Stato ed economia andata e ritorno. Riflessioni a partire dal “caso Ilva”

Il fine di questo intervento è di svolgere alcune riflessioni sulla vicenda complessa dell’Ilva di Taranto, stretta fra la necessità di ottemperare agli obblighi di “legalità” evidenziati dalla magistratura e la necessità di adeguarsi agli indirizzi normativi del governo, che paiono, però, inficiati da rilevanti “sviamenti di potere”, non evidenziati dalla sent. n. 85/2013 della Corte costituzionale. Dalla lettura della sentenza si possono trarre, tuttavia, indicazioni preziose per comprendere la natura “reale” dei rapporti “stato-economia” che si vanno configurando nelle situazioni di crisi delle imprese di “interesse strategico nazionale”. Il modello di “intervento pubblico nell’economia” che si profila pare orientato, infatti, a perseguire non le finalità “democratico-sociali” indicate dalla Costituzione, ma quelle di “salvataggio” delle imprese industriali e finanziarie (similmente alle forme di “capitalismo di stato”, sperimentate negli anni trenta del Novecento). Prima di analizzare le motivazioni della sentenza, vorrei, però, osservare come gli esiti catastrofici provocati dalla gestione irresponsabile dell’Ilva (morti sul lavoro; diffusione di patologie gravi; diossina nel latte materno; blocco delle coltivazioni; distruzione degli armenti), inducano a riflessioni di natura non solo “costituzionale”, ma anche “biopolitica”, perché rivelano la natura pervasiva acquisita dai poteri monopolistici privati, che condizionano non solo la situazione economico-sociale dei cittadini, ma incidono sulla stessa “nuda vita”.
La questione di legittimità costituzionale è stata sollevata dalla magistratura nei confronti delle norme del c.d. decreto salva-Ilva (d.l. n. 207/2012 e relativa l. di conv. n. 231/2012) che autorizzano, in presenza di determinate condizioni, la prosecuzione dell’attività produttiva (art. 1, 1° e 2° co.) di un’impresa considerata di “interesse strategico nazionale” (art. 3, 1° e 3° co.), anche in presenza di provvedimenti cautelari finalizzati a tutelare la salute dei cittadini-lavoratori. La dottrina ha osservato come la vicenda dell’Ilva si collochi «nel cuore autentico […] delle ragioni del conflitto […] fra potere giudiziario e potere politico», derivanti dalla difficoltà di tracciare un confine «fra i compiti e le responsabilità spettanti all’uno o all’altro dei due poteri». Essa avrebbe il merito di fare emergere «la tensione – di solito latente – tra istituzioni e poteri dello Stato che rivendicano […] il diritto a dire l’ultima parola» sul “bilanciamento” tra diritti che versano in una situazione di conflitto potenziale (Onida, in Riv. AIC, n. 3/2013, p. 1).
I magistrati hanno sostenuto che i diritti alla salute e all’ambiente, in quanto connessi al valore prioritario della “persona umana” (art. 2 Cost.), possiedono un carattere “assoluto” che li sottrae da ogni “bilanciamento”, sicché la libertà di iniziativa economica e il diritto al lavoro possono essere tutelati solo nella misura in cui non ledano il principio “personalista” e i diritti inviolabili ad esso connessi. La Corte costituzionale ha sostenuto, invece, che i “diritti fondamentali” sono collocati in un «rapporto di integrazione reciproca», sicché nessuno possiede «una prevalenza assoluta sugli altri». Essi devono essere «bilanciati», pertanto, in sede politica «secondo un criterio di ragionevolezza» e devono essere tutelati in modo sistemico e non frazionato «in una serie di norme non coordinate e in potenziale conflitto tra loro». Si potrebbe verificare, altrimenti, «l’illimitata espansione di uno dei diritti, che diverrebbe “tiranno” nei confronti delle altre situazioni giuridiche costituzionalmente protette, che costituiscono, nel loro insieme, espressione della dignità della persona» (sent. n. 85/2013, par. 9 del cons. in dir.).
