Le novità dell’accordo di Parigi sui cambiamenti climatici

Il 12 dicembre 2015 è entrato a far parte della storia della lotta al cambiamento climatico come la data in cui 195 Paesi sono riusciti a trovare un accordo comune per la riduzione delle emissioni antropogeniche e la gestione degli impatti derivanti dall’innalzamento della temperatura terrestre.
Dopo anni di negoziati e con il ricordo ancora vivo della Conferenza di Copenaghen, che nel 2009 non era riuscita a produrre l’esito sperato, i paesi si sono riuniti a Parigi dal 30 novembre al 12 dicembre, per due settimane di intense trattative volte alla definizione di “un nuovo protocollo o altro strumento legale o di altro risultato condiviso dotato di forza legale nell’ambito della Convenzione Quadro, applicabile a tutte le Parti”.
Nel portare a termine questo mandato, affidato loro a Durban (Sud Africa) nel 2011, delegati nazionali provenienti da tutto il mondo hanno negoziato per trovare un compromesso su alcune questioni chiave che, fino all’ultimo, hanno messo in dubbio l’esito della Conferenza di Parigi. L’accordo finale si può ritenere molto positivo, seppur insufficiente, per le ragioni che vedremo. 188 paesi che si impegnano a controllare le loro emissioni di gas serra rimane comunque un evento di portata storica, qualsiasi siano i dubbi e le perplessità per il tanto che ancora rimane da fare per limitare gli impatti negativi che i cambiamenti climatici stanno avendo sulle nostre società.
Alcuni elementi di quello che ora è l’accordo di Parigi erano già chiari ben prima dell’inizio di COP 21. Un accordo internazionale di questa importanza ha richiesto infatti mesi di attenta preparazione. E non si può che essere grati alla diplomazia francese per aver saputo costruire il consenso intorno ad un nuovo modo di affrontare il problema del cambiamento climatico.
Sapevamo da mesi infatti che quello di Parigi non sarebbe stato un accordo in stile Protocollo di Kyoto, dove solo alcuni Paesi avevano obblighi di riduzione delle emissioni. Sapevamo che il nuovo approccio “dal basso”, che trova attuazione in obiettivi delineati a livello nazionale – i cosiddetti contributi nazionali programmati o INDCs a voler usare l’acronimo inglese – già prima dell’inizio della conferenza aveva ricevuto una ottima accoglienza, con più di 180 paesi ad aver comunicato il proprio contributo. Sapevamo, tuttavia, che il raggiungimento di un accordo su altre questioni chiave, tra queste in particolare il finanziamento delle iniziative di mitigazione e adattamento nei paesi in via di sviluppo, era tutt’altro che scontato.
Per questo motivo, sabato 12 dicembre intorno alle 19.30, l’adozione del nuovo Accordo di Parigi è stata accolta con un gran sospiro di sollievo e salutata da un lungo e commosso applauso da parte di tutti i presenti.

Ma cosa prevede l’Accordo di Parigi? Vediamo insieme quali sono i punti salienti.
L’accordo innanzitutto è costruito attorno a tre obiettivi principali:

  1. contenere l’aumento della temperatura media globale ben al di sotto dei 2°C rispetto ai livelli preindustriali ed il perseguimento di sforzi per limitarla ad 1.5°C in quanto questo ridurrebbe significativamente i rischi e gli impatti dovuti al cambiamento climatico;
  2. accrescere la capacità di adattamento agli impatti avversi del cambiamento climatico, promuovere la resilienza e uno sviluppo a basse emissioni, in maniera che non sia minacciata la produzione alimentare;
  3. creare flussi finanziari coerenti con un percorso di sviluppo a basse emissioni di gas serra e resiliente ai cambiamenti climatici.

Per raggiungere ciascuno di questi obiettivi, il documento delinea una serie di disposizioni che guideranno l’azione degli stati a partire dal 2020 in poi. In particolare, rispetto all’obiettivo di contenere l’aumento della temperatura al di sotto della soglia di sicurezza dei 2° C stabilita dalla comunità scientifica, l’accordo di Parigi si propone:

