In margine a un recente libro di Robert Gordon

copertina-TRAFOAGRobert J. Gordon, economista di vaglia e non a caso docente di Social Sciences (alla Northwestern University di Evanston, Illinois), ci ha donato un gran libro: The Rise and Fall of American Growth. The U.S. Standard of Living Since the Civil War, Princeton University Press, Princeton 2016. Al di là delle 762 pagine, dell’ampiezza e complessità dei temi, della dovizia di elementi fattuali che offre, l’opera è di un respiro e di una qualità sempre meno riscontrabili in economisti indotti dall’accademia, dalla retorica prevalente, a pubblicare su riviste specializzate brevi saggi su questioni spesso ristrette, innovativi nell’algoritmo più che nei risultati.
Il libro – frutto di ricerche iniziate mezzo secolo fa, quando l’autore pervenne al dottorato a MIT sotto la supervisione di Robert Solow – è al tempo stesso molto analitico e di estrema sintesi sulla vicenda storica post-1870, sull’attualità, sulla prospettiva dell’economia degli Stati Uniti. Sebbene appena superata dalla mole di quella cinese, secondo le stime a parità dei poteri d’acquisto del Fondo Monetario Internazionale l’economia statunitense ancora esprime (2015) il 15,8% del reddito mondiale, rispetto al 17,1% della Cina, all’11,9% dell’Eurozona, al 7% dell’India.
Gordon perviene a tre principali conclusioni.
Il progresso della produzione e del benessere negli Stati Uniti ha conosciuto la sua migliore stagione fra il 1920 e il 1970. Da allora, tra oscillazioni, ha prevalso un tendenziale rallentamento. La previsione spinta sino al 2040 è che il tasso d’incremento del Pil reale medio per persona scenderebbe allo 0,8% l’anno, dopo il 2,4% del 1920-1970 e l’1,8% del 1970-2014 (Tab. 18.4, p. 637).
Cruciale è la produttività, alimentata dalle innovazioni. Come ha spesso detto Solow, “la crescita di trend è principalmente dovuta a fattori d’offerta” (R.M. Solow, Mysteries of Growth, in “The New York Review of Books”, 2003, p. 49). Se c’è produttività, la domanda si promuove, si stimola.
Nel 1920-1970 il prodotto per ora lavorata crebbe del 2,8% l’anno, ritmo quasi doppio rispetto all’1,5% del 1890-1920 e all’1,6% del 1970-2014 (Fig. 1.2. p.16). Il progresso tecnico, approssimato dal pur discutibile concetto di produttività totale dei fattori (TFP), ebbe nel 1920-1970 parte preponderante: l’incremento annuo della TFP toccò l’1,9%, nettamente al disopra dello 0,5% del 1890-1920, dello 0,6% del 1970-1994, dell’1% del 1994-2004 e dello 0,4% riscontrato nel 2004-2014 (fig. 17.2, p.575).
Il cinquantennio 1920-1970 di più rapido avanzamento include la grande crisi del 1929-1933 e la partecipazione americana alla Guerra Mondiale nel 1941-1945. L’aumento annuale della TFP fu rapido negli anni Trenta (+1,8%) e spettacolare negli anni Quaranta (+3,4%) (Fig. 16.5, p. 547). Influirono, secondo Gordon, il favor del New Deal per i sindacati, gli aumenti salariali, l’accorciamento della giornata lavorativa, prima, poi lo sforzo formidabile espresso dalla macchina bellica dell’industria americana. Le imprese risposero alla spinta proveniente dal costo del lavoro, che dagli anni Venti era stata promossa anche dal blocco della immigrazione e dalla minor concorrenza esercitata dalle importazioni. Risposero con più alta intensità di capitale (spesso finanziato dal governo) e con beni strumentali innovativi, incorporanti “large increases in horsepower and kilowatt-hour of electricity usage per dollar of equipment capital” (p. 564). Le due grandi invenzioni della Seconda Rivoluzione Industriale di fine Ottocento – motore a scoppio ed elettricità –  espressero il meglio di sé a distanza di decenni. Nella seconda guerra, il patriottismo legò lavoratori e dirigenti in un comune apprendere facendo. Se nel 1942 ai cantieri Kaiser si prevedevano otto mesi per assemblare una nave da trasporto Liberty, l’anno dopo bastarono poche settimane, in un caso estremo quattro giorni! La Ford improvvisò gli impianti per produrre bombardieri B-24 in poco più di un anno e innalzò l’offerta da 75 aerei al mese nel febbraio del 1943 a 432 nell’agosto del 1944 (p. 549). Questi esempi si moltiplicarono.
