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Introduzione al seminario sullo schema di ddl per la riforma organica delle discipline della crisi di impresa e dell’insolvenza

di - 17 Marzo 2016
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Una terza ragione che impone l’intervento riformatore è legata al fatto che l’attuale disciplina del fallimento, oltre ad essere per alcuni aspetti anacronistica e per altri disorganica, presenta delle vistose lacune.
Mi riferisco, per esempio, al tema dei gruppi di imprese. La disciplina dell’insolvenza dei gruppi trova una qualche regolamentazione solo nell’ambito dell’amministrazione straordinaria, ma non è affatto contemplata dalla legge fallimentare. Più in generale, del resto, la legge fallimentare appare concepita prevalentemente in funzione dell’insolvenza dell’imprenditore individuale (le norme dedicate al fallimento delle società sono poche e marginali nell’economia complessiva del testo normativo del 1942). È ben noto, viceversa, che nella realtà i fallimenti ed in generale le procedure concorsuali riguardano nella stragrande maggioranza dei casi imprese che operano in veste societaria, e non di rado si tratta di società facenti parte di un gruppo. Donde non poche difficoltà sorte nella pratica e l’evidente necessità di integrare sotto questo profilo il quadro normativo; e lo stesso è a dirsi per altri aspetti in ordine ai quali la disciplina vigente è insufficiente, o è ormai del tutto superata, come ad esempio nel settore dei privilegi e con riferimento alla figura – che sarebbe opportuno introdurre – del pegno non possessorio.
Mi è impossibile soffermarmi più in dettaglio sui molti ambiti toccati dal progetto di riforma e sulle singole disposizioni al riguardo formulate. Vorrei fare però ancora due sole brevi considerazioni.
La prima riguarda il filo conduttore di molti aspetti del progetto riformatore e si ricollega a quanto poc’anzi detto in ordine ad un moderno approccio al fenomeno dell’insolvenza dell’impresa. Un fenomeno che non dovrebbe più essere visto in chiave prevalentemente liquidatorio-espulsiva, ma, se possibile, in chiave recuperatoria.
L’insolvenza non sopravviene istantaneamente ma si determina all’esito di un processo sempre più o meno lungo. È importante cercare di intercettare il processo che può portare all’insolvenza quanto prima possibile, se si vuole tentare di prevenire l’esito liquidatorio dell’azienda, con l’inevitabile spreco di risorse economiche che l’accompagna, per tentare invece di intraprendere con serie prospettive di successo un percorso di recupero dei valori dell’impresa.
Ma, perché questo non sia mero “wishful thinking”, occorre prima di tutto anche un cambio di mentalità dell’imprenditore e, per quanto riguarda lo strumento normativo, occorre che esso sia il più possibile volto a facilitare l’emersione precoce dei sintomi della crisi. Soltanto l’intervento in una fase precoce può infatti evitare l’insolvenza irreversibile ed il conseguente necessario esito liquidatorio. Donde la scelta di realizzare anche in Italia, come già altrove, delle procedure di allerta e di composizione assistita della crisi la cui finalità è appunto quella che ho appena indicato.
Nella medesima direzione va l’impostazione che vorrebbe darsi al concordato preventivo: tipico strumento negoziale di risoluzione della crisi (o dell’insolvenza, quando ancora non sia divenuta irreversibile), che deve essere prioritario dal punto di vista non solo cronologico, ma anche logico, rispetto alla procedura liquidatoria giudiziale (da chiamarsi appunto procedura liquidatoria giudiziale – sia detto per inciso – e non più fallimento, per attenuare le implicazioni negative storicamente collegate all’uso di questo termine).
Lo sbocco liquidatorio si giustifica solo se non è possibile, o comunque non si riesce, grazie alla tempestiva percezione dei sintomi della crisi, a porre in campo strumenti di risanamento più precoci, quale un accordo di ristrutturazione o una valida proposta concordataria, in grado di contemperare adeguatamente gli interessi dell’impresa a continuare nella sua attività con l’interesse dei creditori ad ottenere la miglior soddisfazione possibile. Per la qual cosa il concordato è parso debba essere soprattutto concepito come un concordato di continuità – volto appunto a consentire il proseguimento dell’attività aziendale, sia pure eventualmente nella mani di un diverso imprenditore – e non invece, come tuttora nella più parte dei casi avviene, un concordato liquidatorio: semplice surrogato, spesso anche più costoso, del fallimento.
La seconda breve considerazione che mi ero ripromesso di fare parte dalla constatazione che non si fanno delle buone leggi se non si è poi in grado di attuarle bene.
Quando, perciò, parliamo di introdurre procedimenti di allerta e composizione assistita della crisi e prevediamo organismi destinati a questo scopo (possibilmente non giudiziali, per evitare che l’imprenditore ne sia spaventato e sia riluttante ad accedervi), ci prefiguriamo organismi dotati di mezzi e di persone all’altezza del compito estremamente delicato che è loro affidato. Per marciare bene le idee debbono avere buone gambe.
Allo stesso modo, bisogna che anche gli uffici giudiziari che si occupano delle procedure concorsuali abbiano strutture adeguate e che i magistrati che vi operano siano dotati di un adeguato livello di preparazione specialistica. Se è vero che la funzione del giudice in tali procedure deve attenere alla risoluzione delle controversie, piuttosto che a compiti gestori, resta nondimeno ineliminabile la necessità che quel giudice sia in condizione di cogliere appieno anche i complessi risvolti economico-aziendali comunque sempre insiti nelle procedure concorsuali: il che postula un grado di specializzazione incompatibile con organici dei piccoli tribunali in cui i pochi magistrati sono inevitabilmente addetti a molteplici funzioni assai diverse tra loro.
Il tema della specializzazione del giudice in materia concorsuale è un tema antico ma rimane attualissimo. Perciò, pur sapendo che intervenire sulla geografia giudiziaria significa toccare molti interessi e quindi muoversi su un campo minato, è parso che fosse doveroso inserire nel progetto di riforma anche alcuni principi di delega afferenti a questo tema e volti a favorire la maggiore specializzazione dei giudici addetti alle procedure concorsuali.
Ovviamente, quella di cui stiamo parlando è soltanto una proposta di legge delega, nella quale quindi sono enunciati unicamente dei criteri direttivi cui l’eventuale legislatore delegato dovrebbe poi attenersi nella formulazione dettagliata del testo normativo. Ci è parso di doverlo fare con sufficiente specificità, non limitandoci a pochi e generici principi, ma enunciandone molti ed abbastanza specifici. Tuttavia, si tratta pur sempre di criteri di ordine generale, che inevitabilmente lasciano molti spazi da riempire. Dunque ci aspetta un percorso ancora molto lungo, per compiere il quale sarà assolutamente indispensabile acquisire ancora idee, spunti di riflessione, contributi di persone competenti. È anche per una ragione di metodo, d’altronde, che ci è parso di dover formulare una proposta di legge delega contenente molti principi enunciati con un livello di specificità superiore a quello che in genere oggi si riscontra in leggi siffatte: l’opportunità di suscitare tra gli operatori del settore e nella comunità scientifica un dibattito il più possibile aperto e costruttivo. Mi piace pensare che una riforma di così ampia portata e di così rilevante impatto non venga elaborata  soltanto nelle stanze chiuse di un ministero ma sia anche frutto di un vasto e pubblico confronto di idee. Confronto tanto più necessario in quanto riforme di tal genere postulano anche, inevitabilmente, la necessità di un qualche mutamento di mentalità e sono, al tempo stesso, il frutto ed il motore di cambiamenti culturali.

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