Introduzione al seminario sullo schema di ddl per la riforma organica delle discipline della crisi di impresa e dell’insolvenza

La proposta di riforma del diritto concorsuale recentemente elaborata dalla commissione istituita dal Ministro della giustizia con decreto del 28 gennaio 2015 mira a realizzare tre obiettivi fondamentali.
Innanzitutto quello di colmare un ritardo storico. Ci troviamo ancora ad operare con una legge fallimentare (il r.d. 267 del 1942) che, ancorché modificata ampiamente nell’ultimo decennio, è pur sempre risalente ad oltre settant’anni fa. Risale dunque ad un’epoca lontanissima, non solo da un punto di vista temporale, ma anche per diversità di contesto storico, politico, sociale ed economico.
Naturalmente in questo così ampio lasso di tempo sono cambiate tante cose e soprattutto è cambiato – o quantomeno si è profondamente modificato – il modo in cui si guarda al fenomeno dell’insolvenza, che negli anni 40 del ‘900 ed ancora sin quasi alla fine di quel secolo era visto come un evento drammatico, connotato pressoché inevitabilmente da profili d’illiceità. Allora l’insolvenza era da molte parti considerata come espressione di un vero e proprio illecito: l’illecito dell’imprenditore che non si pone in condizioni di fronteggiare i propri debiti e che, per questo stesso fatto, doveva essere in qualche misura sanzionato attraverso gli strumenti apprestati allo scopo dalla legge fallimentare. Vi si scorgeva un comportamento illecito, in quanto destinato a frustrare le legittime aspettative di pagamento dei creditori; un comportamento,  se non doloso, quanto meno di regola colposo, fatte salve soltanto le marginali ipotesi dell’imprenditore sfortunato ma meritevole, cui era riservato, se la maggioranza dei creditori lo avesse consentito e purché fosse prevedibile il soddisfacimento di una ben determinata percentuale minima dei crediti chirografari e della totalità dei privilegiati, il beneficio di poter accedere al concordato preventivo: cui non a caso si era soliti attribuire, al pari dell’amministrazione controllata, la qualifica di procedura concorsuale minore.
Vi era perciò, nella dichiarazione di fallimento, una chiara connotazione sanzionatoria per l’imprenditore insolvente e, quanto all’impresa, v’era un’altrettanto chiara concezione liquidatoria (fatti salvi i casi, piuttosto marginali, di esercizio provvisorio prodromico alla messa in vendita dell’azienda ancora funzionante), che rispondeva ad un’ottica lato sensu darwiniana, secondo la quale era bene che l’impresa insolvente, non essendo più in condizioni di stare sul mercato con le proprie forze, ne fosse espulsa per far posto ad altre imprese più efficienti.
Ma sto parlando del mondo di ieri. Da allora ad oggi ci è stata un’evoluzione enorme, iniziata soprattutto oltre oceano ma ormai largamente acquisita anche nell’area europea, come ben testimonia la raccomandazione 2014/135/Ue dell’Unione Europea, che è del tutto esplicita nel voler favorire forme di rapida esdebitazione del fallito, sul presupposto che l’insolvenza è uno degli eventi che normalmente possono accadere nell’attività di un’impresa, per sua stessa natura esposta al rischio, sicché, lungi dall’intervenire con strumenti sanzionatori, occorre che il legislatore favosca la possibilità di un fresh start per il debitore desideroso di intraprendere nuove attività.
Siamo dunque ben lontani dall’impostazione originaria della legge fallimentare del 1942, la quale del resto, specialmente a partire dagli anni 2005-2006, è stata ampiamente modificata anche e proprio in funzione di questa nuova prospettiva generale. Ma si è pur sempre trattato di modifiche parziali, con la conseguenza che il tessuto normativo si trova oggi in una situazione di forte tensione tra l’impostazione originaria, che per alcuni aspetti ancora lo permea, e le moderne esigenze rispondenti ad una concezione del tutto differente del fenomeno che si intende disciplinare.
Da questo discende il secondo e fondamentale obiettivo della prospettata riforma: non solo volta a rendere più moderna la normativa concorsuale, ma anche a recuperare un maggior grado di organicità della disciplina, resa alquanto confusa e disordinata da una lunga serie di modifiche soltanto parziali.
E qui va detto che il legislatore di quest’ultimo decennio è intervenuto con una reiterazione ed una insistenza perfino eccessive, riformulando quasi ogni anno ora questa o quella norma della disciplina concorsuale. Abbiamo assistito ad una lunga serie di decreti legge, poi sempre ulteriormente modificati dalle successive leggi di conversione, che, per la stessa logica emergenziale da cui sono stati di volta in volta ispirati e per una qualche approssimazione nella formulazione di norme troppo frettolosamente confezionate, hanno ulteriormente minato la sistematicità complessiva della legge del 1942, che era invece assolutamente coerente in tutti i suoi presupposti ed organica nella sua struttura. Il risultato di questa evoluzione è oggi un tessuto normativo che presenta aspetti di forte incoerenza.