La Corte costituzionale non ha condiviso, in specie, la tesi prospettata dal giudice rimettente, secondo cui l’aggettivo “fondamentale” contenuto nell’art. 32 Cost., attesterebbe il «carattere preminente» del diritto alla salute «rispetto a tutti i diritti della persona». La Corte osserva, infatti, che la Costituzione italiana, al pari delle altre Costituzioni democratiche e pluraliste contemporanee, richiede «un continuo e vicendevole bilanciamento tra principi e diritti fondamentali, senza pretesa di assolutezza per nessuno di essi». (sent. n. 85/2013, par. 9 del cons. in dir.). I valori della salute e dell’ambiente sono da considerarsi, quindi, “primari” solo nel senso che essi non possono essere «sacrificati ad altri interessi ancorché costituzionalmente tutelati» e non nel senso che «sono posti alla sommità di un ordine gerarchico assoluto». Il «punto d’equilibrio» fra i diritti fondamentali non è «prefissato in anticipo», ma necessariamente, «dinamico», sicché il «legislatore nella statuizione delle norme» e il «giudice delle leggi in sede di controllo» devono individuarlo «secondo criteri di proporzionalità e ragionevolezza, tali da non consentire un sacrificio del loro nucleo essenziale» (sent. n. 85/2013, par. 9 del cons. in dir.). Una dottrina autorevole ha osservato, del resto, come «a fronte degli interessi alla tutela ambientale, si collochino altri interessi pure di rilevanza costituzionale, la cui tutela verrebbe pregiudicata dal divieto di prosecuzione dell’attività», specificando, inoltre, come «il bilanciamento tra i due ordini di interessi richieda complesse valutazioni non riconducibili a parametri oggettivi predeterminati e assoluti, tali da consentirne una determinazione e una applicazione esclusivamente giurisdizionali» (Onida, cit., p. 2). La Corte costituzionale ha rilevato come l’art. 1, 1° co., d.l. n. 207/2012 – che subordina il rilascio dell’autorizzazione alla prosecuzione dell’attività produttiva, al rispetto delle prescrizioni dell’AIA “riesaminata” – sia strutturato sulla «combinazione» tra «una previsione legislativa» e «un atto amministrativo» che deve realizzare un “ragionevole bilanciamento” tra le esigenze del lavoro e della produzione e quelle della salute e dell’ambiente (sent. n. 85/2013, par. 9 del cons. in dir.). Si è evidenziato, in particolare, come il «richiamo operato […] dalla legge alle prescrizioni dell’AIA, svolga una funzione di «costante condizionamento della prosecuzione dell’attività produttiva alla puntuale osservanza delle prescrizioni contenute nel provvedimento autorizzatorio», che, costituendo il punto di confluenza di «plurimi contributi tecnici ed amministrativi», deve garantire – in conformità alla direttiva 2008/1/CE – la simultanea applicazione dei «principi di prevenzione, di precauzione, di correzione alla fonte, di informazione e di partecipazione», ossia dei principi che «caratterizzano l’intero sistema normativo ambientale». Il procedimento che culmina nel rilascio dell’AIA è considerato, pertanto, come «lo strumento attraverso il quale si perviene […] all’individuazione del punto d’equilibrio in ordine all’accettabilità e alla gestione dei rischi che derivano dall’attività oggetto dell’autorizzazione» (sent. n. 85/2013, par. 10.1 del cons. in dir.).
