Il problematico assetto delle fonti normative finanziarie

SOMMARIO: 1. Dalla “fonte” alle “fonti”; 2. Spunti diacronici; 3. (segue) Il nuovo diritto europeo; 4. Il “dilemma del prigioniero”; 5. I principali effetti.

1. I continui, tumultuosi mutamenti che attraversano la società post – moderna anche per il tramite di nuovi assetti disciplinari del diritto dell’economia si sono esponenzialmente amplificati dopo la crisi dei mercati finanziari (divenuta, nel corso degli anni, oramai senza aggettivi) soprattutto a causa di una finanza “geneticamente modificata” [1] che è difficile regolare tanto in ragione della sua vocazione strutturalmente metanazionale quanto dell’indeterminatezza in ordine all’ambito soggettivo (i prestatori dei diversi servizi) e oggettivo (i prodotti) di riferimento. Ciò ha determinato, determina, insieme al pluralismo delle fonti di produzione delle norme giuridiche derivante dal concorso di plurimi emittenti, la difficoltà di individuare le relative intersezioni e le categorie ordinanti (un tempo era, con linguaggio ora forse obsoleto, la “gerarchia delle fonti”) ma, prima ancora, il loro censimento e lo stesso reperimento. Entrare infatti “nella giungla della nuova regolamentazione è compito arduo per gli stessi che dovrebbero osservarla” [2], scontando spesso (a monte) la complessità dei prodotti negoziati che talora (la mente corre agli strumenti finanziari “derivati”) sfugge al controllo degli stessi offerenti, essendo tali prodotti (a tacer d’altro) “rappresentati da contratti che non costituiscono solo strumenti di circolazione della ricchezza ma addirittura tecniche virtuali di creazione del bene giuridico di riferimento, configurandosi il contratto derivato stesso come bene giuridico” [3].

Eppure, il lemma “fonti” ben avrebbe potuto declinarsi al singolare fino ad appena cinque lustri or sono. Fatte salve, da un lato, la disciplina generale del codice civile in tema di contratti bancari e, dall’altro, le prime scarne disposizioni di diritto dei valori mobiliari (contenute nella l. n. 216/1974 istitutiva della Consob) e di diritto delle assicurazioni (contemplate principalmente nella l. n. 20/1991 ampliativa dei poteri dell’Isvap e nel c.d. “decreto Cassese” di cui al d.p.r. n. 385/1994), la sola, compiuta fonte del diritto degli intermediari e dei mercati era rappresentata dalla mitica “legge bancaria” del ’36, sintesi verbale dell’insieme dei provvedimenti che, a partire dal r.d.l. 12 marzo 1936, n. 375, introducono nell’ordinamento “disposizioni per la difesa del risparmio e per la disciplina della funzione creditizia”. Nata per porre rimedio (principalmente attraverso la separazione tra credito ordinario e credito speciale) alla crisi della banca mista e per arginare pericolosi e risalenti problemi di stabilità del sistema finanziario, quella legge e il corrispondente assetto di governo del credito hanno imperato per oltre cinquant’anni. Ancora nella prima metà degli anni ottanta del secolo trascorso, la dottrina ne predicava la idoneità a soddisfare le mutevoli esigenze tecniche e politiche che le profonde trasformazioni economiche avevano prodotto, nonché la capacità a gestire soddisfacentemente crisi anche gravi di intermediari e ad impedirne la propagazione [4]. Merito, si diceva, delle sottese caratteristiche di flessibilità (ovvero di astratta adattabilità a diversi modelli di sistema bancario) e di tecnicismo (nella duplice accezione di specificità sia delle regole che dell’affidamento della funzione di supervisione ad un organo tecnico e non politico). Soprattutto, aggiungo, merito del fatto che la legge bancaria era avara di principi e di spunti teleologici, essendo impostata secondo un’articolazione per poteri piuttosto che espressamente per funzioni; ciò che, mutatis mutandis, ha nel tempo consentito all’autorità amministrativa il suo impiego in contesti economici e per finalità di supervisione del tutto differenti rispetto a quelli che l’avevano originata. L’impiego della riserva obbligatoria per soddisfare esigenze di politica monetaria ne ha rappresentato la più eloquente testimonianza. L’archetipo teorico di riferimento era costituito dalla discrezionalità (amministrativa o tecnica non è qui il caso di dire) assegnata all’autorità di supervisione per il perseguimento dei fini indicati dall’art. 47 Cost., ora decisamente meno incisiva in ragione della c.d. “democrazia procedimentale” che caratterizza l’agere delle autorità di settore. Appare tuttavia evidente, con riguardo alle differenti variabili in gioco, che altro è il sindacato di concrete fattispecie negoziali o comportamentali con riferimento ai divieti generali contenuti nelle leggi o nella normazione secondaria di riferimento (venendo nel caso di specie in rilievo un mero giudizio di legittimità/illegittimità dell’atto o della condotta), altro è effettuare un accertamento diagnostico sulla solidità patrimoniale dell’intermediario a fini di eventuali interventi di rigore, attività codesta basata su un giudizio probabilistico che evoca le ben note difficoltà di valutare ex ante la ricorrenza o no dei presupposti (incerti nella loro stessa identificazione) dell’insolvenza dell’impresa. La questione è naturalmente complessa, venendo in gioco il bilanciamento di contrapposti interessi pubblici. Basti averla qui evocata al dichiarato scopo di dar conto delle diverse linee di policy perseguite nel tempo dal legislatore per far fronte ad altrettanto diverse sensibilità socio – economiche rinviando, per più meditati approfondimenti sul tema, ad analisi altrove svolte [5]. Non senza peraltro aver ricordato che, a fronte di una “discrezionalità dei supervisori… amputata, nel mondo, negli ultimi anni”, è diffusa ora l’esigenza dell’unire “a buone regole generali una discrezionalità tecnica delle banche centrali e dei supervisori che sia protetta dalle norme giuridiche e confortata dalla politica, dall’opinione pubblica, dagli stessi operatori della finanza” [6].

