I programmi economici dei candidati presidenziali americani

Nella campagna elettorale americana – forse non sorprendentemente – i temi economici sono rimasti vittime di affermazioni troppo generiche, imprecise e talvolta contraddittorie, e ovviamente di una generosità di propositi che difficilmente troveranno riscontro nella realtà politica, chiunque risulti vincitore. Il dibattito si svolge in un contesto di crescita modesta, redditi stagnanti con accentuata disuguaglianza, diffusione del precariato mascherato da lavoro autonomo, e perdurante squilibrio dei conti esteri, mentre cresce l’aspro dibattito sulla immigrazione illegale, anche per i risvolti sociali. Contesto, questo, che ci e’ familiare in Europa, se si eccettua, per l’Eurozona nel suo insieme, un sostanziale equilibrio nei conti esteri cui tuttavia fanno riscontro notevoli squilibri al suo interno. Contesto anche simile a quello del Regno Unito.
Se si trascurano circostanze e fattori che sono specifici della realtà americana, si riscontrano quindi comuni motivazioni politiche e si individuano, nelle dichiarazioni dei candidati, posizioni non lontane da quelle emergenti al di qua dell’Atlantico, in particolare nel Regno Unito del dopo Brexit.
Nella sconfitta senza attenuanti della “vecchia” sinistra (non solo negli SU, con Sanders, e nel RU, con Corbyn, ma anche nell’Europa continentale), il rimescolamento delle posizioni politiche contribuisce ad alimentare populismo, nazionalismo e antiglobalismo.
A “destra” degli schieramenti ci si allontana dal tradizionale antistatalismo e liberismo. La “sinistra” e’ da lungo tempo lontana da ogni intento redistributivo, sia se è al potere (Blair nel RU, B. Clinton, e di fatto lo stesso Obama, negli SU) sia se è all’opposizione. Essa assiste imbarazzata al ristagno o declino dei redditi reali della popolazione, litiga sulla sua genesi, arrivando a prospettare una sorta di ristagno “secolare”, e ha difficoltà a proporre politiche credibili per uscirne. C’è stata più attenzione al ruolo dello Stato nell’economia e al ruolo espansivo del bilancio pubblico nella nuova destra che in questa sinistra quasi liberista (vedasi il governo May sulla spesa pubblica); l’emergente diffidenza verso le grandi intese commerciali interzonali (Nord-America, Europa, Pacifico) è ora comune agli schieramenti, ma più sorprendente nella nuova sinistra.
Se questi orientamenti sono destinati a prevalere, la “nuova destra” americana ha ora più chances. Un acuto giornalista (W. Munchau sul F.T.) ha osservato: “la Brexit è un esempio calzante delle dinamiche delle insurrezioni dell’elettorato nelle democrazie del Nord Atlantico. Ci dice quanto velocemente posizioni di establishment ben radicate possano sgretolarsi, e come l’improbabile divenga inevitabile”.
E’ parsa opportuna questa premessa perchè altrimenti almeno alcune delle posizioni talora confusamente enunciate dai due candidati americani risulterebbero sorprendenti. Per convenienza, tali posizioni sono qui riassunte per tematica.

