una scelta legislativa ben precisa, quella adottata con il cd. pacchetto sicurezza del 2008 (il d.l. 23.05.2008, n. 92, conv. in l. 24.07.2008, n. 125).
È con tale decreto legge che appare la nozione giuridica di “sicurezza urbana”, coniata con la previsione, dell’attuale comma 4° dell’art. 54 del T.U.E.L., secondo la quale il sindaco, quale ufficiale del Governo, adotta con atto motivato provvedimenti, anche contingibili e urgenti nel rispetto dei princìpi generali dell’ordinamento al fine di prevenire e di eliminare gravi pericoli che minacciano l’incolumità pubblica e la sicurezza urbana.
Il comma 4° bis del citato art. 54, poi, rimanda alla determinazione di un regolamento – potenzialmente illegale, rispetto alla gerarchia delle fonti, non potendo una norma regolamentare, sotto-ordinata, determinare il contenuto di una norma di legge sovra-ordinata – la definizione del concetto di sicurezza urbana, che un decreto del Ministero dell’Interno del 05.08.2008, all’art. 1, descrive così: un bene pubblico da tutelare attraverso attività poste a difesa, nell’ambito delle comunità locali, del rispetto delle norme che regolano la vita civile, per migliorare le condizioni di vivibilità nei centri urbani, la convivenza civile e la coesione sociale.
Dobbiamo poi ricordare che l’art. 2 del citato decreto ministeriale individua e prescrive, proprio ai sensi di quanto disposto dall’art. 1, che il sindaco interviene per prevenire e contrastare ogni e ciascuna situazione urbana di degrado che possa favorire l’insorgere di comportamenti criminali: dallo spaccio di stupefacenti, allo sfruttamento della prostituzione, all’accattonaggio, all’abuso di alcool, all’occupazione abusiva di immobili, agli intralci alla pubblica viabilità, alle offese alla pubblica decenza, e quant’altro[2].
Quale valutazione induce tale ricognizione normativa e regolamentare?
Dalla lettura dell’art. 54 del T.U.E.L. e dell’art. 2 del d.m. di agosto 2008, voluti dal pacchetto sicurezza, emerge, in maniera  difficilmente contestabile, il fatto che il Sindaco è un soggetto del governo politico dell’Ente locale gravato da un’amplissima posizione di garanzia in materia di sicurezza urbana, sia di controllo sulle situazioni di pericolo, sia di protezione dalle conseguenze dannose di tali situazioni, nei confronti della cittadinanza, potenzialmente fonte di un amplissimo rischio di responsabilità penale nell’attività di governo locale.
Sembra non sia stato, neanche dall’Autorità giudiziaria, ancora affrontato adeguatamente il fatto che il Sindaco potrebbe essere chiamato a rispondere, in termini di responsabilità penale colposa da omesso impedimento dell’evento dannoso, per non aver correttamente governato il rischio delle conseguenze dell’insicurezza urbana, in una molteplicità indefinita di situazioni oggettivamente incontrollabili.
La domanda di sicurezza urbana, infatti, è noto che è sempre crescente, a volte anche in modo totalmente irrazionale rispetto alle situazioni di supposto pericolo realmente esistenti.
Quindi non sembra corretto fare affidamento sull’assenza di pregresse vicende giudiziarie in tal senso; la posizione di garanzia gravante sulla figura del Sindaco, gli obblighi giuridici descritti dalle norme analizzate, sono e restano lapidari. E con essi i potenziali profili di responsabilità penale da omesso impedimento dell’evento già ricordati.
Inoltre, non c’è solo l’art. 54 del T.U.E.L. che fissa in capo al Sindaco la titolarità di funzioni amministrative; c’è anche l’art. 50, che al 1° comma lo proclama responsabile dell’amministrazione del Comune.
E proprio quest’ultima è la norma usata dalla giurisprudenza per ritenere configurabile, in capo al Sindaco, quella responsabilità penale, da posizione di garanzia, per le conseguenze dannose dell’azione amministrativa dei dirigenti, che, invece, una corretta lettura dell’art. 107, più volte richiamata, impone di escludere; questa la ragione per la quale, in esordio a questa riflessione, l’art. 50 è stato definito “norma grimaldello”: perché effettivamente finisce per scardinare quello che è – forse sarebbe meglio dire dovrebbe essere – un pilastro della separazione fra livello del governo politico e azione amministrativa, all’interno degli Enti locali.
Il caso è quello della famosa sentenza n. 20050 della Sezione IV della Corte di Cassazione, del 12/01-13/05/2016, che ha confermato la condanna per omicidio colposo del Sindaco di Firenze, per non aver impedito il decesso di una persona, precipitata da un bastione murario nel vuoto non visibile, in un luogo nel quale l’amministrazione comunale aveva autorizzato una rassegna di musica jazz, nonostante la pericolosità intrinseca, nota al Sindaco, del posto.

