La rivalutazione del capitale della Banca d’Italia. Una complessa vicenda meritevole di chiarimenti.

Sommario: 1. Premessa. – 2. Processo evolutivo della Banca d’Italia e ‘deprivatizza­zione’ delle quote di partecipazione al capitale. – 3. Modalità tecniche della rivalutazione del capitale della Banca d’Italia previste dalla legge n. 5 del 2014. – 4. La problematica di un’eventuale viola­zione della normativa in materia di ‘aiuti di Stato’. – 5. Conclusioni.

1. Sono note le tristi vicende parlamentari verificatesi in sede di conversione del decreto legge 30 novembre 2013, n. 133, nel quale, tra l’altro, è disciplinata la ‘riva­lutazione delle quote del capitale della Banca d’Italia’. Il clima di deriva antidemocratica che ha caratterizzato gli interventi volti ad impedire la conclusione del relativo iter procedurale, denota – a tacer d’altro – una scarsa conoscenza della tematica riguardante il processo evolutivo della nostra banca centrale.
La critica del menzionato provvedimento non si è soffermata ad analiz­zare i limiti di quest’ultimo e, dunque, ad evidenziare la presenza di possibili incongruenze di vario genere, in grado di inficiare il complesso disciplinare che si stava appro­vando; non si è cercato di verificare l’ipotesi di implicazioni negative a danno del si­stema concorrenziale domestico ovvero del processo di omogeneizzazione bancaria di recente attivato in sede UE.
Si è registrata, invece, una confusa sequela di denunce, di inesatte va­lutazioni della realtà giuridica ed economica in osservazione; denunce finalizzate unicamente al so­stegno della tesi demagogica incentrata su una presunta ‘spoliazione’ dei cittadini, a fronte di un’ennesima ‘elargizione’ a favore delle banche.
Da qui l’opportunità di riprendere il discorso da me avviato su questa Rivista alla vigilia dell’approvazione della legge n. 5/2014 (cfr. Riflessioni sull’Unione Bancaria Europea in una prospettiva di riforme) per fornire al lettore ulteriori chiarimenti sull’argomento.

2. Al fine di sgombrare il campo da equivoci in ordine alla necessità di ricondurre la parteci­pazione al capitale della Banca d’Italia alla qualificazione pubblicistica dei ti­tolari delle relative quote, è bene puntualizzare il processo evolutivo che ha contraddistinto la definizione degli assetti proprietari della nostra banca centrale, quali si individuano al momento della formulazione del d.l. n. 133/ 2013.
È il caso di ricordare che la Banca d’Italia creata dalla l. 449 del 1893 aveva «un capitale nominale di 300 milioni di lire, diviso in 300.000 azioni nominative di Lire 1.000 ciascuna» (art. 1) ed una struttura patrimo­niale improntata a criteri ordinatori propri del diritto privato; quest’ultima rimarrà immutata per molti anni nonostante l’evoluzione in chiave pubblicistica della natura giuridica dell’ente, divenuto nel 1926 unico titolare della funzione di emissione (r.d.l. n. 812) e chiamato anche ad assolvere delicate mansioni di tutela del risparmio (rr.dd.ll. n. 1511 e n. 1830).
Una chiarificazione della problematica in esame venne, poi, dal disposto degli articoli 20 e seguenti del r.d.l. 12 marzo 1936, n. 375 e suc­cessive modificazioni (cd. legge bancaria del 1936), nei quali alla individuazione della natura di «Istituto di diritto pubblico» della Banca d’Italia si è affiancata la specifi­cazione della tipologia soggettiva dei partecipanti al suo capitale (art. 20), delle mo­dalità di rimborso agli azionisti e di sottoscrizione delle nuove quote (art. 21).
La titolarità delle quote di partecipazione al capitale della nostra banca centrale venne espressamente riservata a determinate categorie di enti (Casse di risparmio, istituti di credito di diritto pubblico, banche di interesse nazionale, istituti di previdenza ed istituti di assicurazione), qualificati dalla loro matrice pubblicistica o, comunque, a quest’ultima riconducibili; dovendosi, peraltro, sottolineare che il processo di ‘deprivatizza­zione’, all’epoca attuato, era fi­nalizzato essenzialmente ad evitare che la detenzione delle quote rispondesse a «fina­lità lucrative» ovvero potesse «consentire di influenzare la gestione dell’Istituzione», come è stato sottolineato in letteratura (cfr. CATAPANO, Assetti partecipativi della Banca d’Italia, in AA.VV., Scritti in memoria di Pietro De Vecchis, a cura di Capriglione e Catapano, Roma, 1999, tomo I, p. 197).
Si individuano i presupposti per superare il vincolo giuridico costituito dalla elencazione disposta nell’art. 20 l.b., cui fa riscontro l’apertura prospettica ad una estensione dell’ambito dei partecipanti al capitale della Banca d’Italia, verosimilmente realizzabile quando sarebbero divenuti maturi i tempi per una costruzione di tal genere. Ed è in occasione dell’adeguamento del nostro ordinamento bancario alle diret­tive comunitarie – ed in particolare in sede di modifiche al regime della soggettività creditizia – che si registrano le condizioni per dare concretezza a detta eventualità normativa. Ciò si verifica, per l’appunto, con la legge Amato ed il relativo decreto di attua­zione (l. n. 218/1990 e d.l.vo n. 356 s.a.), nonché col complesso dispositivo costituito dalla legge Ciampi (l. n. 461/1998 e d.l.vo n. 153/1999), provvedimenti normativi che fanno riferimento ad un criterio ordinatorio in base al quale la natura privatistica degli enti bancari non costituisce fattore ostativo al possesso delle quote di partecipazione suddette.
A ben considerare, il regolatore, nel fissare l’iter procedimentale per la privatizzazione delle ‘banche pubbliche’ (disposta, in un primo tempo, in modalità solo formale e, solo a fine secolo XX, in maniera sostanziale), non ha disciplinato in alcun modo la destinazione delle ‘quote di partecipazione’ al capitale della Banca d’Italia. Per vero, ove fosse esistita una volontà legislativa orientata a correlare il possesso di tali quote alla natura pubblica dei titolari delle medesime, sarebbe stato sufficiente – almeno nella iniziale fase ap­plicativa della legge Amato – prescriverne l’assegnazione agli enti conferenti originati dalla ‘riforma’, i quali solo a seguito del d.lgs. n. 153/ 1999 (con la nuova denomina­zione di fondazioni bancarie) hanno assunto una caratterizzazione privatistica.