La Corte chiarisce, in premessa, come le prescrizioni contenute nell’AIA già rilasciata «possano rivelarsi inefficaci, sia per responsabilità dei gestori, sia indipendentemente da ogni responsabilità oggettiva» e come, in questo caso, debba applicarsi la previsione contenuta nell’«art. 29 octies, comma 4, del Codice dell’Ambiente», che impone, all’Amministrazione, l’obbligo di «aprire il procedimento di riesame». La previsione dell’art. 1, 1° co., d.l. n. 207/2012 prende le mosse, quindi, «da questo momento critico che può aver giustificato l’adozione di provvedimenti giudiziari di sequestro» e prescrive, di conseguenza, l’obbligo di avviare «un secondo procedimento, che sfocia nel rilascio di un’AIA “riesaminata”, nella quale […] sono valutate le insufficienze delle precedenti prescrizioni e si provvede a dettarne di nuove, maggiormente idonee […] ad evitare il ripetersi di fenomeni di inquinamento che hanno portato all’apertura del procedimento di riesame». L’AIA “riesaminata” indica, quindi, «un nuovo punto di equilibrio», che consente «la prosecuzione dell’attività produttiva a diverse condizioni, nell’ambito delle quali l’attività stessa deve essere ritenuta lecita nello spazio temporale massimo (36 mesi), considerato dal legislatore necessario e sufficiente a rimuovere […] le cause dell’inquinamento ambientale e dei pericoli conseguenti per la salute delle popolazioni». La Corte ammette, in generale, che l’«equilibrio» individuato dall’AIA “riesaminata”, possa non essere «il migliore in assoluto», ma lo considera, comunque, «ragionevole», avuto riguardo «alle garanzie predisposte e all’iter amministrativo previsto» (Onida, cit., p. 3 e sent. n. 85/2013, parr. 10.2 e 10.3 del cons. in dir.). Secondo la Corte, il meccanismo imperniato sulla «combinazione tra un atto amministrativo (AIA) e una previsione legislativa (art. 1 d.l. n. 207/2012)», risulta adeguato per individuare «le condizioni e i limiti della liceità della prosecuzione di un’attività produttiva per un tempo definito». Si evidenzia, infatti, come l’art. 1 d.l. n. 207/2012 non preveda «la continuazione pura e semplice dell’attività produttiva alle medesime condizioni che avevano reso necessario l’intervento repressivo dell’autorità giudiziaria, ma imponga nuove condizioni la cui osservanza deve essere continuamente controllata, con tutte le conseguenze giuridiche previste in generale dalle leggi vigenti per i comportamenti illecitamente lesivi della natura e dell’ambiente».
Sulla base di queste premesse, si è ritenuto che la normativa del Governo pone le premesse per «un non irragionevole bilanciamento tra i principi della tutela della salute e quelli della tutela dell’occupazione» (sent. n. 85/2013, par. 10 del cons. in dir.). Per queste ragioni, la Corte ha sostenuto che «non rientra nelle attribuzioni del giudice una sorta di “riesame del riesame” circa il merito dell’AIA, sul presupposto […] che le prescrizioni dettate dall’autorità competente siano insufficienti e sicuramente inefficaci nel futuro». Si è evidenziato, infatti, come «le opinioni del giudice, anche se fondate su particolari interpretazioni dei dati tecnici a sua disposizione», non possano sostituirsi «alle valutazioni dell’Amministrazione […] rispetto alla futura attività dell’azienda, attribuendo, in partenza, una qualificazione negativa alle condizioni poste per l’esercizio dell’attività stessa, neppure ancora verificate nella loro concreta efficacia» (sent. n. 85/2013, par. 10.3 del cons. in dir.). Non è sembrato plausibile, pertanto, che un giudice possa ritenere «illegittima la nuova normativa in forza di una valutazione di merito di inadeguatezza della stessa […], sovrapponendo le proprie valutazioni discrezionali a quelle del legislatore o delle amministrazioni competenti». Questo tipo di sindacato potrebbe giustificarsi «solo in presenza di una manifesta irragionevolezza della nuova disciplina dettata dal legislatore e delle nuove prescrizioni contenute nell’AIA riesaminata» (sent. n. 85/2013, par. 12.6 del cons. in dir.).
Con il d.l. n. 207/2012 non si è provveduto, tuttavia, a disciplinare «il rapporto tra provvedimenti cautelari del giudice penale e l’assunzione dell’onere di affrontare il rischio da parte della pubblica amministrazione», ma si è perseguito, invece, il fine di neutralizzare «l’efficacia dei provvedimenti assunti dal giudice» (Bin, in Dir. pen. cont., n. 1/2013, p. 5). Si può comprendere, pertanto, come i giudici abbiano deciso di promuovere il giudizio dinanzi alla Corte a difesa delle proprie prerogative e, più in generale, del principio della separazione di poteri. La Corte costituzionale non si è pronunciata, però, sul merito di tali rilevanti questioni, optando «per la strada prudente della sterilizzazione in via ermeneutica del conflitto». Le disposizioni impugnate sono state rilette «come se avessero inteso non già caducare ipso iure i provvedimenti di sequestro della magistratura», ma «modificare il quadro normativo preesistente sulla cui base i provvedimenti in questione si fondavano, creando così un consequenziale obbligo per il giudice di provvedere in conformità al mutato quadro normativo» (Viganò, in Dir. pen. cont., n. 1/2013, p. 3).