  1. di raggiungere il picco delle emissioni globali di gas serra il più presto possibile per poi intraprendere una rapida riduzione fino a raggiungere, nella seconda metà del secolo, la parità tra le emissioni prodotte e quelle assorbite. Strumento per raggiungere questi obiettivi sono i “contributi determinati a livello nazionale”: sforzi di mitigazione progressivi nel tempo e che tutti i Paesi parte dell’UNFCCC sono chiamati ad intraprendere e comunicare;
  2. di garantire sostegno e flessibilità ai paesi in via di sviluppo, che potranno avere bisogno di più tempo prima di avere un trend delle emissioni decrescente ed il cui bisogno di supporto finanziario e tecnologico per l’attuazione di questi impegni viene riconosciuto in diversi punti del testo;
  3. di assegnare ai paesi sviluppati il ruolo guida nell’azione di mitigazione attraverso obiettivi assoluti di riduzione delle emissioni a livello nazionale, mentre i paesi in via di sviluppo potranno aumentare le proprie emissioni, seppur riducendole a quello che sarebbero state senza l’adozione dei propri INDCs, con l’incoraggiamento ad intraprendere nel tempo obiettivi di riduzione più ampi;
  4. di chiedere a ogni paese di aggiornare i propri contributi nazionali ogni cinque anni, fornendo tutte le informazioni necessarie ad assicurarne chiarezza e trasparenza. Meccanismi di cooperazione, sia di mercato che non, possono essere intrapresi su base volontaria dai paesi, purché questo serva ad aumentare l’ambizione delle azioni e sia rispettata l’integrità ambientale.

Oltre alla mitigazione, un importante riconoscimento viene dato anche al ruolo dell’adattamento, visto che anche se il limite dei 2°C fosse rispettato, alcuni degli impatti del cambiamento climatico saranno comunque inevitabili. In generale, l’accordo di Parigi definisce l’adattamento come una sfida globale presente a diversi livelli, dal locale a quello internazionale, oltre che una componente chiave della risposta al cambiamento climatico nel lungo termine. Per questo motivo, l’accordo di Parigi:

  1. riconosce il bisogno di adattamento dei paesi in via di sviluppo e i conseguenti sforzi per farvi fronte, insieme alla necessità di rafforzare il supporto e la cooperazione internazionale a favore dei paesi maggiormente vulnerabili.
  2. Incoraggia tutti i paesi a mettere in atto azioni e piani di adattamento, sia a livello nazionale che in cooperazione, a comunicarli ed aggiornarli periodicamente anche nell’ambito dei contributi nazionali.
  3. Impegna i paesi sviluppati a mettere in atto azioni di cooperazione tecnologica e trasferimento di tecnologie a favore dei paesi in via di sviluppo per aiutarli a far fronte agli impatti dei cambiamenti climatici oramai inevitabili.

