Alessandro Pajno, Intervento su xenofobia e nazional-populismo

Io non ho chiesto di intervenire perché in realtà credo che sia il tempo di pensare, piuttosto che di parlare.
Le cose che sono venute fuori, per un verso, implicano questioni che riguardano profili e livelli diversissimi: un livello di teoria generale, diremmo noi giuristi, legato sostanzialmente ad una teoria generale della società; un livello legato alla teoria della politica in rapporto con l’economia; un livello legato a quelle che sono le trasformazioni storiche che ci sono più vicine e che noi percepiamo immediatamente, per esempio quelle del nostro contesto.
Queste cose evocano sostanzialmente situazioni diverse. La prima esigenza che sento è quella di mettere un po’ d’ordine, perché da tutte queste indicazioni temo che possa venire fuori, se non si cerca questo ordine, una ricca descrizione, ma una modesta proposta. Ed allora, un primo aiuto per noi stessi forse sarebbe quello di mettere in ordine queste indicazioni.
Come si possono mettere in ordine? Secondo me, almeno per quello che mi è venuto in mente adesso, in due modi.
Intanto, distinguendo i profili che sono legati alla nostra esperienza nazionale dai profili legati ad una dimensione più ampia, perché, per un verso, i profili legati alla nostra esperienza nazionale sono anche il frutto di una dimensione più grande, ma, per altro verso, possono costituire una lente attraverso la quale si vede in modo deformato quello che sta su un piano più generale.
Per esempio, qui si è parlato della crisi dei partiti, della crisi della politica. A tal proposito, io mi domando se in questo momento siamo di fronte ad una crisi del partito o ad una crisi della forma del partito, cioè se, in sostanza, siamo di fronte ad una sua crisi radicale o ad una crisi del suo manifestarsi.
Mi colpisce da questo punto di vista l’indicazione che viene dal processo seguito in questi anni dal nostro Paese – ed in realtà dall’Occidente nel suo insieme. Il messaggio viene cioè dalla progressiva decomposizione dei partiti ideologici, dei partiti madre, diciamo così, dei partiti grandi case, e, viceversa, dalla progressiva affermazione di partiti di tipo americano in cui, cioè, il partito si presenta come una aggregazione di interessi che si coagulano al momento elettorale e che poi affida a soggetti diversi (a soggetti privati, a fondazioni) il dibattito all’interno della società.
Ora, questo è un processo che, per certi versi, è già in atto e con questo, in qualche modo, noi dobbiamo abituarci a fare i conti: non si tratta di ricordare quanto era bello il sistema precedente, ma dobbiamo capire che questo è il presente di oggi e questo presente dobbiamo in qualche modo affrontare.
Un problema connesso con questo è, per esempio, la modificazione della forma di governo.
Ricordo che quando noi, da studiosi di diritto amministrativo, abbiamo iniziato il dibattito sulle riforme, e non solo sulla riforma costituzionale ma anche sulle riforme istituzionali e dell’amministrazione, partivamo dal fatto che il nostro paese viveva una sorta di crisi di debolezza strutturale dell’amministrazione, proprio in relazione alla sua incapacità di essere, in qualche modo, legata a una traiettoria destinata a durare nel tempo.
Quando, in sostanza, si aprì il dibattito sulla riforma elettorale e sulla scelta per il sistema maggioritario, piuttosto che per il sistema proporzionale, che cosa stava dietro, sul versante delle questioni del Governo? L’idea di rendere il Governo più forte perché più legittimato e, quindi, più capace di una politica che nel tempo era capace di durare.
Quindi, l’idea in sostanza di allineare il nostro paese verso un processo che era un processo proprio dei paesi occidentali e che forse avrebbe portato alla fine a quella americanizzazione che, adesso, sto indicando come la linea che per noi effettivamente c’è stata.
Anche il riferimento alle primarie USA che faceva l’ambasciatore Salleo è molto interessante perché, appunto, l’affermazione che le primarie si vincono alle estremità, ma poi le elezioni si vincono al centro, pone chiaramente un problema: forse bisognerebbe anche chiedersi se quelli che vincono le primarie parlando alle estremità appartengono alle estremità o sono invece di una parte diversa.
Io credo che in realtà stiano al centro e da lì interpellano le estremità. Siamo quindi, in realtà, di fronte ad una raccolta di consenso che fa una forza, una personalità, che sta al centro rivolgendosi alle estremità e indicando la necessità di realizzare una parte di quel programma.
Allora, se procediamo da questa analisi, probabilmente possiamo vedere una linea di continuità verso un processo in atto e che in qualche modo dobbiamo laicamente accettare, senza rimpiangere le situazioni che sono andate via, accontentandosi di invocare per questo processo l’antico detto “o tempora, o mores”. Si tratta semmai di accettare questo processo e di capire come governarlo.
Da questo punto di vista, trovo molto interessanti questi rimandi continui che mi pare di aver colto nei diversi interventi e anche nelle stesse indicazioni che ci dava l’ambasciatore Salleo all’origine. Da questi ho selezionato alcuni elementi che ho provato a mettere in fila per cercare di capire se tra essi esiste un collegamento: ne è venuta fuori una scrittura di questo genere.
Il punto di partenza è stato il capitalismo, come ci ricorda Pierluigi Ciocca. Qui il problema è se il capitalismo è una scelta necessaria o una scelta contingente, o meglio, se alcune forme di capitalismo sono una scelta necessaria o se altre sono una scelta contingente.
A Papa Francesco non piace il capitalismo (e su questo il Papa è in buona compagnia) ed in qualche modo pone una questione che probabilmente va affrontata e chiarita. Va capito, cioè, se la forma storica di capitalismo che abbiamo di fronte è una forma storica adeguata alle prospettive, all’esigenza di cambiamento che si vive. Io interpreto in questo senso l’interrogativo che il pontefice fa in quel tipo di discorso, quando affronta il tema del capitalismo e della sua capacità di venire incontro ad una realizzazione piena della dimensione della persona umana.
L’altro elemento è la modernizzazione, perché la modernizzazione è un elemento unificante e semplificante.
La modernizzazione in realtà implica una qualche forma di unificazione: è schumpeteriana. Lo sperimentiamo anche noi quando ci muoviamo e troviamo a Roma come a Parigi, coma a Colonia, come anche a Tunisi, più o meno le stesse cose, alcune cose che si ripetono sempre (es. grandi magazzini che sono sempre di un certo tipo, insegne etc.). Questo è un processo di modernizzazione che implica necessariamente una semplificazione.