Successivamente, il tentativo di ridisegnare un nuovo sistema partecipativo al capitale della Banca d’Italia caratterizzato in chiave pubblicistica si è avuto con la legge n. 262/2005, nella quale all’art. 19, comma 10, si prevede l’adozione di «un regolamento … ai sensi dell’art. 17 della legge 23 agosto 1988, n. 400» per ridefinire l’assetto proprieta­rio della Banca d’Italia e disciplinare «le modalità di trasferimento, entro tre anni dalla data di entrata in vigore della … legge, delle quote di partecipazione al capitale della Banca d’Italia in possesso di soggetti diversi dallo Stato o da altri enti pubblici».
Come è stato sottolineato in letteratura il regolatore, anziché optare per una soluzione di rottura col passato, preferì imboccare la «comoda scorciatoia del rinvio ad un emanando regolamento in materia» (cfr. URBANI, La riforma della Governance e delle competenze della Banca d’Italia, in AA.VV., La tutela del risparmio nella riforma dell’ordinamento finanziario, a cura di De Angelis e Rondinone, Torino, 2008, p. 462); venne, anzi, previsto per la definizione di tale provvedimento un arco temporale di ampiezza tale da indurre un’autorevole stu­dioso ad ipotizzare, all’epoca, che la riforma in parola era destinata, con tutta proba­bilità, a rimanere «un’incompiuta» (cfr. MINERVINI, La Banca d’Italia, oggi, in Banca, borsa e titoli di credito, 2006, I, p. 630). Ipotesi poi confermata dalla realtà fattuale, la quale ha evidenziato l’inerzia, o forse il timore, della politica nel dar seguito ad un impegno che avrebbe potuto incidere negativamente su equilibri istituzionali consoli­dati nel tempo.