Per la Corte, la previsione contenuta nel 3° co. dell’art. 3 d.l. n. 207/2012 (immissione dell’impresa nel possesso dei beni e autorizzazione al proseguimento dell’attività produttiva), non lede la sfera di competenza dell’Autorità giudiziaria e, quindi, il principio della separazione dei poteri, perché non mira a travolgere «un “giudicato” nel senso tecnico processuale del termine», ma a modificare «il quadro normativo sulla cui base erano stati emessi alcuni provvedimenti cautelari». Essa crea, cioè, «una nuova situazione di fatto e di diritto» che consente la ripresa della produzione, non già «con le modalità precedenti (che avevano dato luogo all’intervento dell’autorità giudiziaria), ma con modalità nuove e parzialmente diverse», suscettibili di porre le premesse per la produzione di nuovi fatti e di nuove situazioni, «che dovranno essere valutati nuovamente dai giudici, ove aditi nelle forme rituali» (sent. n. 85/2013, par. 12.4 del cons. in dir.).
La disciplina concernente gli “stabilimenti industriali di interesse strategico nazionale” e la sua applicazione agli stabilimenti Ilva di Taranto, inoltre, non sono state considerate viziate da irragionevolezza, perché motivate da una “situazione di emergenza” che imponeva, appunto, l’adozione di “una legge-provvedimento” capace di «scongiurare una gravissima crisi occupazionale» e di fronteggiare le questioni connesse alla «compromissione della salubrità ambientale e, quindi, della salute delle popolazioni» (sent. n. 85/2013, par. 12.2 del cons. in dir.). Resta da chiedersi, tuttavia, se un ordinamento democratico possa tollerare – sia pur in nome della “necessità” di garantire la produzione e l’occupazione – «un vulnus tanto dirompente per tutta una serie di principi-cardine dell’organizzazione dello Stato di diritto costituzionale, quali il rispetto della funzione giurisdizionale, del giusto processo e della separazione dei poteri» (Morelli, in Dir. pen. cont., n. 1/2013, p. 11).

Una dottrina autorevole ha ritenuto, invece, che il richiamo operato dalla Corte all’«autonomia» e alla «responsabilità» dell’Amministrazione», costituisca un’indicazione essenziale per un Paese bloccato dalla «deresponsabilizzazione» e dalle «inerzie» delle amministrazioni e in cui «il ricorso alle sedi giudiziarie», si profila come «l’unico rimedio possibile» (Onida, cit., p. 4). Si è sostenuto, pertanto, che la valutazione circa gli «effetti futuri di un’attività di per sé lecita», i «rischi […] collegati» e l’«equilibrio fra rischi e vantaggi», sia di natura «tipicamente discrezionale» e non possa essere, quindi, demandata in ultima istanza ai giudici «senza alterare l’equilibrio dei poteri» (Onida, cit., p. 3). Occorre osservare, tuttavia, come la forma di governo vigente imperniata sui valori del pluralismo sociale, politico e istituzionale, non attribuisca ad alcun organo costituzionale un “potere di ultima istanza”, ma prescriva, a ciascuno di essi, l’obbligo di concorrere – in modo coordinato e in base alle rispettive competenze – alla realizzazione dei fini della forma di stato democratico-sociale.