2. Le modifiche che si succedono a partire dai primi anni novanta sono principalmente ascrivibili a fonte di diritto sovranazionale: dipendono infatti dal diritto (allora) comunitario, dalle tecniche di armonizzazione minima e di mutuo riconoscimento introdotte dalle leggi – ponte rispettivamente relative alla libertà d’insediamento degli enti creditizi (d. lgs. 14 dicembre 1992, n. 241, attuativo della direttiva 98/646/Cee) e alla libera prestazione dei servizi finanziari (d. lgs. 23 luglio 1996, n. 415, attuativo della direttiva 93/22/Cee). Quelle leggi erano state precedute, nei riferiti comparti, dal d.p.r. 27 giugno 1985, n. 350 che (in attuazione di una prima direttiva di coordinamento) aveva sancito il carattere imprenditoriale dell’attività bancaria (peraltro già scolpito nell’art. 2195 cod. civ.) ma, soprattutto, subordinato l’autorizzazione al possesso di requisiti soggettivi e oggettivi; nel mercato mobiliare, dalla l. 1° gennaio 1991, n. 1, istitutiva delle società di intermediazione mobiliare (c.d. Sim).

I testi unici del credito (d. lgs. 1° settembre 1993, n. 385), della finanza (d. lgs. 24 febbraio 1998, n. 58) e, più tardi, il codice delle assicurazioni private (d. lgs. 7 settembre 2005, n. 209) traggono spunto dall’attuazione delle direttive settoriali per procedere a una revisione organica delle sottese discipline al fine di un più generale ammodernamento del diritto dell’economia dei mercati bancario, finanziario, assicurativo. In questa prima fase rimane, risulta forse addirittura rafforzato il principio della discrezionalità che ispira l’azione delle autorità di supervisione dei relativi settori. In particolare, attraverso il diffuso impiego della clausola di “sana e prudente gestione”, avrebbe potuto apparentemente concludersi per una sostanziale riconferma del previgente assetto disciplinare [7]. Che una tale conclusione apparisse superficiale (oltre che frettolosa) era tuttavia confermato: i) dagli impegni comunitari che costituivano, a un tempo, genesi e limite della disciplina domestica non tollerando, in particolare, posticce o simulate riproposizioni di “esigenze economiche di mercato”; ii) dall’inserimento, nel Tub, di un intero Titolo VI rubricato alla “trasparenza delle condizioni contrattuali” e così alla cura di un profilo (quello della tutela della clientela) ignoto alla fenomenologia dell’intervento pubblico sul credito sottostante alla previgente legge del ’36, pure a fronte di una disposizione [art. 32, lett. b) e c)] astrattamente idonea a legittimare prescrizioni vincolanti in materia di fissazione di tassi e provvigioni; iii) dalla espressa codificazione degli obiettivi della vigilanza (portata, rispettivamente, dagli artt. 5 del Tub e Tuf e dall’art. 3 del codice delle assicurazioni private), la quale rappresenta il bilanciamento legislativo dell’ampia delegificazione degli strumenti a disposizione delle autorità. Né, sotto più generali profili, può essere omesso di ricordare che l’ampia discrezionalità confermata, in specie, in capo all’organo di supervisione bancaria risultava