Politica fiscale
Il deficit federale è il più basso dal 2007, cioè dall’inizio della Grande Recessione, ma il debito pubblico è salito al 75% del PIL. Il Committee for a Responsible Federal Budget (un’organizzazione indipendente con sostegno bipartisan) prevede che, a legislazione costante, il debito sia comunque destinato a salire a circa il 90% nel 2026, a causa di programmi di spesa che sono fuori degli stanziamenti annuali (appropriations), come la Social Security (pensioni) e Medicare (assistenza sanitaria per anziani), che rappresentano oltre il 40% della spesa federale, e sono voci in salita a causa dell’invecchiamento della popolazione e del risultante declino del rapporto lavoratori/pensionati.
La Clinton ha detto che ogni nuova spesa dovrebbe trovare copertura, ma non ha detto come. Nel complesso il suddetto Committee prevede che con la Clinton l’evoluzione del debito federale non si allontanerebbe dalla suddetta linea di tendenza; i programmi di Trump porterebbero invece quel rapporto al 105%, nel 2026.
L’ampiezza della forbice (90%, Clinton, e 105%, Trump) si spiega in larga parte col fatto che Trump, criticato dal suo stesso partito, prevede un enorme incremento della spesa federale per infrastrutture – strade, aeroporti, ponti, e nei settori delle acque e dell’energia – , senza alzare la gas tax che per lo più la finanzia; quanto sia questo incremento è difficile dire: Trump ha affermato che egli desidera una spesa addizionale “oltre il doppio di quella voluta dalla Clinton”, che è 275 mld di dollari in cinque anni. Sono citate cifre che raggiungono gli 800/1000 mld (non chiaro in quanti anni): verrebbe creato un fondo per le infrastrutture, finanziato dall’emissione al pubblico di titoli di debito federale. È interessante osservare che questo enorme programma per le infrastrutture è appoggiato da un Democratico come il prof Summers, già ministro del Tesoro di Clinton, che lo considera il modo corretto per fronteggiare il “ristagno secolare”. Trump propone inoltre un incremento della spesa militare, tagliando invece altri programmi di spesa, e tuttavia salvando Medicare e Social Security. Circa le pensioni, in particolare, ancora una volta diversamente dai leader del suo partito, che propendono per aumenti dell’età pensionabile e un tetto alle pensioni più alte, Trump pensa che basti eliminare sprechi e abusi, cosa ritenuta poco credibile. Altrettanto ottimisticamente ritiene che, sotto la sua presidenza, un forte aumento del PIL, dell’ordine del 3,5/4% annuo contro circa il 2% corrente, valga a non far esplodere il rapporto debito/PIL.
Clinton propone invece una spesa per infrastrutture ben più limitata e la creazione di un’apposita banca, la Infrastructure Bank: 275 mld (come detto sopra), da finanziare con una riforma della tassazione delle imprese. Sulle pensioni, essa propone protezioni per le pensioni più basse e qualche incremento di tassazione per quelle più elevate.
Un punto controverso e’ la c.d. “Obamacare”, cioè la legge faticosamente approvata nel 2010, che estende la copertura assicurativa sanitaria, ponendo vincoli alle società assicurative sulla accettabilità di nuovi assicurati e sui costi della copertura. Dal 2010 al 2014 il numero dei non-assicurati e’ sceso di 11,4 mln. Trump ne vuole l’abolizione, in considerazione dei costi, e propone una riforma basata sui principi del libero mercato e sulla libertà di scelta dei cittadini.

Tassazione
Circa la tassazione, la tradizionale distinzione tra Repubblicani e Democratici emerge con più chiarezza. Trump ha recentemente proposto un’aliquota del 15% sul reddito societario, dall’attuale 35%, sia per le piccole che per le grandi imprese, e l’abolizione dell’imposta sulla proprietà immobiliare. Quanto alla tassazione personale, egli propone la riduzione degli scaglioni da 7 a 3, con un massimo del 33%, dal 39,6%, e nel contempo la riduzione della tassazione sulla working class e la classe media, con una aliquota effettiva pari a zero per i più poveri.
Clinton propone più alte tasse sui reddituari più elevati. Emblematica e “di effetto” e’ la proposta della Buffet Rule (così detta dal nome del miliardario, che peraltro appoggia la Clinton), per la quale nessun dirigente d’impresa con redditi elevatissimi potrà – come evidentemente avviene – pagare meno tasse della sua segretaria (!), attraverso elusioni tributarie (loopholes) di vario genere. Propone anche la fine della c.d. “inversione fiscale”, grazie alla quale un’impresa trasferisce fittiziamente la propria sede all’estero onde sfuggire alla tassazione domestica. Fonti di stampa parlano anche di un non meglio esplicitato contributo (fee) sulle grandi banche, quasi a voler farsi perdonare la perdurante accusa dell’opinione pubblica al governo Democratico di essere morbido con Wall Street.