La Costituzione italiana ha regolato in modo nuovo il rapporto stato-industria (artt. 41 e 43 Cost.) e l’intreccio tra i suoi molteplici interessi (lavoro; produzione; salute; ambiente), non precludendo alla magistratura l’esercizio del potere di applicare le sanzioni previste dalla legge a tutela del territorio e della popolazione. La legislazione in materia di tutela ambientale, le ha attribuito, del resto, una serie di competenze finalizzate non solo «alla scoperta, alla persecuzione e all’accertamento di fatti illeciti già commessi», ma anche alla «difesa dei diritti e dei beni giuridici» dalle minacce che su di loro incombono, anche se «non […] ancora tradotte in danni» (Viganò, cit., p. 2; Pulitanò, in Dir. pen. cont., n. 1/2013, pp. 44 ss.).
A fronte delle argomentazioni “curialesche” utilizzate dalla Corte per motivare il rigetto delle questioni di legittimità costituzionale sollevate dalla magistratura, si profila, pertanto, la necessità di valutare criticamente la sequenza delle vicende culminate nella sentenza della Corte, che ha misconosciuto la portata dei principi fondamentali della Costituzione. Analizzando la serie degli interventi legislativi e giurisprudenziali concernenti il caso Ilva, si può constatare, infatti, l’affermarsi di una prospettiva di intervento pubblico difforme da quella configurata dagli artt. 39-47 Cost. e, in specie, dagli artt. 41, 42 e 43 Cost.
Non si può non rilevare, del resto, come, da circa un trentennio, la concezione liberista che mira a restaurare un modello di stato subalterno agli interessi delle imprese monopolistiche private, abbia preso il sopravvento sulla concezione recepita dalla Costituzione imperniata sul controllo politico (e sociale) del sistema delle imprese (pubbliche e private). Questo processo involutivo – maturato in un contesto di rapporti dominati dalle “intese” fra i vertici dell’esecutivo, delle confederazioni industriali e delle confederazioni (cd. unitarie) dei lavoratori – risulta, oggi, potenziato dall’uso del marchingegno teorico dell’“interesse strategico nazionale”, con cui si persegue il fine di rilegittimare la “concezione liberista” e quella “corporativa” dei rapporti stato-mercato, contrassegnate ambedue dal nesso organico tra le politiche economiche dello “stato apparato” e gli interessi strategici delle imprese private.
Occorre interrogarsi, pertanto, sul ruolo che le “grandi imprese” (pubbliche e private) devono svolgere nell’ambito di una forma di stato democratico-sociale, anche per comprendere la differenza strutturale che intercorre tra le “soluzioni socialmente progressive” delle “crisi” industriali (art. 43 Cost.: “nazionalizzazioni”, “pubblicizzazioni”, “socializzazioni”) e le “soluzioni tampone”, che mirano a puntellare gli interessi contingenti degli “stabilimenti di interesse strategico nazionale” (d.l. n. 207/2012; cfr. Bin, cit., p. 5). Queste riflessioni consentiranno, inoltre, di individuare le ragioni che hanno provocato il declino delle imprese siderurgiche, specie a partire dalla fase delle c.d. privatizzazioni. Il Governo – pur consapevole del fatto che il suo intervento avrebbe provocato la reazione della magistratura – ha scelto, comunque, di adottare il d.l. n. 207/2012, perché ha considerato le “esigenze dell’attività produttiva” di “interesse strategico nazionale” e, quindi, prioritarie rispetto alle esigenze di “tutela dell’ambiente e della salute” evocate dall’art. 1 d.l. n. 207/2012. Ci troviamo, pertanto, non solo dinanzi alla questione dell’indebita sovrapposizione della normativa del governo ai provvedimenti (cautelari) della magistratura, ma anche di fronte ad una questione più ampia, ossia quella di stabilire se la categoria generica di “stabilimenti di interesse strategico nazionale” possa considerarsi un fondamento giuridicamente idoneo a legittimare una normativa in materia industriale di portata destabilizzante.