funzionale ai modi, alle forme, alle tecniche attraverso i quali possono efficacemente perseguirsi i delicati obiettivi cui quello risulta preposto. Competeva infatti alla Banca d’Italia “rinsaldare la solidità sistemica dell’industria finanziaria, promovendo la concorrenza e l’efficienza all’interno di essa…; nella prevenzione e risoluzione delle crisi, sceverare l’illiquidità dall’insolvenza; evitare che intermediari solo illiquidi ma solvibili soccombano; assicurare l’exit degli operatori inefficienti e insolventi; impedire, con il minor costo in termini di moral hazard, che le difficoltà dei singoli operatori si estendano per contagio all’intero sistema, sino a minare il valore della moneta e la fiducia in essa” [8].

3.A fronte dell’ultra cinquantennale stabilità e immutabilità della vecchia legge del ‘36, il Testo unico bancario ha formato oggetto di continui interventi additivi, modificativi, correttivi. In un risalente saggio del 2003 ne indicavo (in meno di dieci anni dalla sua vigenza) partitamente nove [9], che diventano trentanove nel più recente censimento di uno tra i più autorevoli conoscitori della materia al compimento dei vent’anni dall’entrata in vigore [10], ai quali ora almeno aggiungere (oltre a interventi marginali) le ulteriori, importanti modifiche portate dalla riforma delle banche popolari (di cui al d.l. n. 3/2015 convertito dalla l. n. 33/2015), dal d. lgs. n. 72/2015 di attuazione della direttiva n. 2013/36/Ue, dalla prossima entrata in vigore della legge di delegazione europea 2015 con l’attuazione della direttiva 2014/59 sulle crisi bancarie (e la introduzione del noto bail – in). Le modifiche hanno profondamente inciso sull’originaria struttura del testo normativo in punto di controlli, di morfologia dei soggetti abilitati a operare nel settore creditizio e dei pagamenti (pensiamo solo agli intermediari finanziari, agli istituti di pagamento e di moneta elettronica) e di contenuti delle relative attività, di trasparenza bancaria, ora divenuta plurale per articolarsi, al suo interno, in tre distinte discipline relative, rispettivamente, alle operazioni e ai servizi bancari (Capo I, Titolo VI, artt. 115 segg.); al credito ai consumatori (capo II, artt. 121 segg.); ai servizi di pagamento (Capo II – bis, artt. 126 – bis segg.). Non mancano naturalmente intersezioni e rinvii, ma trattasi di discipline strutturalmente e funzionalmente diverse tra loro tanto soggettivamente (la prima è a soggetto indifferente; la seconda protegge il consumatore; la terza contiene prescrizioni vincolanti nei confronti dei soli consumatori e delle “micro – imprese”) quanto oggettivamente (si pensi solo alla diversa portata dello jus variandi nei contratti aventi a oggetto strumenti di pagamento) [11]. Mutano, a ben vedere (arricchendosi, per un verso, riducendosi per l’altro) gli stessi obiettivi della vigilanza, estesi alla “trasparenza delle condizioni contrattuali e alla correttezza dei rapporti con la clientela” ma ridefiniti, almeno quanto a stabilità dei soggetti bancari, dalla vigilanza unica europea.