Banca centrale e politica monetaria
Sulla Federal Reserve, è disponibile la presa di posizione di un’economista, Judy Sheldon (già Hoover Institution, un think-tank conservatore), membro dell’economic advisory council di Trump. I toni populisti cui si faceva cenno sono evidenti. Essa critica la politica dei bassi tassi d’interesse che, senza stimolare la crescita economica, ha canalizzato la liquidità verso la speculazione sui mercati finanziari, generando bolle, e invece danneggiando risparmiatori e pensionati (non remunerazione dei conti di deposito, difficoltà dei fondi pensione privati). Trump si è però astenuto dal criticare la Yellen, presidente della FedReserve, osservando che alzare i tassi al momento attuale potrebbe accendere una nuova crisi finanziaria. Occorre piuttosto – scrive la Sheldon – un nuovo complesso di regole monetarie, un ripensamento del sistema monetario internazionale, da basare su fondamenta monetarie stabili, che restituiscano un ruolo centrale all’oro. Trump non ha pubblicamente avallato l’idea, ma ha detto: “Tornare al gold standard sarebbe difficile, ma, boy [!], sarebbe meraviglioso”.
Clinton, senza entrare nell’attuale politica, auspica una rivoluzione nella governance della Fed, togliendo i banchieri dai consigli d’amministazione delle 12 Banche della Riserva regionali, e cessando la “porta girevole” tra la Fed e Wall Street. La Clinton deve infatti tener conto dell’ala sinistra del partito (Sanders), particolarmente vivace su questi temi, per cui diverse nomine nella sua Amministrazione dovranno essere di gradimento della sinistra, e perciò sgradite alla elite del settore finanziario.
Questo settore – banche e grandi investitori – guarda tuttavia a Trump con maggiore diffidenza, se non altro perché egli ha spesso attaccato le banche con enfasi retorica, anche se ha promesso il superamento della legge Dodd-Frank di riforma del sistema finanziario e di molte sue norme attuative. Di Clinton è conosciuta la sua familiarità con grandi esponenti del settore: vi saranno – si dice – nuove tasse e altre regolamentazioni, ma saranno compensate da complessi incentivi ed esenzioni. Essa dovrà riconciliare quella familiarità con le istanze della sua sinistra.

Politica industriale e commercio internazionale
Trump si propone difensore della vecchia industria pesante, insidiata dalla concorrenza estera e da nuove tecnologie, riscuotendo consensi nelle zone dove essa è stata più forte (la c.d. rust belt – cintura rugginosa – della zona est degli SU). La sua promessa e’ “far di nuovo grande l’America ricreando posti di lavoro nell’industria”. Nell’Ohio, ad esempio, una volta sede di prospere acciaierie e di miniere di carbone, egli ha un chiaro vantaggio su Clinton, la quale ammette che è inevitabile un ulteriore calo occupazionale nelle miniere, da compensare con un passaggio alle energie rinnovabili. In tale ottica, Trump, lungi dal proporre nuove aperture alla concorrenza estera, minaccia invece l’introduzione di nuove tariffe.
C’è comunque una cautela condivisa su nuove aperture al commercio internazionale, piuttosto inattesa con riferimento a Clinton, che deve però tener conto del disagio di tutti i settori colpiti dalla concorrenza estera. Entrambi i candidati si oppongono alla Trans-Pacific Partnership, coinvolgente 12 paesi, promossa invece dall’Amministrazione Obama, ma opposta da Sanders, e non ancora ratificata. Particolarmente aspro è Trump sulla Cina: chiede che il Tesoro la includa tra i paesi currency manipulators (si ricorda che attualmente tre paesi – Cina, Germania e Giappone – sono “in osservazione”, ma nessuno ha tale qualifica). Egli accusa inoltre la Cina per la politica commerciale, chiedendone il deferimento al WTO.
I due candidati hanno anche messo in questione aspetti della già esistente NAFTA (accordo di libero scambio tra i paesi del Nord America), con particolare accento negativo, da parte di Trump, sul Messico: ponga termine agli sweatshops (fabbriche con condizioni di lavoro socialmente inaccettabili), che tolgono lavoro agli americani. Egli lamenta che il commercio col Messico, in pareggio nel 1993, abbia ora un deficit per gli SU di 60mld. In apparente sott’ordine è il prospettato accordo commerciale con l’Europa (su cui, come noto, sono anche cresciute le diffidenze europee, in un chiaro segno di generalizzato ritorno a istanze nazionalistiche/regionali).

Salario minimo e immigrazione
Dopo iniziali oscillazioni, Trump è ora in linea con la Clinton nel chiedere un aumento del salario minimo dagli attuali $7,25 all’ora, dal 2009. Ancora una volta, egli rompe col suo partito, più rigido sul tema. La sua proposta – $10 – è comunque più bassa di quella dalla Clinton: $12, con possibilità per Stati e municipalità di elevarlo ulteriormente.
Particolarmente rigido è Trump sull’immigrazione (peraltro vicino a certe posizioni dei conservatori inglesi nel post Brexit): i posti di lavoro disponibili devono essere offerti in primo luogo agli americani; gli immigrati vanno scelti sulla base della loro probabilità di successo negli SU e della loro capacita’ di indipendenza economica, e anche valutati sulla base della loro adesione ai valori istituzionali degli SU.
Clinton prospetta invece la necessità di agevolare il loro inserimento nella società americana, e di applicare le leggi sul’immigrazione con umanità.

L’aumento della temperatura elettorale nelle ultime settimane porta a non escludere ulteriori cambiamenti nelle prese di posizione dei candidati, non certo a favore di una maggior chiarezza.