L’art. 1 d.l. n. 207/2012 adotta, infatti, dei criteri indeterminati per individuare le situazioni sussumibili nella categoria di “stabilimenti di interesse strategico nazionale”. Nel 1° co. non si specificano gli indici identificativi della categoria, ma si assegna al Presidente del Consiglio dei Ministri il compito di individuarli con apposito decreto. Non si comprende, pertanto, come, nel 1° co. dell’art. 3, si sia potuto statuire – sic et simpliciter – per diretta via legislativa, che: «l’impianto siderurgico della società ILVA S.p.A. di Taranto costituisce stabilimento di interesse strategico nazionale a norma dell’art. 1». I giudici costituzionali, in qualità non solo di “giurisperiti”, ma anche di studiosi, avrebbero dovuto fornire, pertanto, un’interpretazione costituzionalmente coerente della supposta “strategia nazionale” e indicarne, quindi, un uso coerente con il programma di trasformazione economico sociale recepito dalla Costituzione (art. 3, 2° co., Cost.). Questa chiarificazione si prospettava, infatti, necessaria, specie in considerazione del fatto che con l’uso di questa categoria si mira ad aprire una nuova fase nella storia di un’industria, inserita, dapprima, nel sistema delle partecipazioni “pubbliche” e divenuta, oggi, emblema del sistema monopolistico privato.
Le questioni teoriche di fondo non paiono, però, occupare il centro della riflessione giurisprudenziale, come dimostra il fatto che la Corte ha sottovalutato – agli inizi degli anni novanta del Novecento – la questione della coerenza tra le “privatizzazioni” e i Principî fondamentali concernenti i Rapporti economici e sociali (titolo II e III, Prima parte, Cost.) ed evita – oggi – di chiarire se gli artt. 41 e 43 Cost. possano – in virtù del mero richiamo operato nel preambolo e nel 6° co. dell’art. 3 d.l. n. 207/2012 – fornire fondamento costituzionale al tipo di previsioni contenute nel decreto governativo.

L’art. 41 Cost. prevede, infatti, che il legislatore possa apporre limiti all’ “iniziativa economica privata” per tutelare l’“utilità sociale”, la “sicurezza”, la “libertà” e la “dignità umana”, mentre l’art. 43 Cost. stabilisce che “a fini di utilità generale, la legge può riservare originariamente o trasferire […] allo Stato, ad enti pubblici o a comunità di lavoratori o di utenti determinate imprese o categorie di imprese, che si riferiscono […] a situazioni di monopolio ed abbiano carattere di preminente interesse generale”. La concezione sottesa agli artt. 41 e 43 Cost. risulta, quindi, opposta a quella che sorregge il d.l. n. 207/2012 e le finalità perseguite dalle due norme costituzionali appaiono divergenti rispetto a quelle indicate nel decreto del Governo. Il richiamo agli artt. 41 e 43 Cost. – operato dal 6° co. dell’art. 3 del d.l. n. 207/2012 – realizza, pertanto, una sorta di “combine” illogica e, quindi, inidonea a conferire fondamento costituzionale alle previsioni del decreto governativo. La Corte avrebbe potuto pronunciarsi su queste questioni fondamentali, ma ha preferito, invece, tacere.
Nel valutare la compatibilità fra gli indirizzi di politica economica prescritti dagli atti normativi del Governo e i principi di democrazia economica e sociale posti a fondamento della Costituzione, la Corte avrebbe dovuto valutare, inoltre, l’incidenza dei rapporti di forza (dominanti) sulle possibilità di realizzazione del programma di trasformazione (economico-sociale) propugnato dalla Repubblica democratica fondata sul lavoro (artt. 1 e 3, 2° co., Cost.). Le sue potenzialità risultano neutralizzate, infatti, da circa un trentennio, dal potere incontrollato dei gruppi oligopolistici privati e dall’egemonia degli indirizzi “revisionisti” che propaga – in Italia, in Europa e nel mondo – il credo liberista dell’ “economia di mercato aperta e in libera concorrenza”. Si deve rimarcare, inoltre, in via generale, come le norme costituzionali dedicate alla disciplina dei Rapporti politici, economici e sociali, prescrivano che le scelte di indirizzo economico (e industriale) debbano essere elaborate dalle istituzioni rappresentative (statali, regionali e locali), con il concorso dei cittadini-lavoratori e delle loro organizzazioni sindacali. La Costituzione attribuisce, infatti, a questi soggetti, la titolarità di poteri di controllo e di indirizzo (art. 3, 2° co., Cost.) che devono svolgersi a latere e nel rispetto della sfera di autonomia della magistratura. Da una riflessione costituzionalmente coerente, sarebbe dovuto scaturire, quindi, un pronunciamento di illegittimità nei confronti di un decreto-legge che, pur delineando indirizzi di politica industriale, mira a risolvere, in realtà, la situazione di una sola impresa (Bin, cit., p. 5) ed è stato adottato, oltretutto, in assenza di una “strategia nazionale” ispirata a “fini sociali” (art. 41, 3° co., Cost.). La Corte si è limitata, invece, a fornire argomentazioni volte a sostenere la legittimità di una legge-provvedimento – munita di disposizioni retroattive – che mira a nullificare gli effetti dei vincoli posti, dall’autorità giudiziaria, all’attività produttiva dell’impresa.