Non quantitativamente dissimili sono stati gli interventi sul Testo unico della finanza, mentre il codice delle assicurazioni private (oggetto di minori modifiche normative anche in ragione della sua più giovane età) è stato profondamente riformato, quanto all’assetto di supervisione, dalla nota l. 7 agosto 2012, n. 135 (istitutiva dell’Ivass) e, più di recente, dal d. lgs. n. 74/2015 di attuazione della direttiva 2009/138/Ce (c.d. “solvibilità II”).
La causa, come prima si ricordava, risiede nell’evoluzione della disciplina europea che regola il diritto dei mercati finanziari e, in particolare, nell’accelerazione impressa alle modifiche normative dalla crisi post Lemhan. Questa, oltre all’effetto indotto di continui, spesso radicali, mutamenti nei contenuti delle norme (testi unici e  codici di settore) vigenti all’interno degli Stati nazionali (al punto da revocare in dubbio completezza e razionalizzazione delle raccolte normative), incide sulla stessa superfetazione degli emittenti e sul conseguente reciproco concorso nella produzione di regole giuridicamente vincolanti. E’ appena il caso di ricordare che, con la istituzione del Sistema europeo di vigilanza finanziaria (c.d. Sevif) introdotta da quattro regolamenti UE del 2010 (1092 – 1095/2010) vengono creati un organismo di vigilanza c.d. “macroprudenziale” (basata sulla BCE e sul sistema europeo di banche centrali, Sebc) che ha lo scopo di individuare preventivamente i fattori di rischio sistemico per fornire i relativi elementi di valutazione alle autorità nazionali ed europee e tre organismi di vigilanza c.d. “microprudenziale” (bancaria, mobiliare, assicurativa, con i noti acronimi di Eba, Esma, Eiopa), incaricati del coordinamento delle relative vigilanze nazionali [12]. A ciò segue la più recente creazione dell’Unione bancaria europea, fondata sui tre pilastri del c.d. “meccanismo unico di vigilanza” (regolamento UE n. 1024/2013); del “meccanismo di risoluzione unico” (regolamento UE n. 806/2014); del sistema unico di garanzia dei depositanti (ancora da definire nel dettaglio) [13].

Il sistema (pardon, il “meccanismo”) di produzione delle fonti del relativo diritto risulta perciò articolato in fonti primarie (regolamento UE n. 585/2013; direttiva 2013/36 e direttiva 2014/59) e fonti sub primarie (standard Eba adottati dalla Commissione europea), alle quali si aggiungono le linee guida Eba alle autorità di supervisione nazionali e le disposizioni della Bce. Completano il quadro le disposizioni delle autorità creditizie nazionali, sempre più numerose e complesse. Menziono solo, esemplificativamente, che a fronte delle ricordate tre discipline di trasparenza bancaria del testo unico, ricorrono tre insiemi normativi sub primari approntati dalla Banca d’Italia in attuazione delle disposizioni corrispondenti.
Morale spiccia: la complessa e farraginosa architettura del nuovo “meccanismo” di governance bancaria determina, insieme alla moltiplicazione dei “pani e dei pesci” (qui nel senso di norme e autorità), incompiute esigenze di effettivo (non solo nominalistico) coordinamento delle competenze e delle relative azioni di regolamento di confini. Sia sufficiente ricordare che, a seguito dell’introdotto “meccanismo” di vigilanza unico europeo e dell’Unione bancaria europea, rimane immutata la norma di diritto interno sulle finalità della vigilanza bancaria mentre cambia (pure in assenza di una similare ridefinizione degli assetti assicurativi europei) quella sulla vigilanza assicurativa, ora incentrata sul principale scopo della “adeguata protezione degli assicurati e degli aventi diritto alle prestazioni assicurative” (art. 3 cap a seguito delle modifiche di cui al ricordato d. lgs. n. 74/2015). Risulta, del pari (e anacronisticamente), ancora in vita il Comitato interministeriale per il credito e il risparmio tra le “autorità creditizie”.
Non si può, da ultimo, omettere di ricordare l’altrettanto imponente e rilevante reticolo normativo rappresentato – nel settore di riferimento – dalle fonti di autodisciplina e dalla c.d. soft law. Diritto “mite” solo nella corrente accezione semantica del termine, atteso che le innovazioni prospettate in importanti consessi sovranazionali, quali il Comitato per la vigilanza bancaria presso la Banca dei regolamenti internazionali (Bri), determinano poi l’adozione di vere e proprie norme di diritto europeo (es. i noti standard internazionali di vigilanza prudenziale e di solvibilità, non a caso noti come “Basilea” I, II, e III).