Technological change does not regress”: l’avanzamento è permanente (p. 550). Nel dopoguerra le improbabili previsioni di ristagno della domanda globale avanzate da Alvin Hansen e altri furono clamorosamente smentite. Alla spesa militare si sostituì la spesa civile, per cucine elettriche e a gas, frigoriferi, lavatrici, asciugabiancheria, lavapiatti, auto, televisori. La dinamica della TFP restò elevata – 1,5% l’anno, in media – ancora nei decenni Cinquanta e Sessanta, meno approfonditi nel libro. Il grande rallentamento coincise con la crisi – a mio avviso “da sproporzioni”, sottovalutata da Gordon – degli anni Settanta per proseguire poi. Le grandi invenzioni del passato non sono state avvicendate da un comparabile progresso tecnico dopo il 1970. Per Gordon, ciò non avverrà neanche in futuro (Ch. 17).
Non sorprende che le innovazioni della Seconda Rivoluzione Industriale –  IR#2 – si siano risolte nel più straordinario progresso della vita materiale del popolo americano, sottovalutato dalle stime di reddito e patrimonio. Esso si è esteso a nutrizione, vestiario, abitazione, trasporti, informazione, comunicazioni, finanza, assicurazione, divertimenti, salute, condizioni di lavoro (Parte Prima del volume) . In particolare, dopo il 1870 si è realizzato il riscatto della donna. Prima, “women faced a life of hard work, boredom, and drudgery, whether in the farm or in the city” (p. 286). Lavare, stirare, cogliere acqua, pulire, cucinare erano compiti che gravavano sulle donne. Un esempio: nel 1886 ‘a typical North Carolina housewife had to carry water 8 to 10 times each day (…). Over the course of a year she walked 148 miles toting water and carried more than thirty-six tons of water’. Inoltre l’acqua sporca andava eliminata, lontano da casa… (p. 57).
La Terza Rivoluzione Industriale, IR#3, del calcolatore e del digitale, “has been less broad in its scope than before, focused on entertainment and information and communication technology (ICT), and the standard of living and working conditions have advanced at a slower pace than before 1970” (pp. 566-567). Gordon muove dalla nota esclamazione del 1987 di Solow: “You can see the computer age everywhere but in the productivity statistics” (citato a p. 577). Ribadisce come negli Stati Uniti nel 1970-1994 la TFP abbia progredito solo dello 0,6% l’anno. La sua puntuale analisi delle singole innovazioni dell’era del computer lo porta alla seguente considerazione: ”Even though the mainframe computer transformed many business practices starting in the 1960s, and the personal computer largely replaced the typewriter and calculator by the 1980s, the main effect of IR#3 on TFP was delayed until the 1994-2004 decade, when the invention of the Internet, web browsing, search engines, and e-commerce produced a pervasive change in every aspect of business practice” (p. 576).

Ma anche la – moderata (1% l’anno) – accelerazione della TFP americana nel 1994-2004 fu temporanea e breve, seguita dal modestissimo incremento – 0,4% l’anno – del 1994-2014: “Although IR#3 was revolutionary, its effect was felt in a limited sphere of human activity, in contrast to IR#2, which changed everything” (p. 578). IR#3 non si è estesa agli acquisti del cibo, del vestiario e delle calzature, delle automobili e del loro carburante, del mobilio, degli elettrodomestici e dei casalinghi in genere: “A pedicure is a pedicure regardless of whether the customer is reading a magazine (as would occur a decade ago) or reading a book on a Kindle or surfing the web on a smartphone” (p. 578).
