Le sanzioni antitrust tra diritto amministrativo e diritto penale: la visione del penalista

Il tema di oggi – i rapporti tra diritto antitrust e diritto penale – evoca una pluralità di questioni, dogmatiche ed applicative.
Ad essere chiamato in causa è difatti il ruolo del diritto penale; il ruolo del diritto antitrust; la valutazione in ordine alla possibilità-opportunità di impiegare l’arma tagliente della pena rispetto alla violazione delle regole in materia di concorrenza.
Dall’angolo visuale del penalista tutto ciò comporta un’analisi ad ampio spettro che non può che partire dall’osservazione del dato normativo.

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A venire in considerazione sono anzitutto quelle fattispecie contenute nel codice penale che, in un contesto disorganico e sovente anacronistico, espressamente contemplano, nel novero degli interessi tutelati, profili interferenti con la protezione della concorrenza.
Mi riferisco alle ipotesi di reato contenute nel titolo dedicato ai delitti contro l’industria e il commercio e che, per intenderci, vanno dalla turbata libertà degli incanti, all’illecita concorrenza mediante violenza o minaccia, alle manovre speculative su merci.
Sono figure che, nella loro conformazione, come dicevo, recano spesso il segno dei tempi e che, salvo qualche caso, hanno faticato a trovare applicazione.
Si tratta comunque di norme che intervengono rispetto a specifici fenomeni, senza tuttavia che nell’impianto codicistico vi sia una disposizione in materia di “concorrenza sleale” in genere; ambito la cui tutela rimane affidata al versante civilistico.
Un secondo piano di rilevanza della concorrenza nella prospettiva penalistica è legato al progressivo ampliamento dello spettro di tutela di figure di reato tradizionalmente poste a presidio di beni ‘tradizionali’.
Si tratta, certamente, del “dato” più significativo dal punto di vista delle scelte di politica criminale perché segna e sottolinea il progressivo ampliarsi dei valori che si ritiene debbano essere oggetto di tutela penale.
Il riferimento è in particolare alle fattispecie di corruzione – ‘domestica’ e, ancor di più, ‘internazionale’ – che hanno visto nel tempo spostare il loro asse di tutela dagli ambiti consueti del buon andamento e imparzialità della pubblica amministrazione a quelli della libera concorrenza tra imprese. Si tratta di un percorso ben delineato negli strumenti sovranazionali di contrasto alla corruzione e che è stato indubbiamente alimentato dalla previsione della responsabilità degli enti ex d.lgs. 231 del 2001 avuto riguardo anzitutto ai delitti in questione.
Sul fronte della corruzione è questa una linea di sviluppo che a ben vedere contraddistingue anche la corruzione pubblica ma che mostra in modo ancora più marcato i suoi tratti nel caso della corruzione privata.
Non è del resto un caso che nelle Convenzioni in materia di contrasto alla corruzione, la corruzione privata assuma una conformazione tale da indirizzarla chiaramente verso la tutela della concorrenza e che analogo indirizzo traspaia chiaramente dalla Decisione quadro 2003/568/GAI ove si fa espresso richiamo, quale elemento delimitativo dell’operatività dell’ipotesi criminosa, alla distorsione della concorrenza nell’acquisizione di beni o servizi.
Emblematico del resto il percorso seguito dall’ordinamento tedesco ove la fattispecie di corruzione privata fa la sua apparizione nella legge sulla concorrenza del 1909 per essere molto dopo inserita nel codice penale nell’attuale art. 299.
Su questa linea, d’altronde, si muove il delitto di corruzione tra privati di cui al nuovo art. 2635 c.c. che, accanto al patrimonio della società, prende espressamente in esame la lesione della concorrenza quale evento del reato, al cui ricorrere si ha altresì la procedibilità d’ufficio. Evidente qui, anche nella previsione di un diverso regime di procedibilità – a querela invece quando ad essere in gioco sono esclusivamente interessi patrimoniali –, l’emergere di interessi con una chiara venatura pubblicistica.
Assetto di disciplina che oggi si completa, sempre nella logica di una tutela rafforzata della concorrenza, con l’introduzione della responsabilità degli enti rispetto alla condotta di chi dà o promette denaro o altra utilità.
L’ultimo piano di rilevanza, di interferenza tra diritto penale e tutela della concorrenza, cui vorrei accennare è quello più strettamente attinente, come dicevo, alla specifica disciplina antitrust.
Questo, da un certo punto di vista, sembra il terreno di minore interesse, almeno diretto, del penalista atteso che, come noto, la scelta del nostro legislatore, a differenza di altri ordinamenti, è stata nel senso di una tutela interamente extrapenale.
Le varie previsioni della legge del 1990 n. 287 si affidano, difatti, interamente alla sanzione amministrativa pecuniaria quale strumento privilegiato di contrasto dei fenomeni di distorsione della concorrenza – intese restrittive della concorrenza, abusi di posizione dominante e operazioni di concentrazione – ovvero di presidio dei poteri dell’Autorità di vigilanza, con qualche incursione nell’armamentario delle sanzioni interdittive.
Uno spazio di operatività del diritto penale è, però, assicurato dalla previsione dell’ostacolo all’esercizio delle funzioni di vigilanza (art. 2638 c.c.) che, nella generale ‘mitezza’ che da alcuni anni contraddistingue il diritto penale societario, ha mantenuto un suo spessore sanzionatorio e una sua portata applicativa.
Tale norma si ritiene difatti applicabile anche ad autorità indipendenti quali l’Autorità garante per la concorrenza e il mercato e, se è vero che il primo comma ha un raggio d’azione in definitiva circoscritto, riguardando esclusivamente le comunicazioni concernenti la situazione economica, finanziaria e patrimoniale dei sottoposti alla vigilanza – ipotesi non di immediata rilevanza nel campo di nostro interesse –; è altrettanto vero che il secondo comma, almeno nella lettura più aperta della norma, si presta a sanzionare più in generale l’ostacolo alle funzioni di vigilanza.