Il d.l. n. 270/2012 appare viziato, comunque, da uno “sviamento di potere” rilevante, dato che – come si è detto – il preambolo e il 6° co. dell’art. 3 d.l. n. 207/2012, richiamano gli artt. 41 e 43 Cost. per conferire valenza “strategica” all’attività monopolistica privata, che le due norme mirano a sottoporre, invece, a controlli pubblici e sociali. Le due disposizioni costituzionali reinterpretate alla luce della categoria dell’“interesse strategico nazionale – recuperata dall’armadio degli attrezzi del “capitalismo di stato” (liberista e corporativo) – sono state utilizzate, quindi, manipolatoriamente, per legittimare le previsioni di un decreto-legge teso a garantire gli interessi corporativi di un’impresa monopolistica privata.
Occorre evidenziare, comunque, come il d.l. n. 270/2012 sia stato adottato in un contesto contrassegnato dall’egemonia della concezione liberista che persegue una prospettiva opposta a quella recepita dalla Costituzione (art. 3, 2° co., Cost.). Le politiche di “sostegno” alle imprese private hanno preso ormai il sopravvento sulle politiche finalizzate alla “democratizzazione” dei rapporti politici, economici e sociali. Si può comprendere, pertanto, come il Governo sia pervenuto ad utilizzare, distortamente, le previsioni dell’art. 43 Cost., per supportare gli interessi dei “gruppi dirigenti” dell’Ilva, la cui gestione irresponsabile ha provocato danni ingenti all’ambiente, al territorio e alla salute dei cittadini-lavoratori. Un esito indubbiamente paradossale per una norma che persegue il fine di trasferire a soggetti estranei allo statuto dell’impresa privata (lo stato; gli enti pubblici; le comunità di utenti-lavoratori), la gestione delle «imprese […] che si riferiscono […] a situazioni di monopolio ed abbiano carattere di preminente interesse generale».
La vicenda dell’Ilva non rappresenta, quindi, una situazione isolata, ma un sintomo significativo del processo di alterazione delle caratteristiche dell’ordinamento costituzionale, che dev’essere contrastato rivendicando il primato dei Principi fondamentali di “democrazia economico-sociale” e specie di quelli che prescrivono ai pubblici poteri l’obbligo di limitare l’attività lucrativa delle imprese per tutelare i valori del lavoro, della salute e dell’ambiente. La teoria del “bilanciamento dei valori” elaborata dalla giurisprudenza nord-americana ed enfatizzata dalla dottrina “revisionista”, si rivela, del resto, mistificante nella fase della “competizione globale”, in cui tutti i valori della persona sono travolti dall’autonomia incontrollata delle imprese. La Corte è giunta, invece, a paventare il rischio della “supremazia del tiranno”, nel caso in cui alcuni valori e diritti si espandano illimitatamente, acquisendo una preminenza assoluta sugli altri (sent. n. 85/2013, par. 9 del cons. in dir.).