Collegata al tema dell’adattamento c’è quindi la questione del “loss and damage”. A conclusione di un lungo e acceso dibattito, a metà tra responsabilità storiche dei paesi industrializzati e capacità di adattamento agli impatti da parte dei paesi in via di sviluppo, l’importanza di minimizzare le perdite e i danni dovuti ai cambiamenti climatici è stata infine riconosciuta. A riguardo, i paesi sono chiamati a collaborare per comprendere i rischi, le conseguenze e le azioni per la gestione dei danni provocati dalla crescita delle emissioni. Tuttavia, nonostante l’inclusione del tema in un articolo dedicato e indipendente dall’adattamento ne rafforzi certamente la rilevanza, come chiesto dai paesi in via di sviluppo, le disposizioni attuative che accompagnano l’accordo di Parigi sono chiare nell’affermare che ciò non implica compensazioni monetarie, né l’attribuzione di responsabilità nei confronti dei paesi industrializzati.
L’accordo di Parigi stabilisce che i paesi sviluppati continuino a fornire supporto finanziario ai paesi in via di sviluppo, in maniera crescente e attraverso un’ampia varietà di fonti e strumenti. Informazioni riguardo a tale supporto, la sua entità e composizione, dovranno essere comunicate da ogni paese con cadenza bimestrale. Particolare attenzione dovrà essere riposta nel comunicare il contributo derivante da fondi pubblici nazionali, anche se il supporto da parte di altri paesi o attori privati è comunque incoraggiato. Come per gran parte dell’Accordo, ulteriori indicazioni sono fornite dalle disposizioni attuative, le quali, in questo caso, stabiliscono che prima del 2025 i governi dovranno definire un nuovo impegno finanziario collettivo e che la base di partenza sarà la cifra fissata dai precedenti negoziati per il 2020, ovvero 100 miliardi di dollari all’anno.
Infine, un punto di fondamentale importanza è costituito dal processo di revisione dello stato di attuazione dell’accordo, che verrà messo in piedi a partire dal 2023 e successivamente ripetuto ogni 5 anni con l’obiettivo di valutare i progressi rispetto al raggiungimento collettivo degli obiettivi di lungo termine. La revisione riguarderà tutti gli elementi chiave dell’Accordo di Parigi: in primis la valutazione dei contributi nazionali di mitigazione, ma altresì le azioni di adattamento, gli impegni finanziari, anche alla luce dei futuri risultati scientifici forniti dall’IPCC. I risultati di questo processo serviranno ad informare ed aggiornare i successivi contributi nazionali e le azioni che le parti saranno chiamate a presentare. Tenendo conto delle preoccupazioni di quei paesi che ritenevano questa data troppo lontana nel tempo, soprattutto rispetto all’analisi degli impegni di mitigazione, una prima valutazione verrà effettuata già nel 2018, intesa tuttavia come un dialogo informativo per la redazione dei successivi contributi nazionali.
Dal punto di vista legale, l’Accordo di Parigi formalizza un nuovo approccio costituito da una parte legalmente vincolante, che stabilisce regole comuni volte a promuovere un processo trasparente e ad assicurare la valutazione degli obiettivi, supportata da elementi lasciati alla legislazione nazionale di ciascun Stato, come sono gli INDCs. Questa soluzione “ibrida” è stata dettata dalla necessità di ottenere una larga adesione e quindi fornire uno strumento che fosse recepibile dagli ordinamenti nazionali senza troppe difficoltà.
La rigida distinzione inclusa nel Protocollo di Kyoto, tra stati Annex I, con impegni di riduzione vincolanti, contrapposta a quelli non Annex I che invece non ne avevano, è stata sostituita da una nuova forma di differenziazione più sfumata e flessibile che distingue semplicemente paesi sviluppati da paesi in via di sviluppo. Molte disposizioni stabiliscono impegni e regole comuni, consentendo tuttavia il rispetto delle diverse circostanze e capacità nazionali dei paesi più poveri, sia attraverso la cosiddetta “auto-differenziazione” implicitamente inclusa nei contributi nazionali, sia attraverso regole più dettagliate, come nel caso del supporto finanziario.
L’Accordo di Parigi ha fatto tesoro degli errori del passato ed ha cercato di rispondere all’urgenza dell’azione climatica incentivando la più ampia partecipazione possibile, seppur rinunciando a qualche elemento che ne avrebbe aumentato l’efficacia. Da questo punto di vista, l’accordo può certamente essere considerato un successo.
Includendo i contributi nazionali annunciati durante la conferenza stessa, i paesi che hanno comunicato il loro contributo nazionale sono 188, più del 98% delle emissioni globali. I paesi con le emissioni più elevate come Cina, Stati Uniti, Unione Europea ed India sono finalmente insieme nella lotta al cambiamento climatico e i loro leader politici si sono detti pronti ognuno a fare la propria parte. Certamente, rispetto a quanto ottenuto dal Protocollo di Kyoto nelle sue prime due fasi e dagli obiettivi volontari promessi dopo Copenaghen, la riduzione delle emissioni è più ambiziosa di quelle emerse da precedenti negoziazioni. Tuttavia, come era chiaro già prima dell’apertura dei lavori nella capitale francese, non è ancora sufficiente a limitare la crescita della temperatura al di sotto dei 2° C rispetto a quella preindustriale.
A partire dallo stesso UNFCCC, molti studi ne hanno valutato l’effetto aggregato sottolineando che ulteriori riduzioni saranno necessarie dopo il 2030, altrimenti l’aumento della temperatura a fine secolo sarà più vicina ai 3°C che a quella fissata dall’Accordo di Parigi. Molto dipenderà da quello che gli stati riusciranno a fare dopo il 2030. Se le emissioni effettivamente si ridurranno in modo rapido e se avremo a disposizione tecnologie efficaci nel rimuovere la CO2 dall’atmosfera su grande scala, allora l’obiettivo del 2°C potrà essere raggiunto. Altrimenti dovremo adattarci ad un clima molto diverso da quello attuale.
È ovvio che più si rimanderanno riduzioni consistenti delle emissioni, più queste dovranno essere ambiziose nel futuro. Per questo motivo, il processo di revisione e aggiornamento degli impegni che l’accordo di Parigi delinea, e che si spera negli incontri negoziali da qui al 2020 verrà ulteriormente definito in modo da operare in maniera efficace, giocherà un ruolo di fondamentale importanza nel promuovere azioni sempre più ambiziose.
Allo stesso modo la mobilizzazione di risorse finanziarie per permettere ai paesi in via di sviluppo di definire piani di mitigazione ed adattamento, così come quelle che tutti i paesi investiranno in ricerca, sviluppo e trasferimento di nuove tecnologie, risulterà cruciale per il raggiungimento degli obiettivi che ci si è dati. Un recente studio condotto dall’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico (OCSE), in collaborazione con Climate Policy Initiative (CPI), mostra come nel 2014 i paesi sviluppati abbiano fornito 61.8 miliardi di dollari ai paesi in via di sviluppo, il 70% dei quali provenienti da fondi pubblici (vedi figura). Dato altrettanto significativo, la cifra è cresciuta negli ultimi anni, sia per il crescente impegno dei governi sia grazie a sistemi di rendicontazione sempre più trasparenti.