4. Queste leggi nuove, questo inedito coacervo di discipline rivenienti da una pluralità di emittenti, pubblici e privati, rappresentano il riflesso di una società sempre più complessa nelle sue principali variabili economiche e, soprattutto, finanziarie. Sono, in Europa, aggravate dall’assenza di un disegno istituzionale organico; dalla mancanza di una unione politica; di una comune e condivisa carta costituzionale. La linea di tendenza è tuttavia comune anche sull’altra sponda dell’atlantico: la nota legge Dodd – Frank del 21 luglio 2010 di riforma del sistema finanziario U.S.A. è infatti un provvedimento mastodontico che si compone di 1.506 articoli, compendiati in 848 pagine, che richiede circa 400 regolamenti di attuazione (dei quali emanati poco più della metà dopo quattro anni).

Al pluralismo delle fonti si accompagna, come si è avuto modo di osservare, un continuo, magmatico, impetuoso mutamento delle leggi che governano il mercato finanziario. Ciò inevitabilmente incide sul più rilevante indice di certezza del diritto o, quanto meno, di prevedibilità delle conseguenze giuridiche dei comportamenti. Incide sulla stabilità delle leggi. Ora, è noto che la efficacia, soprattutto la effettività della legge a fini di regolazione del diritto dell’impresa e dei contratti del mercato finanziario postula che la norma primaria, la cornice, sia caratterizzata da un elevato tasso di stabilità. La teoria, tanto economica quanto giuridica, segnala quali “tratti caratteristici delle regole essenziali che governano e strutturano i mercati…quelli della stabilità e dell’inderogabilità. L’essere le norme in esame di lunga durata costituisce la condizione fondamentale che assicura certezza ai soggetti coinvolti negli scambi anche in termini di prevedibilità circa le aspettative risposte nell’attività negoziale nonché le conseguenze legate alla violazione delle medesime regole. Al tempo stesso, la non modificabilità di tali norme di ordine pubblico economico…preserva l’uniforme regolamentazione di tutte le operazioni che si svolgono nel mercato” [14]. La stabilità della legge è perciò un valore, una precondizione della sua effettività. L’osservanza diffusa e durevole delle regole di condotta preserva non solo gli usi, ma anche la legge dalla desuetudine. E’ valore sommo che consente alle stesse autorità di supervisione di perseguire con autorevolezza, con l’autorevolezza che loro deriva dall’agire in una cornice normativa nota, certa e condivisa, gli obiettivi della vigilanza, tra i quali per primo quello di un’altra stabilità; la stabilità del sistema finanziario. In siffatta guisa, la delegificazione (ovvero l’affidamento alla normazione secondaria del compito di provvedere all’ammodernamento della disciplina regolamentare al fine di dominare l’impetuoso cambiamento della sottostante realtà economica e fenomenica) postula, presuppone che la norma primaria, la cornice, sia caratterizzata da un elevato tasso di conoscibilità, accessibilità (donde la tecnica di testi unici normativi e codici di settore) e, appunto, stabilità. Le vicende recenti, sopra sommariamente descritte, procedono nell’opposta direzione del labirinto normativo per il tramite di una opaca (ri)allocazione di funzioni, una oscura (e spesso inaccessibile) semantica giuridica, della quale sono esempio evidente “i numerosi articoli del regolamento n. 575/2013 che contengono complicate formule matematiche per la misurazione dei rischi” [15], un ossessivo livello di dettaglio. Vale sul punto da ultimo evocato ricordare che se regolamentazioni troppo dettagliate producono riduzioni d’incertezza, esse producono altresì maggiori flessibilità comportamentali. E’ noto che, in ogni accordo complesso, il problema di chi deve adempiere non è tanto quello di prendere la decisione corretta, quanto quello di prendere una decisione suscettibile di incontrare l’approvazione della controparte. Negli anzidetti termini, regole formali e istruzioni dall’alto vengono a costituire delle precise risorse a favore del contraente più forte, il quale verrà indirettamente a disporre di un assetto informativo in grado di indicargli dove si appuntino le attese altrui, facilitando la risposta a eventuali giustificazioni e, a un tempo, fornendo nuovi spazi all’inventiva individuale tesa ad aggirare le regole poste [16]. A ciò consegue che “in situazioni altamente regolamentate, disposizioni, regole e prassi consolidate si presentano come surrogato del mondo reale, riducendo coinvolgimento e responsabilità individuali, spostando l’attenzione dai risultati al rispetto delle procedure, dando luogo a una maggiore flessibilità di reazione, che…significa maggiore opportunità di decidere sull’efficienza della prestazione attesa” [17].