La Corte, sul punto, non ha ritenuto in alcun modo esclusiva la responsabilità degli uffici amministrativi, in forza del dirimente art. 107 T.U.E.L., perché tale norma non farebbe venire meno, che il sindaco, quale organo responsabile dell’amministrazione del Comune – ecco il riferimento all’art. 50 – debba svolgere un ruolo di controllo sull’operato dei suoi dirigenti, configurandosi così un suo potere-dovere di vigilanza e di sostituzione, da esercitare, in particolare, in presenza di conosciute situazioni che pongono in pericolo la salute delle persone, … così configurandosi una posizione di garanzia il cui mancato esercizio può essere fonte di responsabilità in caso di evento dannoso.
Di tale arresto giurisprudenziale, che pur si presta a una lettura critica, non si può non tenere conto. Perché, in una prospettiva più di equità che di giustizia formale, la Corte di Cassazione ha inteso, attraverso l’art. 50 del T.U.E.L., gravare il Sindaco di un profilo di responsabilità penale, perché era stato provato che egli era a conoscenza della situazione pericolosa, ma nulla aveva fatto, nonostante il suo ruolo istituzionale, per impedirla. E ne era derivata la morte di una persona, cioè l’aggressione al bene giuridico di primaria tutela per il diritto.
Resta, però, rispetto alla dogmatica penalistica, non esente da censure, perché la consapevolezza non coincide con la titolarità giuridica del potere concreto d’intervento: che il Sindaco, in una fattispecie come quella che abbiamo analizzato, sembra proprio non avere.
Il rapporto di protezione, tra Sindaco e cittadini, che s’instaurerebbe attraverso la strada interpretativa tracciata dalla Cassazione, rischia di essere concretamente inesigibile in capo al Sindaco, perché diventa eccessivamente indeterminata la sfera di controllo che egli dovrebbe esercitare, preoccupandosi e prevenendo sostanzialmente tutto.
L’idea della responsabilità penale quale effetto della sola consapevolezza dell’esistenza di una situazione di pericolo, senza che vi sia una reale fonte giuridica obbligatoria d’impedire gli eventi conseguenti, finisce infatti per cancellare i confini della responsabilità omissiva impropria; quella che il legislatore esige, per evidenti ragioni di legalità formale, circoscritta alla violazione di obblighi giuridici d’impedire gli eventi, non dei doveri morali conseguenti al livello di conoscenza, anche istituzionale, di una determinata fonte di pericolo.
Si tratta, a ben vedere, del livello più insidioso dei profili di responsabilità penale nell’esercizio delle funzioni di governo locale; che è assolutamente opportuno debba far parte della consapevolezza dei protagonisti di questa funzione di governo locale, imprescindibile per il tessuto sociale e istituzionale del nostro paese.

Note

1.  Intervento tenuto alla Scuola per la democrazia di Italiadecide, Aosta, 7 ottobre 2016.

2.  Ai sensi di quanto disposto dall’art. 1, il sindaco interviene per prevenire e contrastare: a) le situazioni urbane di degrado o di isolamento che favoriscono l’insorgere di fenomeni criminosi, quali lo spaccio di stupefacenti, lo sfruttamento della prostituzione, l’accattonaggio con impiego di minori e disabili e i fenomeni di violenza legati anche all’abuso di alcool; b) le situazioni in cui si verificano comportamenti quali il danneggiamento al patrimonio pubblico e privato o che ne impediscono la fruibilità e determinano lo scadimento della qualità urbana; c) l’incuria, il degrado e l’occupazione abusiva di immobili tali da favorire le situazioni indicate ai punti a) e b);d) le situazioni che costituiscono intralcio alla pubblica viabilità o che alterano il decoro urbano, in particolare quelle di abusivismo commerciale e di illecita occupazione di suolo pubblico; e) i comportamenti che, come la prostituzione su strada o l’accattonaggio molesto, possono offendere la pubblica decenza anche per le modalità con cui si manifestano, ovvero turbano gravemente il libero utilizzo degli spazi pubblici o la fruizione cui sono destinati o che rendono difficoltoso o pericoloso l’accesso ad essi”