Sul futuro dell’innovazione negli USA Gordon è profondamente scettico.
L’innovazione proseguirà, a ritmo anche sostenuto, ma il suo impatto sull’economia americana sarà limitato. Lo confermano diverse tendenze recenti, negative: investimenti netti, nascita d’imprese nuove, capacità manifatturiera, transazioni di Borsa, rapporto prezzo/qualità e quantità dei chip nei computer. Il lavoro negli uffici non cambia. Gli smartphone sono per lo più usati dagli impiegati in ufficio per scopi personali, non escluse le distrazioni (pp. 580-581). Lo stesso e-commerce non arriva a rappresentare il 7% delle vendite al dettaglio (p. 582). Lo confermerebbero altresì le previsioni sulla ricerca scientifica e tecnica del futuro in quattro campi: la medicina (forse capace di curare meglio i corpi, non la demenza senile e l’Alzheimer); la robotica (incapace di fare a meno dell’uomo); l’intelligenza artificiale (idem); l’automobile senza guidatore (idem). La bassa dinamica della produttività del lavoro e un tasso di disoccupazione inferiore al 5% sono ulteriori argomenti contro gli ottimisti della tecnologia pessimisti dell’occupazione, come Erik Brynjolfsson e Andrew McAfee (The Second Machine Age: Work, Progress, and Prosperity in a Time of Brilliant Technologies, Norton, New York, 2014).
Queste considerazioni sono alla base della già citata previsione di crescita mediocre del Pil pro-capite medio degli americani al 2040. Allo 0,8% l’anno Gordon perviene (Tabb. 18.3 e 18.4, pp. 635 e 637) scontando una bassa dinamica della produttività oraria del lavoro (+1,2%, dimezzata rispetto al 1994-2004) e una diminuzione delle ore individualmente lavorate (-0,4%). Vi perviene altresì evocando quattro “venti contrari” che a suo parere freneranno il progresso sia del Pil sia del tenore di vita della maggior parte dei cittadini americani: la sperequazione distributiva; lo scadimento dell’istruzione; l’invecchiamento della popolazione; la necessità di ridurre un debito pubblico che attraverso la crisi del 2008-2009 è arrivato al 108% del Pil. Al di là di questa congerie di forze dall’effetto quantificabile, continueranno a influire in negativo fattori qualitativi come la globalizzazione e il riscaldamento globale.
Tutto ciò porta Gordon a scontare nel 2015-2040 una crescita del reddito mediano per persona disponibile al netto delle imposte negli Stati Uniti appena dello 0,3% l’anno, drammaticamente inferiore non solo al 2,25% del 1920-1970, ma anche all’1,46% del 1970-2014.
Il libro si conclude con un Postscript sulle politiche che potrebbero contrastare  la tendenza al ristagno. Progressività del sistema tributario, salario minimo, amnistia per i detenuti, legalizzazione delle droghe, istruzione, de-regolamentazione, migliore immigrazione sono alcune linee possibili d’intervento. Gordon le auspica, sebbene tema che il loro effetto innalzerebbe lo 0,3% solo di pochi decimi di punto (p. 652).
“The 1870-1970 century was unique: many of these inventions could only happen once, and others reached natural limits (…). After 1970, innovation excelled in the categories of entertainment, information and communication technology” (pp. 641-642). “The fostering of innovation is not a promising avenue for government policy intervention (…). There is little room to boost investment (…)” (p. 643).
Sono, queste, le tre proposizioni di fondo che possono non convincere financo il lettore che, ammirato, abbia condiviso la descrizione, l’analisi, le proposte offerte da questo splendido libro.