Ma il difetto di coerenza sistematica del tessuto normativo non è solo causa di problemi teorici, non disturba soltanto il senso estetico del giurista, cui piacerebbe poter collocare le norme in un quadro armonioso, ma è qualcosa che si riflette in maniera assai concreta sul funzionamento quotidiano della giustizia. È una delle principali fonti di difficoltà interpretative ed applicative delle norme, che provoca incertezza del diritto e perciò contribuisce a generare contenzioso ed a rallentare i tempi delle procedure giudiziarie.
Naturalmente siamo tutti consapevoli del fatto che non viviamo più nell’epoca dei grandi codici di stampo napoleonico che ambivano a porsi come un monumentum aere perennius. L’estremo dinamismo della società contemporanea rende inevitabilmente anche le leggi assai meno stabili e ne impone un più rapido ricambio. Tuttavia, vi è la necessità di tanto in tanto di fermarsi a fare il punto sulla situazione per cercare di individuare almeno gli assi portanti del sistema. Bisogna cercare di mettere periodicamente ordine nella normativa volta a disciplinare un determinato fenomeno sociale, pur sapendo che potrà essere destinata poi ad ulteriori cambiamenti. In un mondo che si va sempre più “giuridificando”, perché si richiede l’intervento del giudice (ed in generale del giurista) su ambiti di realtà sempre più ampi rispetto al passato, è inevitabile che le singole norme di diritto positivo siano sovente in ritardo rispetto alla realtà e non riescano, perciò, a dare direttamente ed immediatamente la risposta che in loro si cerca. Il compito dell’interprete si fa, di conseguenza, molto più difficile, ma proprio per questo è indispensabile che gli si forniscano delle coordinate chiare: tali da consentire la sicura individuazione dei principi generali della materia dai quali trarre la regola del caso singolo anche quando non vi corrisponda ad una specifica norma. Solo così quello che ormai siamo abituati a chiamare “diritto vivente”, ossia il diritto di fonte giurisprudenziale, può diventare un fattore di crescita anziché di ulteriore incontrollabile disordine del vivere sociale.
A questa esigenza si ispira dunque l’idea di riesaminare l’intera normativa vigente in materia per dar vita ad un codice dell’insolvenza che abbracci non solo l’area oggi occupata dalla legge fallimentare ma anche quella cui si riferiscono, rispettivamente, gli istituti dell’amministrazione straordinaria delle grandi imprese e del sovraindebitamento del debitore non soggetto a fallimento.  Un codice ispirato a principi generali, chiari ed agevolmente percepibili dall’interprete, comuni alle diverse categorie di debitori cui s’è fatto cenno, e dal cui tronco debbano poi dipartirsi le regole specifiche che risultino meglio appropriate all’una o all’altra di tali categorie.
Una terza ragione che impone l’intervento riformatore è legata al fatto che l’attuale disciplina del fallimento, oltre ad essere per alcuni aspetti anacronistica e per altri disorganica, presenta delle vistose lacune.
Mi riferisco, per esempio, al tema dei gruppi di imprese. La disciplina dell’insolvenza dei gruppi trova una qualche regolamentazione solo nell’ambito dell’amministrazione straordinaria, ma non è affatto contemplata dalla legge fallimentare. Più in generale, del resto, la legge fallimentare appare concepita prevalentemente in funzione dell’insolvenza dell’imprenditore individuale (le norme dedicate al fallimento delle società sono poche e marginali nell’economia complessiva del testo normativo del 1942). È ben noto, viceversa, che nella realtà i fallimenti ed in generale le procedure concorsuali riguardano nella stragrande maggioranza dei casi imprese che operano in veste societaria, e non di rado si tratta di società facenti parte di un gruppo. Donde non poche difficoltà sorte nella pratica e l’evidente necessità di integrare sotto questo profilo il quadro normativo; e lo stesso è a dirsi per altri aspetti in ordine ai quali la disciplina vigente è insufficiente, o è ormai del tutto superata, come ad esempio nel settore dei privilegi e con riferimento alla figura – che sarebbe opportuno introdurre – del pegno non possessorio.
Mi è impossibile soffermarmi più in dettaglio sui molti ambiti toccati dal progetto di riforma e sulle singole disposizioni al riguardo formulate. Vorrei fare però ancora due sole brevi considerazioni.
La prima riguarda il filo conduttore di molti aspetti del progetto riformatore e si ricollega a quanto poc’anzi detto in ordine ad un moderno approccio al fenomeno dell’insolvenza dell’impresa. Un fenomeno che non dovrebbe più essere visto in chiave prevalentemente liquidatorio-espulsiva, ma, se possibile, in chiave recuperatoria.
L’insolvenza non sopravviene istantaneamente ma si determina all’esito di un processo sempre più o meno lungo. È importante cercare di intercettare il processo che può portare all’insolvenza quanto prima possibile, se si vuole tentare di prevenire l’esito liquidatorio dell’azienda, con l’inevitabile spreco di risorse economiche che l’accompagna, per tentare invece di intraprendere con serie prospettive di successo un percorso di recupero dei valori dell’impresa.