cambiamenticlimaticiGraph

Nonostante la COP21 abbia portato con sé una serie di importanti annunci riguardanti nuovi impegni finanziari, la cifra è ancora lontana dai bisogni del mondo in via di sviluppo, stimati dalla World Bank in 140 – 175 miliardi di dollari annui al 2030 per le azioni di mitigazione e altri 75-100 miliardi per l’adattamento.
Nell’insieme, l’accordo di Parigi rappresenta un passo importante nella giusta direzione. Un passo realistico, che permetterà ai governi di collaborare all’interno di un solido processo di revisione e crescita degli impegni. Con la conferenza di Parigi si chiude quindi un ciclo, quello del Protocollo di Kyoto, e se ne apre un altro, più ampio in termini di partecipazione, fondato sulle conquiste del passato, ma aperto a miglioramenti futuri. Sta ora ai singoli stati adottare concrete misure di mitigazione e adattamento. In particolare, ci sono alcune decisioni molto importanti che dovranno essere prese urgentemente:

  1. Investire importanti risorse, quadruplicando quelle investite oggi, nella ricerca e sviluppo di tecnologie a basso utilizzo di carbonio, in particolare nella produzione di energia elettrica, nel suo utilizzo, nel suo stoccaggio, nella ricerca e sviluppo di tecnologie per la rimozione della CO2 dall’atmosfera, di tecnologie per ridurre la povertà energetica e quella idrica, per lo sviluppo di sementi clima resistenti, per la diffusione a basso costo di programmi di formazione in tutto il mondo.
  2. Adottare misure per la riduzione del consumo di combustibili fossili, a partire dal carbone, che dovrebbe essere eliminato almeno in tutti i paesi industrializzati, e sostituito con gas.
  3. Favorire la sostituzione dei combustibile fossili con energie rinnovabili, azzerando i sussidi ai primi ed utilizzando le risorse finanziarie ricavate per finanziare la ricerca sulle seconde.
  4. Adottare misure perché ogni tonnellata di carbonio emessa abbia un prezzo tale da incentivare l’innovazione tecnologica, l’efficienza energetica e la progressiva sostituzione delle energie fossili con energie rinnovabili.

Servono quindi decisioni pubbliche lungimiranti e investimenti privati. A Parigi un ruolo importante é stato svolto dal settore privato, che per la prima volta ha preso impegni rilevanti di riduzione delle emissioni di gas serra. E il successo della COP 21 è anche dovuto al grande lavoro della società civile e delle istituzioni locali: sindaci di importanti città, imprese private, reti di attività e ricerca, azioni di tante associazioni non governative stanno dimostrando come il cambiamento sia possibile e sia soprattutto un’opportunità. Serve continuare su questa strada con visione e lungimiranza.

Bibliografia
Banca Mondiale (2010), World Development Report 2010, Washington, US.
Carraro C., Davide M., (2015), La difficile strada che passa per Parigi, Equilibri 2/2015, Il Mulino, pp. 223-232.
Carraro C., Mazzai A. (2015) “Il clima che cambia. Non solo un problema ambientale”, Il Mulino (www.ilclimachecambia.it).
Climate Policy Observer, Special COP21 coverage, (consultato il 16/12/2015).
Climate Policy Observer, Sintesi degli INDCs (consultato il 16/12/2015).
Davide M., Vesco P. (2015), Assessing the INDCs: a comparison of different approaches. ICCG Reflection n.42/Dicembre 2015.
OECD (2015), “Climate finance in 2013-14 and the USD 100 billion goal”, a report by the Organisation for Economic Co-operation and Development (OECD) in collaboration with Climate Policy Initiative (CPI).
UNFCCC (2015), “Adoption of the Paris Agreement”, Parigi, Francia.