La descritta dinamica di psicologia comportamentale non riguarda, all’evidenza, i soli rapporti tra le parti negoziali prima, durante o dopo la conclusione dell’accordo ma, nel nostro caso, anche e soprattutto i rapporti tra regolatori e regolati, efficacemente rappresentati dall’economista con la metafora di “Tom & Jerry”, dove “Jerry è evidentemente la finanza che opera per movimentare i mercati, producendo innovazioni che li ‘completano’… attore agile, furbo e creativo…Tom è il regolatore, più lento e destinato a un eterno inseguimento perdente” [18], fatto di regole, regole e ancora regole.

5. La complicata acquisizione di tali nuove regole (tra gazzette più o meno “ufficiali”, siti web, fonti informative di nicchia), la loro conoscenza, la loro elaborazione e padronanza, la capacità di inseguire continui e magmatici mutamenti sconta elevati costi tanto diretti quanto, soprattutto, transattivi che intuitivamente eccedono (o, in ogni caso, mettono a dura prova) le possibilità del relativo investimento conoscitivo da parte di intermediari, imprese, professionisti di più ridotte dimensioni. Non viene, infatti, solo in gioco la articolazione quantitativa ma anche la stessa discutibile qualità delle nuove norme, tanto sotto il versante semantico quanto sotto quello della moltiplicazioni dei saperi.

Oltre che contorto, involuto, ossessivamente descrittivo, il linguaggio non è (non è più) veicolo di trasmissione di enunciati normativi quanto piuttosto vero e proprio – tecno linguaggio, sideralmente lontano dall’assetto ordinamentale al quale pure si ascrive. L’esempio più evidente è, a ben vedere, rappresentato proprio dal sostantivo “meccanismo” ampiamente adoperato quale incipit descrittivo di recenti riforme. “Meccanismo”, anche in senso traslato, sta a indicare il funzionamento (le “istruzioni per l’uso”) di una organizzazione mentre, nel caso considerato, sottende la fattispecie e la disciplina di funzioni esclusivamente e totalmente pubbliche. Al tecno – linguaggio (ma, più spesso, si tratta di vero e proprio linguaggio burocratico – gergale) si accompagna, come si è visto, la indicazione di formule matematiche, la rappresentazione di elementi patrimoniali e contabili, la disciplina di operazioni bancarie, finanziarie, attuariali. L’interpretazione e, prima ancora, la sola acquisizione del significato e degli scopi della norma sconta perciò il concorso di saperi complementari. Quello giuridico è manifestamente recessivo. E’ più che sufficiente la presenza del mero conoscitore delle leggi, certo non dell’interprete (che anzi inutilmente complica il processo decisionale). Essenziali sono invece l’esperto in contabilità e bilancio, il tecnico bancario, l’analista, eventualmente l’attuario e il matematico, soprattutto l’economista, ovviamente specializzato in finanza. L’assunto (che, nonostante la crisi, permane e si rafforza) è che l’economia sia politicamente neutra e regolata da proprie leggi naturali. I suoi sacerdoti sono pertanto dei tecnici i quali, in quanto conoscitori di quelle leggi e di quei meccanismi, rappresentano i soli in grado di interpretarli e declinarli correttamente. I soli ai quali è oggi affidato il compito di definire “vim ac potestatem” della norma di legge. Non a caso, è stato efficacemente osservato che il mercato rappresenta il “criterio di tutti i criteri, la misura di ogni giudizio. Singolare, ma non inattesa, combinazione di naturalismo e tecnologia” [19]. Il diritto recede così a mera e spesso inutile sovrastruttura.
Inutile dire che la conoscenza di un tale assetto regolamentare e la conseguente legittimazione dialogica tra i suoi attori diviene appannaggio di un sempre più ristretto insieme di operatori economici (solo coloro che siano in grado di dotarsi di corposi e costosi servizi studi) e di studi legali (meglio, di “imprese” di servizi giuridici).
Né sembra possibile, ceteris paribus, potersi ragionevolmente invocare un ruolo demiurgico di supplenza da parte della giurisdizione, atteso che “l’ormai inarrestabile processo d’interazione tra norme nazionali e sovranazionali” [20] abbraccia le stesse fonti giurisprudenziali. Torna prepotentemente alla memoria la più recente, tangibile testimonianza del diverso percorso ermeneutico divisato dalle corti europee rispetto a quelle nazionali rappresentata dalla nota decisione c.d. Grande Stevens della Corte europea dei diritti dell’uomo del 4 marzo 2014 sulla illegittima duplicazione di sanzioni amministrative e penali in materia di abusi di mercato e di insider trading [21] con le conseguenti ancora incerte ricadute in punto di costituzionalità (e non solo) dell’apparato normativo  del Testo unico della finanza [22].  Senza omettere di ricordare, a fronte di una dottrina sempre più recessiva e avara di spunti sistematici anche in ragione del progressivo nichilismo giuridico indotto dalla sovranità mercatista (nonché da meccanismi organizzativi ibridi), il rischio dell’autoreferenzialità “di una giurisprudenza senza dottrina, perché fondata sulla dottrina delle corti”[23].