La forza del capitalismo è nell’esprimere progresso tecnico, per profitto rivolto all’accumulare e al produrre. Più di Smith, Malthus, Ricardo, Mill lo comprese Marx, che – crisi a parte – rifiutò ogni ipotesi di stato stazionario del sistema. Non vi sono motivi d’ordine generale per ipotizzare che venga meno la ragion d’essere basilare di un siffatto modo di produzione, sebbene esso resti strutturalmente iniquo, instabile, inquinante (rinvio a P. Ciocca, L’economia di mercato capitalistica: un modo di produzione da salvare, in P. Ciocca – I. Musu (a cura di), Natura e capitalismo, Luiss University Press, Roma 2013). Al di là del caso americano, per l’economia mondiale nel suo complesso la previsione di medio termine del Fondo Monetario Internazionale è di crescita del Pil 2016-2021 compresa fra il 3 e il 4 per cento l’anno (oltre il 2% negli Stati Uniti): inferiore al 4,9% del 1950-1973, ma maggiore/uguale – secondo le stime di Angus Maddison – rispetto allo 0,9% del 1820-1870, al 2,1% del 1870-1913, all’1,8% del 1913-1950, al 3,3% del 1973-2015 (A. Maddison, L’economia mondiale dall’anno 1 al 2030, Pantarei, Milano, 2008, Tab. A.5., p. 433, con aggiornamenti su dati FMI). Lo stesso Maddison proiettava al 2003-2030 una crescita del Pil mondiale del 3,2% (2,6% negli USA) (cfr. Ibidem, Tab. 7.4, p. 383). Quasi per definizione, vi sono limiti alla prevedibilità dell’innovazione, se veramente tale. Quindi non si può escludere che, negli stessi Stati Uniti o altrove nel mondo, una IR#4 esprima produttività a ritmi ben superiori a quelli sperimentati dall’economia americana negli ultimi decenni. Inoltre ancora il 20% della forza lavoro mondiale è impiegata in agricoltura (30% in Cina, 50% in India) e il suo trasferimento a industria e terziario innalzerebbe di molto la produttività media.
Contrariamente a quanto affermato da Gordon, lo Stato ha ampie possibilità di promuovere la ricerca e il progresso tecnico, sia al proprio interno e nelle sue università e agenzie, sia nel settore privato. Nel caso statunitense ciò è avvenuto in passato, come documentano gli studi – che Gordon non cita – di Mariana Mazzucato e altri (vedi da ultimo M. Mazzucato, The Entrepreunerial State: Debunking Public vs Private Sector Myths, Anthem Press, London, 2013)  e come lo stesso Gordon conferma con specifico riferimento agli anni della Seconda Guerra Mondiale. E’avvenuto in Italia, anche attraverso gruppi pubblici come l’IRI (cfr. AA.VV., Storia dell’IRI, 6 Voll., Laterza, Roma-Bari, 2012-2014). E’ avvenuto altrove, in numerosi casi.
Infine, come Keynes dovrebbe aver in via definitiva chiarito, gli investimenti pubblici sono cruciali. Possono avere effetti potenti non solo moltiplicando domanda globale e occupazione, ma anche promuovendo la produttività privata attraverso utili infrastrutture (cfr. studi econometrici recenti del FMI, dell’OCSE, della Banca d’Italia). E’ quindi sorprendente che Gordon non noti come negli Stati Uniti dagli anni 1950-1960 a oggi gli investimenti pubblici si siano ridotti in percentuale del Pil dal 6% al 3% su base lorda e addirittura da oltre il 3% a valori prossimi allo zero su base netta. Lo stesso Fondo Monetario Internazionale (cfr. World Economic Outlook, October 2014) ha stigmatizzato il fatto che negli USA lo stock  delle infrastrutture pubbliche sia anche qualitativamente scaduto, con riflessi negativi sulla produttività del sistema. Anche nell’insieme delle economie avanzate il rapporto fra investimenti pubblici e Pil è sceso, dal 4% degli anni 1980 all’attuale 3%. La tendenza va invertita. Se ben congegnati gli investimenti pubblici, oltre a sostenere domanda e produttività, nel medio periodo si autofinanziano.
Ricerca e investimenti configurano per lo Stato un ruolo, un dovere d’intervento nell’economia che integra e per certi aspetti va oltre la correzione dei cosiddetti fallimenti del mercato (cfr. P. Ciocca-I. Musu (a cura di), Il sistema imperfetto. Difetti del mercato, risposte dello Stato, Luiss University Press, Roma, 2016).
Si può essere meno pessimisti di Gordon…

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