Si tratta di accettare questo tipo di semplificazione e capire sostanzialmente qual è il modo con il quale questa semplificazione non diventa solo banalizzazione, cioè una incapacità di trovare poi il senso delle cose.
Da questo punto di vista, la questione dei movimenti xenofobi è, secondo me, una risposta sbagliata ad una domanda giusta. Non so se riesco a rendere l’idea. Si tratta di una risposta che mette sul piano emotivo un problema che invece è strutturale e si pone sul piano dell’intelligenza, cioè il rapporto tra queste forme di modernizzazione semplificatrice e la perdita di identità che ne può derivare.
Allora il nostro problema è, ovviamente, non seguire questa tesi e quindi questa prospettiva, non mettersi (come ricordato prima) in modo antagonistico rispetto a queste, quasi a volere fronteggiare due scontri di civiltà, ma mettersi insieme a capire quali sono le ragioni di questo malessere e cercare di vedere quali sono i profili cui, rispetto a questo malessere, si può venire incontro.
Da questo punto di vista, la sequenza continuava dicendo: capitalismo, modernizzazione, comunicazione. Perché anche la comunicazione è una forma di comprensione, addirittura interattiva.
In realtà si comunica sempre abbassando il livello della comprensione: per rendere più accessibile la mia comunicazione io devo, in qualche modo, diminuire la qualità del mio discorso e, quindi, questa comunicazione ha dentro di sé una perdita di identità.
Alla base di questo poi stanno (lo ricordavate pocanzi) i fallimenti di due storiche forme di integrazione che abbiamo riconosciuto. Oggi dobbiamo dire che siamo di fronte al fallimento della proposta di integrazione alla francese, cioè l’abolizione sostanzialmente di qualunque segno identitario, ma anche della proposta di integrazione britannica, cioè quella di costruire un’integrazione tra comunità. La verità è che né l’una né l’altra sono riuscite a dare una risposta a questo problema che pure esiste.
Questo è un problema. Io non sono uno storico, ma mi pongo delle domande. Per esempio, data l’esperienza degli Stati Uniti quale paese che nasce sul Melting Pot, anche se poi alla base di questo Melting Pot c’è un fondo più solido, non potremmo cercare di capire perché alcune realtà sono riuscite nel tempo a meglio integrare e perché invece noi siamo in questa situazione di ritardo?
Io credo che la risposta che dobbiamo cercare sia soprattutto sul piano delle politiche. Ovviamente vanno fatte le scelte che le politiche del momento indicano; dobbiamo però essere consapevoli che sta cambiando il quadro politico. Noi stiamo passando da forme di parlamentarismo a forme in cui il ruolo degli esecutivi è destinato ad aumentare, e questo succede sempre quando i paesi si fanno più ampi. Da questo punto di vista abbiamo, quindi, un problema di responsabilità di questi esecutivi rispetto alla legittimazione.
Sul piano della risposta, io credo che bisogna sfuggire alla trappola che gli integralismi ed anche le xenofibie hanno architettato. Cioè non rispondere, perché in realtà queste forme incitano a rispondere allo stesso modo, quindi incitano a realizzare una parità tra una dimensione di pancia ed una dimensione che aspira invece ad essere razionale, di testa.
Noi dovremmo cercare di avere delle risposte che in qualche modo non seguano questa dinamica, quindi che non rispondano alzando il livello dello scontro, della violenza, ma che rispondano cercando laicamente di soddisfare interrogativi più piccoli, più modesti, ma che messi accanto nel tempo possano continuare.
Da questo punto di vista la prognosi non è fausta perché, dobbiamo dirlo con franchezza, la situazione non è di quelle facili. Quello che ci può aiutare è pensare che queste situazioni (chi studia storia questo lo sa meglio di me) forse ci sono già state e qualche risposta in passato è stata anche data.

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