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Ma il quadro molto brevemente tratteggiato giustifica un abbandono di ogni interesse del penalista?
Riteniamo davvero che non siano ravvisabili contiguità di filosofia sanzionatoria tra il diritto penale e il diritto antitrust?
Sappiamo bene che questa sarebbe una conclusione affrettata, una prospettiva non appagante.
Ciò è dimostrato, credo, anche dall’attenzione che negli ultimi anni anche i penalisti – devo dire, con un po’ di ritardo rispetto alla riflessione di altri paesi – hanno cominciato a mostrare verso la materia antitrust, proprio stimolati dal tema delle sanzioni.
E non potrebbe che essere così, attesa la sempre più vasta attenzione – con ruoli talvolta “ortopedici” – del diritto amministrativo alle dinamiche del “mercato”.
L’esperienza di altri ordinamenti, come quello tedesco, ma anche la nostra (basti qui menzionare la fondamentale legge sull’illecito amministrativo depenalizzato del 1981 n. 689 e le recenti tendenze in tema di abusi di mercato), mostra come la sanzione amministrativa si presenti sempre più come strumento principe di lotta alla criminalità economica.
Si è venuto così a creare un universo sanzionatorio, altro sì dal penale tradizionale, ma che presenta una chiara matrice punitiva.
Anche qui testimonianza evidente è il sottosistema edificato dalla legge del 1981 e, in definitiva, venendo ai giorni nostri quello ideato dal d.lgs. 231 del 2001, mutuato e fortemente caratterizzato da principi e regole di ispirazione penalistica.
I recenti interventi della Corte europea dei diritti dell’Uomo – significativo il noto caso Menarini – richiamano del resto, al di là poi dell’esito specifico del singolo ricorso – all’esigenza di apprestare una lettura della ‘materia penale’ che si distacchi sempre più da etichette formali per incentrare invece l’attenzione sul carattere della sanzione, sulla sua severità, sulla finalità repressiva e generalpreventiva.
Questo vuol dire ripensare le modalità di intervento e ripensare il ruolo del diritto penale?
Non credo che la soluzione sia il ricorso allo strumento penalistico, al di fuori degli ambiti, come ho detto prima, da esso già occupati.
La sfida credo sia, al contrario, quella di assicurare un sistema che, pur con le necessarie diversità e gli opportuni adattamenti, offra, sul piano sostanziale e dell’accertamento, le garanzie che la natura afflittiva delle sanzioni impone.
Ritengo, infatti, vada superata l’idea secondo la quale il diritto penale e il suo apparato sanzionatorio debbano intervenire ogniqualvolta la sanzione civile o quella amministrativa non siano in grado di funzionare in modo efficiente.
Il diritto penale non può, in altri termini, essere chiamato svolgere un ruolo di supplenza verso gli altri segmenti punitivi né essere chiamato a regolare, progressivamente, sempre maggiori segmenti del diritto dell’economia.
Questo non è e non sarebbe un bene né per il diritto penale – che, al rarefarsi dei beni giuridici tutelati rischia di divenire “simbolico” – né per l’economia, che vedrebbe alterate le sue dinamiche fisiologiche, subendo un lento processo di burocratizzazione.

