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I programmi economici dei candidati presidenziali americani

di - 25 Ottobre 2016
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Nella campagna elettorale americana – forse non sorprendentemente – i temi economici sono rimasti vittime di affermazioni troppo generiche, imprecise e talvolta contraddittorie, e ovviamente di una generosità di propositi che difficilmente troveranno riscontro nella realtà politica, chiunque risulti vincitore. Il dibattito si svolge in un contesto di crescita modesta, redditi stagnanti con accentuata disuguaglianza, diffusione del precariato mascherato da lavoro autonomo, e perdurante squilibrio dei conti esteri, mentre cresce l’aspro dibattito sulla immigrazione illegale, anche per i risvolti sociali. Contesto, questo, che ci e’ familiare in Europa, se si eccettua, per l’Eurozona nel suo insieme, un sostanziale equilibrio nei conti esteri cui tuttavia fanno riscontro notevoli squilibri al suo interno. Contesto anche simile a quello del Regno Unito.
Se si trascurano circostanze e fattori che sono specifici della realtà americana, si riscontrano quindi comuni motivazioni politiche e si individuano, nelle dichiarazioni dei candidati, posizioni non lontane da quelle emergenti al di qua dell’Atlantico, in particolare nel Regno Unito del dopo Brexit.
Nella sconfitta senza attenuanti della “vecchia” sinistra (non solo negli SU, con Sanders, e nel RU, con Corbyn, ma anche nell’Europa continentale), il rimescolamento delle posizioni politiche contribuisce ad alimentare populismo, nazionalismo e antiglobalismo.
A “destra” degli schieramenti ci si allontana dal tradizionale antistatalismo e liberismo. La “sinistra” e’ da lungo tempo lontana da ogni intento redistributivo, sia se è al potere (Blair nel RU, B. Clinton, e di fatto lo stesso Obama, negli SU) sia se è all’opposizione. Essa assiste imbarazzata al ristagno o declino dei redditi reali della popolazione, litiga sulla sua genesi, arrivando a prospettare una sorta di ristagno “secolare”, e ha difficoltà a proporre politiche credibili per uscirne. C’è stata più attenzione al ruolo dello Stato nell’economia e al ruolo espansivo del bilancio pubblico nella nuova destra che in questa sinistra quasi liberista (vedasi il governo May sulla spesa pubblica); l’emergente diffidenza verso le grandi intese commerciali interzonali (Nord-America, Europa, Pacifico) è ora comune agli schieramenti, ma più sorprendente nella nuova sinistra.
Se questi orientamenti sono destinati a prevalere, la “nuova destra” americana ha ora più chances. Un acuto giornalista (W. Munchau sul F.T.) ha osservato: “la Brexit è un esempio calzante delle dinamiche delle insurrezioni dell’elettorato nelle democrazie del Nord Atlantico. Ci dice quanto velocemente posizioni di establishment ben radicate possano sgretolarsi, e come l’improbabile divenga inevitabile”.
E’ parsa opportuna questa premessa perchè altrimenti almeno alcune delle posizioni talora confusamente enunciate dai due candidati americani risulterebbero sorprendenti. Per convenienza, tali posizioni sono qui riassunte per tematica.