Le previsioni contenute nel secondo decreto-legge adottato dal Governo (d.l. n. 61/2013, e relativa l. di conversione n. 89/2013), rendono indispensabili alcune ulteriori considerazioni a completamento di quanto sin ora rilevato. L’art. 2, 2° co., d.l. n. 61/2013 modifica le previsioni dell’art. 3, 1° co., d.l. n. 207/2012, riconoscendo la qualifica di «stabilimento di interesse strategico nazionale» non più solo «all’impianto siderurgico della società Ilva S.p.A. di Taranto», ma a tutti gli «impianti siderurgici della società ILVA S.p.A.». Questa previsione interviene, inopinatamente, nel campo d’azione dell’art. 41 Cost., conferendo, però, carattere di “priorità nazionale” non alla “sicurezza”, alla “libertà” e alla “dignità umana”, ma alla «conservazione della continuità aziendale» di una società monopolistica privata portatrice di un generico «interesse strategico nazionale». Nell’intitolazione del decreto-legge, si richiamano le esigenze di «tutela dell’ambiente, della salute e del lavoro», ma per garantire la “gestione” di questi interessi gravitanti nel campo dell’«attività produttiva» dell’Ilva, si potenziano i poteri dell’esecutivo.

L’art. 1, 1° co., d.l. n. 61/2013, prevede, infatti, che «il Consiglio dei Ministri, su proposta del Presidente del Consiglio, può deliberare il commissariamento straordinario dell’impresa esercitata in forma di società». Il 3° co. del medesimo articolo specifica che «al commissario […] nominato con decreto del Presidente del Consiglio dei ministri», sono attribuiti «tutti i poteri e le funzioni degli organi di amministrazione dell’impresa». Al «Ministro dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare», è affidato, inoltre, il compito di provvedere all’adozione del piano «delle misure e delle attività di tutela ambientale e sanitaria» (art. 1, 5° co., d.l. n. 61/2013) e del piano «industriale di conformazione delle attività produttive» (art. 1, 6° co., d.l. n. 61/2013). Risulta evidente, pertanto, come il d.l. n. 61/2013 non sottoponga l’attività dell’impresa monopolistica privata alle forme di controllo previste dagli artt. 41 e 43 Cost., ma assegni al potere esecutivo il compito di garantire gli interessi connessi all’attività produttiva dell’Ilva, riconosciuta di «pubblica utilità».
Il d.l. n. 61/2013 non contiene, inoltre, alcuna previsione volta a garantire la partecipazione dei poteri locali e delle organizzazioni sociali e sindacali alla gestione della crisi dell’Ilva. I “piani” previsti risultano, infatti, frammentati e, comunque, separati dal circuito della sovranità popolare. La normativa adottata per disciplinare le modalità di svolgimento di un’attività produttiva considerata di “interesse strategico nazionale” risulta, quindi, “antidemocratica” e “antisociale”, perché non consente una partecipazione effettiva dei cittadini-lavoratori alla elaborazione delle decisioni che incidono sulla qualità della loro vita e del loro lavoro. Nella fase attuale di crisi politica, economica, sociale e ambientale, si dovrebbe riprendere, invece, il percorso della “programmazione democratica dell’economia” (art. 41, 3° co., Cost.), che richiede il concorso dei poteri pubblici e sociali (artt. 5, 41, 39, 43 e 49 Cost.) all’elaborazione di un piano “globale” di sviluppo della società e dell’economia. I soggetti, i poteri e le funzioni necessarie per fronteggiare il disastro sociale e ambientale provocato dai gruppi dirigenti dell’Ilva sono stati individuati, invece, in modo “tecnocratico” (commissariamenti e piani ministeriali, ossia né governativi né parlamentari), conferendo un rilievo verboso alla partecipazione dei cittadini-lavoratori. Il processo di regressione della democrazia si nutre, del resto, di ambiguità teoriche che legittimano – in nome della esigenze della “tecnica” e dello “stato di eccezione permanente” – la subalternità dello stato agli interessi corporativi delle imprese monopolistiche private.

*Dipartimento di Economia e Diritto, Università degli Studi di Roma “La Sapienza”, 4 dicembre 2013. – Seminario realizzato nell’ambito delle iniziative del Dipartimento di Economia e Diritto e organizzato da Francesca Angelini e Marco Benvenuti.