Ma, perché questo non sia mero “wishful thinking”, occorre prima di tutto anche un cambio di mentalità dell’imprenditore e, per quanto riguarda lo strumento normativo, occorre che esso sia il più possibile volto a facilitare l’emersione precoce dei sintomi della crisi. Soltanto l’intervento in una fase precoce può infatti evitare l’insolvenza irreversibile ed il conseguente necessario esito liquidatorio. Donde la scelta di realizzare anche in Italia, come già altrove, delle procedure di allerta e di composizione assistita della crisi la cui finalità è appunto quella che ho appena indicato.
Nella medesima direzione va l’impostazione che vorrebbe darsi al concordato preventivo: tipico strumento negoziale di risoluzione della crisi (o dell’insolvenza, quando ancora non sia divenuta irreversibile), che deve essere prioritario dal punto di vista non solo cronologico, ma anche logico, rispetto alla procedura liquidatoria giudiziale (da chiamarsi appunto procedura liquidatoria giudiziale – sia detto per inciso – e non più fallimento, per attenuare le implicazioni negative storicamente collegate all’uso di questo termine).
Lo sbocco liquidatorio si giustifica solo se non è possibile, o comunque non si riesce, grazie alla tempestiva percezione dei sintomi della crisi, a porre in campo strumenti di risanamento più precoci, quale un accordo di ristrutturazione o una valida proposta concordataria, in grado di contemperare adeguatamente gli interessi dell’impresa a continuare nella sua attività con l’interesse dei creditori ad ottenere la miglior soddisfazione possibile. Per la qual cosa il concordato è parso debba essere soprattutto concepito come un concordato di continuità – volto appunto a consentire il proseguimento dell’attività aziendale, sia pure eventualmente nella mani di un diverso imprenditore – e non invece, come tuttora nella più parte dei casi avviene, un concordato liquidatorio: semplice surrogato, spesso anche più costoso, del fallimento.
La seconda breve considerazione che mi ero ripromesso di fare parte dalla constatazione che non si fanno delle buone leggi se non si è poi in grado di attuarle bene.
Quando, perciò, parliamo di introdurre procedimenti di allerta e composizione assistita della crisi e prevediamo organismi destinati a questo scopo (possibilmente non giudiziali, per evitare che l’imprenditore ne sia spaventato e sia riluttante ad accedervi), ci prefiguriamo organismi dotati di mezzi e di persone all’altezza del compito estremamente delicato che è loro affidato. Per marciare bene le idee debbono avere buone gambe.
Allo stesso modo, bisogna che anche gli uffici giudiziari che si occupano delle procedure concorsuali abbiano strutture adeguate e che i magistrati che vi operano siano dotati di un adeguato livello di preparazione specialistica. Se è vero che la funzione del giudice in tali procedure deve attenere alla risoluzione delle controversie, piuttosto che a compiti gestori, resta nondimeno ineliminabile la necessità che quel giudice sia in condizione di cogliere appieno anche i complessi risvolti economico-aziendali comunque sempre insiti nelle procedure concorsuali: il che postula un grado di specializzazione incompatibile con organici dei piccoli tribunali in cui i pochi magistrati sono inevitabilmente addetti a molteplici funzioni assai diverse tra loro.
Il tema della specializzazione del giudice in materia concorsuale è un tema antico ma rimane attualissimo. Perciò, pur sapendo che intervenire sulla geografia giudiziaria significa toccare molti interessi e quindi muoversi su un campo minato, è parso che fosse doveroso inserire nel progetto di riforma anche alcuni principi di delega afferenti a questo tema e volti a favorire la maggiore specializzazione dei giudici addetti alle procedure concorsuali.
Ovviamente, quella di cui stiamo parlando è soltanto una proposta di legge delega, nella quale quindi sono enunciati unicamente dei criteri direttivi cui l’eventuale legislatore delegato dovrebbe poi attenersi nella formulazione dettagliata del testo normativo. Ci è parso di doverlo fare con sufficiente specificità, non limitandoci a pochi e generici principi, ma enunciandone molti ed abbastanza specifici. Tuttavia, si tratta pur sempre di criteri di ordine generale, che inevitabilmente lasciano molti spazi da riempire. Dunque ci aspetta un percorso ancora molto lungo, per compiere il quale sarà assolutamente indispensabile acquisire ancora idee, spunti di riflessione, contributi di persone competenti. È anche per una ragione di metodo, d’altronde, che ci è parso di dover formulare una proposta di legge delega contenente molti principi enunciati con un livello di specificità superiore a quello che in genere oggi si riscontra in leggi siffatte: l’opportunità di suscitare tra gli operatori del settore e nella comunità scientifica un dibattito il più possibile aperto e costruttivo. Mi piace pensare che una riforma di così ampia portata e di così rilevante impatto non venga elaborata  soltanto nelle stanze chiuse di un ministero ma sia anche frutto di un vasto e pubblico confronto di idee. Confronto tanto più necessario in quanto riforme di tal genere postulano anche, inevitabilmente, la necessità di un qualche mutamento di mentalità e sono, al tempo stesso, il frutto ed il motore di cambiamenti culturali.