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Non più diritto penale, dunque, ma seria riflessione su quali possano essere dei validi strumenti di ausilio ad una efficace politica sanzionatoria che siano allo stesso tempo capaci di creare incentivi per le imprese.
Credo che, sulla scia delle riflessioni e delle esperienze in corso anche a livello europeo, si possa e debba ragionare sull’utilità di compliance programs, anche e soprattutto nella prospettiva di un riconoscimento di essi sul piano sanzionatorio.
In questo senso il modello normativo nazionale di cui al d.lgs. n. 231/2001, cui sopra facevo riferimento, costituisce – anche nel confronto con i modelli di “antitrust compliance” di altre esperienze – una utile base di confronto.
Credo, infatti, che i requisiti essenziali di una best practice aziendale in materia antitrust non si dovrebbero discostare molto da quelli che sono alla base di un modello di prevenzione dei “reati 231”.
Nessuna best practice aziendale, nessun modello di organizzazione, qualunque sia il perimetro che gli si intende assegnare possono, infatti, prescindere da un preliminare forte impegno dei vertici aziendali, da una seria mappatura dei rischi e da una conseguente identificazione di procedure adatte a minimizzare i rischi di disallineamenti. Il tutto, ovviamente, accompagnato da un training efficace del personale, da un rigoroso piano di audit e da un credibile apparato di sanzioni.

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Ma proprio l’ormai decennale esperienza in materia di responsabilità amministrativa di impresa ci insegna che il modello “preventivo” dei compliance programs risulta essere, nel tempo, sostenibile (per le imprese) e credibile (per l’ordinamento in generale) solo se l’approccio della Autorità (magistratura o autorità amministrativa) non è di “scettico rifiuto”.
Intendo dire che, ad oggi, nonostante gli sforzi che molte imprese hanno affrontato nella costruzione di modelli di prevenzione dei rischi “231”, la “risposta” della magistratura non è stata sempre “premiante”, assumendo anzi spesso atteggiamenti di chiusura.

Ciò per dire che i sistemi di prevenzione, in qualunque materia e settore dell’agire d’impresa si intenda “impiantarli” – dall’infortunistica ai reati societari, dalla tutela ambientale ai reati contro la pubblica amministrazione, dagli illeciti fiscali fino alla materia antitrust – hanno senso solo se sono “creduti”, considerati reale strumento di mitigazione del rischio, anche da parte di chi ha il compito di verificarne l’applicazione, sia esso la magistratura o una autorità indipendente.
Se così non è, il rapporto costi benefici di tali misure si rivela presto svantaggioso per i soggetti regolati i quali, pertanto, finiscono per assumere un atteggiamento di tipo burocratico, formalistico, privo di effettività; ciò porta le imprese, nel lungo periodo, ad abbandonare la positiva “tensione preventiva” per appropriarsi di un approccio che vede la sanzione come costo d’impresa.
Credo, quindi, nell’utilità di dare sempre più spazio a forme di autoregolamentazione aziendale, soprattutto se guidate da indicazioni provenienti dalle Autorità di vigilanza.
Ma non posso non sottolineare con decisione che, soprattutto in un momento in cui le imprese soffrono contrazioni di redditività, i modelli organizzativi – se seriamente adottati, se seriamente attuati – devono garantire un ragionevole grado di certezza su una efficacia esimente.
Questa è la prospettiva che, con coraggio, andrebbe percorsa.

Il contributo è una rielaborazione dell’intervento al Convegno “Le sanzioni antitrust tra diritto amministrativo e diritto penale” tenutosi a Roma, presso Palazzo Venezia, il 24 Ottobre 2013.

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