Note

1.  L’espressione appartiene a NARDOZZI, Il mondo alla rovescia, Bologna, 2015, 9

2.  Ancora NARDOZZI, cit., p. 110

3.  Così nel mio La crisi dei mercati finanziari: disorganici appunti di un giurista, in Dir. banc., 2009, 197 e in Scritti di diritto dell’economia, Milano, 2010, 329. Relativamente a questo profilo, v. anche le magistrali considerazioni di P. FERRO – LUZZI, Attività e “prodotti finanziari”, in Riv. dir. civ., 2010, I, 134.

4.  V., per tutti, CARBONETTI, I cinquant’anni della legge bancaria, in Banca d’Italia, Quaderni di ricerca, Roma, n. 10/1986, 13 ss.; in precedenza, G. FERRI, La validità attuale della legge bancaria, in Riv. dir. comm., 1974, I, 129 ss. In termini dubitativi CASSESE, E’ ancora attuale la legge bancaria del 1936?, in Bancaria, 1985, 281 ss. e G. MINERVINI, La legge bancaria verso il tramonto?, in Banche e banchieri, 1984, 633 ss.

5.  Rinvio perciò al mio Discrezionalità amministrativa e mercati finanziari, in Dir. banc., 2012, I, 229 ss.

6.  P. CIOCCA, Nuove prospettive del diritto bancario e dell’intermediazione finanziaria, Atti del convegno, in Ec. e dir. del terziario, 2011, 365. In argomento v., più in generale, dello stesso A., La banca che ci manca, Roma, 2014, soprattutto p. 99 ss.

7.  V., in particolare, il noto (e fortunato) saggio di G. MINERVINI, Il vino vecchio negli otri nuovi, in AA. VV., La nuova legge bancaria. Prime riflessioni sul testo unico in materia bancaria e creditizia, a cura di M. RISPOLI FARINA, Napoli, 1985, 11.

8.  Negli indicati termini P. CIOCCA, La nuova finanza in Italia. Una difficile metamorfosi (1980 – 2000), Torino, 2000, 174.

9.  V. il mio Fonti ed effetti del diritto della banca e dei mercati finanziari, in AA. VV., Diritto privato europeo, a cura di ALPA e DANOVI, Milano, 2004, 327.