Politica fiscale
Il deficit federale è il più basso dal 2007, cioè dall’inizio della Grande Recessione, ma il debito pubblico è salito al 75% del PIL. Il Committee for a Responsible Federal Budget (un’organizzazione indipendente con sostegno bipartisan) prevede che, a legislazione costante, il debito sia comunque destinato a salire a circa il 90% nel 2026, a causa di programmi di spesa che sono fuori degli stanziamenti annuali (appropriations), come la Social Security (pensioni) e Medicare (assistenza sanitaria per anziani), che rappresentano oltre il 40% della spesa federale, e sono voci in salita a causa dell’invecchiamento della popolazione e del risultante declino del rapporto lavoratori/pensionati.
La Clinton ha detto che ogni nuova spesa dovrebbe trovare copertura, ma non ha detto come. Nel complesso il suddetto Committee prevede che con la Clinton l’evoluzione del debito federale non si allontanerebbe dalla suddetta linea di tendenza; i programmi di Trump porterebbero invece quel rapporto al 105%, nel 2026.
L’ampiezza della forbice (90%, Clinton, e 105%, Trump) si spiega in larga parte col fatto che Trump, criticato dal suo stesso partito, prevede un enorme incremento della spesa federale per infrastrutture – strade, aeroporti, ponti, e nei settori delle acque e dell’energia – , senza alzare la gas tax che per lo più la finanzia; quanto sia questo incremento è difficile dire: Trump ha affermato che egli desidera una spesa addizionale “oltre il doppio di quella voluta dalla Clinton”, che è 275 mld di dollari in cinque anni. Sono citate cifre che raggiungono gli 800/1000 mld (non chiaro in quanti anni): verrebbe creato un fondo per le infrastrutture, finanziato dall’emissione al pubblico di titoli di debito federale. È interessante osservare che questo enorme programma per le infrastrutture è appoggiato da un Democratico come il prof Summers, già ministro del Tesoro di Clinton, che lo considera il modo corretto per fronteggiare il “ristagno secolare”. Trump propone inoltre un incremento della spesa militare, tagliando invece altri programmi di spesa, e tuttavia salvando Medicare e Social Security. Circa le pensioni, in particolare, ancora una volta diversamente dai leader del suo partito, che propendono per aumenti dell’età pensionabile e un tetto alle pensioni più alte, Trump pensa che basti eliminare sprechi e abusi, cosa ritenuta poco credibile. Altrettanto ottimisticamente ritiene che, sotto la sua presidenza, un forte aumento del PIL, dell’ordine del 3,5/4% annuo contro circa il 2% corrente, valga a non far esplodere il rapporto debito/PIL.
Clinton propone invece una spesa per infrastrutture ben più limitata e la creazione di un’apposita banca, la Infrastructure Bank: 275 mld (come detto sopra), da finanziare con una riforma della tassazione delle imprese. Sulle pensioni, essa propone protezioni per le pensioni più basse e qualche incremento di tassazione per quelle più elevate.
Un punto controverso e’ la c.d. “Obamacare”, cioè la legge faticosamente approvata nel 2010, che estende la copertura assicurativa sanitaria, ponendo vincoli alle società assicurative sulla accettabilità di nuovi assicurati e sui costi della copertura. Dal 2010 al 2014 il numero dei non-assicurati e’ sceso di 11,4 mln. Trump ne vuole l’abolizione, in considerazione dei costi, e propone una riforma basata sui principi del libero mercato e sulla libertà di scelta dei cittadini.

Tassazione
Circa la tassazione, la tradizionale distinzione tra Repubblicani e Democratici emerge con più chiarezza. Trump ha recentemente proposto un’aliquota del 15% sul reddito societario, dall’attuale 35%, sia per le piccole che per le grandi imprese, e l’abolizione dell’imposta sulla proprietà immobiliare. Quanto alla tassazione personale, egli propone la riduzione degli scaglioni da 7 a 3, con un massimo del 33%, dal 39,6%, e nel contempo la riduzione della tassazione sulla working class e la classe media, con una aliquota effettiva pari a zero per i più poveri.
Clinton propone più alte tasse sui reddituari più elevati. Emblematica e “di effetto” e’ la proposta della Buffet Rule (così detta dal nome del miliardario, che peraltro appoggia la Clinton), per la quale nessun dirigente d’impresa con redditi elevatissimi potrà – come evidentemente avviene – pagare meno tasse della sua segretaria (!), attraverso elusioni tributarie (loopholes) di vario genere. Propone anche la fine della c.d. “inversione fiscale”, grazie alla quale un’impresa trasferisce fittiziamente la propria sede all’estero onde sfuggire alla tassazione domestica. Fonti di stampa parlano anche di un non meglio esplicitato contributo (fee) sulle grandi banche, quasi a voler farsi perdonare la perdurante accusa dell’opinione pubblica al governo Democratico di essere morbido con Wall Street.

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