10.  COSTI, Il testo unico bancario, oggi, in AA. VV., Dal testo unico bancario all’Unione bancaria: tecniche normative e allocazioni di poteri, in Banca d’Italia, Quaderni di ricerca, n. 75/2014, 42.

11.  Funditus nel mio Vigilanza bancaria e tutela del consumatore: obiettivi e strumenti, in Dir. banc., 2013, 590.

12.  Preziosi riferimenti normativi e sistematici in MANCINI, Dalla vigilanza nazionale armonizzata alla Banking Union, in Banca d’Italia, Quaderni di ricerca, n. 73/2013.

13.  Cfr., sul punto, la utile ricostruzione di PAGLIERINI – SCIASCIA, Prevenzione e gestione armonizzata delle crisi bancarie nell’Unione europea. Uno sguardo d’insieme, in Le Società, 2015, 986 ss.

14.  Così JANNARELLI, La disciplina dell’atto e dell’attività: contratti tra imprese e consumatori, in AA. VV., Diritto privato europeo, a cura di LIPARI, Padova, 1997, 497.

15.  V. CAPOLINO, Il testo unico bancario e il diritto dell’Unione europea, in AA. VV., Dal testo unico bancario etc., cit., 66. Non è, a questo punto, casuale la richiesta di un testo unico europeo della finanza (v., ad es., MF del 1° ottobre 2015, Perché dare priorità a un testo unico europeo della finanza).

16.  Rilievi, codesti, puntualmente svolti nel mio Statuto dell’impresa d’investimento e disciplina del contratto nella riforma del mercato finanziario, Milano, 1997, 63.

17.  Cfr. GALEOTTI, La tutela dei consumatori in Italia: presupposti e contorni di un problema aperto, in AA. VV., Consumatore, ambiente, concorrenza. Analisi economica del diritto, a cura di MATTEI – PULITINI, Milano, 1994, 170.

18.  NARDOZZI, Il mondo etc., cit., 133.

19.  IRTI, Crisi mondiale e diritto europeo, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2009, 1244. Un primo, difficile tentativo di inquadramento sistematico della disciplina a tutela del consumatore è in PAGLIETTI, Dal consumatore ai consumatori, dattiloscritto in corso di stampa che evoca, fin dal titolo, il noto (re)inquadramento della proprietà di PUGLIATTI.

20.  DI PAOLA, Gli (attesi) effetti della sentenza “Grande Stevens”: sistema sanzionatorio degli abusi di mercato, “ne bis in idem” e dubbi di legittimità costituzionale, in Foro it., 2015, II, 160.

21.  Edita, tra le altre riviste, in Foro it., 2015, IV, 129, con  vasta eco dottrinaria. Tra i tanti, rinvio qui solo ai commenti di ZAGREBELSKY, Le sanzioni Consob, l’equo processo e il ne bis in idem nella Cedu, in Giur. It., 2014, 1196 ss. e di D’ALESSANDRO, Tutela dei mercati finanziari  rispetto dei diritti umani fondamentali, in Dir. Pen. e proc., 2014, 614 ss. Cass., 17 dicembre 2013 aveva invece, in precedenza, escluso che l’azione penale potesse essere preclusa dalla irrogazione definitiva di una sanzione amministrativa per il medesimo fatto per il quale si procede. Sulle difficoltà “ad assumere la parità di trattamento tra gli operatori a fondamento della disciplina penale dell’insider trading” e, a fortiori, sul cumulo di sanzioni, mi permetto di rinviare al mio Informazione, mercato, buona fede: il cosiddetto insider trading, Milano, 1992, p. 38 ss.

22.  V. l’ordinanza di rimessione di Cass., 10 novembre  2014 – 15 gennaio 2015, n. 1782, in Foro it., 2015, II, 148. Sulla compatibilità del procedimento Consob di irrogazione delle sanzioni amministrativa per le richiamate fattispecie con il principio dell’equo processo ex art. 6 della Convenzione europea sui diritti dell’uomo v. Tar Lazio, 27 novembre 2014, n. 11887, ibid., III, 217.

23.  Così BERRUTI, La dottrina delle Corti, in Foro it., 2013, V, 183, dove anche saggi di BARONE, PARDOLESI –  GRANIERI, SCODITTI.