3. Passando, quindi, all’esame delle modalità tec­niche che caratterizzano l’aumento del capitale della Banca d’Italia, occorre aver riguardo all’art. 4 della legge n. 5/2014 che ne ha autorizzato l’«importo di euro 7.500.000.000», cui far fronte «mediante utilizzo delle riserve statutarie», e la realizzazione previa «nuova emissione» di «quote nomi­native di partecipazione, di euro 25.000 ciascuna».
La determinazione dell’importo sopra indicato, come viene precisato in un do­cumento della stessa Banca d’Italia, tiene conto della necessità di escludere i diritti economici dei titolari delle quote «sulla parte delle riserve … riveniente dal signo­raggio, poiché quest’ultimo deriva esclusivamente dall’esercizio di una funzione pubblica (l’emissione di banconote) attribuita per legge alla banca centrale» (cfr. Un aggiornamento del valore delle quote di capitale della Banca d’Italia, visionabile su www.bancaditalia.it). Si è avuto riguardo, peraltro, all’esigenza di computare in tale importo le ‘riserve ordinarie e straordinarie’, formate ai sensi degli articoli 39 e 40 del previgente statuto della nostra banca centrale, disposizioni che prevedevano la possibilità di effet­tuare annualmente accantonamenti a tal fine, salva la distribuzione di dividendi (per un importo fino al 10 per cento del capitale) e di somme aggiuntive(non superiori al 4% dell’importo delle riserve risultanti dal bilancio dell’anno precedente).
Risulta evidente, quindi, l’adozione di criteri di misurazione del valore delle quote preordinati, per un verso, a circoscrivere le pretese dei titolari delle medesime sulle riserve statutarie, per altro a chiarire i limiti entro cui è possibile riconoscere ad essi l’assegnazione, per il futuro, di un flusso reddituale di entità correlata al valore corrente delle partecipazioni suddette.
Non rientra nelle mie competenze valutare la congruità delle stime ed i risultati dell’analisi effettuata dai tre saggi (Franco Gallo, Lucas Papademos e Andrea Sironi) che, nel riferimento ai principi generali della finanza, hanno indicato in una forbice compresa tra 5 e 7 miliardi e mezzo l’importo dell’operazione in esame, ponendo il presupposto per il calcolo del «valore attuale netto del flusso dei dividendi futuri che saranno percepiti dai partecipanti in base all’attuale disciplina» (cfr. Un aggiornamento del valore delle quote di capitale della Banca d’Italia, cit.,p. 2.).
Per converso, non avrei dubbi a ravvisare a fondamento dei richiamati criteri ricostruttivi, sottesi alla legge n. 5/2014, una logica ordinatoria preordinata a far chiarezza, ad evitare cioè equivoche interpretazioni della normativa statutaria oggi superata. Sicchè, si è ben lontani dagli intenti di natura diversa rappresentati da coloro che, nel dare una visione distorta dell’operazione in parola, la definiscono come «un regalo alle banche» (cfr. tra gli altri GHIA, Ricapitalizzazione a danno dei cittadini, visionabile su www. opinione.it/politica/2014/01/22).

4. Alla luce di quanto precede va analizzata la denuncia recentemente presentata alla Commissione UE da un’associazione di categoria (che ha valutato criticamente i contenuti della legge n. 5/2014), richiedendo a quest’ultima di attivarsi al fine di verificare un’eventuale viola­zione della normativa in materia di ‘aiuti di Stato’(cfr. l’editoriale dal titolo «Decreto Bankitalia, Ue chiede chiarimenti. ‘Aumento capitale possibile aiuto di Stato’» visionabile su www.ilfattoquotidiano.it del 28 febbraio 2014). In analoga logica si colloca, poi, l’interrogazione presentata alla Commissione europea da un europarlamentare che ha posto il medesimo problema, domandando, in particolare, se «le riserve di BI sono da considerarsi risorse pubbliche o utili liberamente distribuibili ai soci di BI o destina­bili ad aumenti di capitale di BI» (cfr. Parlamento europeo, interrogazione a firma di Niccolò Rinaldi del 20 febbraio 2014).
Tali richieste d’intervento alla Commissione non ap­paiono attendibili sul piano di una rigorosa riferibilità alla regolazione che disciplina la materia degli ‘aiuti di Stato’ nell’UE.

Com’è noto, il complesso dispositivo degli artt. 107/109 del Trattato FUE pone il divieto di concessione di «aiuti» (sotto qualsiasi forma) da parte degli Stati, sì da evitare che si determini un’alterazione della concorrenza (all’uopo prevedendo talune dero­ghe in vista del perseguimento di un obiettivo di comune interesse). Si è in presenza di un criterio ordinatorio volto ad assicurare che uno dei cardini fondanti del mercato co­mune non abbia a subire turbative a causa di influenze esterne, canone pacificamente ritenuto in dottrina applicabile anche agli enti creditizi (cfr. RUSSO C., Commissione europea, aiuti di stato alle banche e diritto societario: una difficile convivenza, in Banca Impresa Società, 2009, p. 381 ss; GIGLIO, Gli aiuti di stato alle banche nel contesto della crisi finanziaria, in Mercato concorrenza regole, 2009, p. 23 ss).
È evidente, peraltro, come – nonostante l’ampiezza della formulazione normativa consenta di ipotizzarne l’estensione in modalità da ricomprendere sovvenzioni, prestiti a tasso agevolato, garanzie contro un corrispettivo non di mercato, vendite di beni, locazione di immobili, ecc. – la nozione di aiuto sottende sempre il conferi­mento di un vantaggio pecuniario, per solito una datio, vale a dire il passaggio di da­naro o di altro bene e/o servizio dalla sfera dello Stato (ordinamento) o di altri sog­getti ad esso collegati nell’esercizio di pubblici poteri e fun­zioni.
Ciò posto – e passando a valutare la portata dispositiva della l. n. 5/2014 – va fatto presente che la modalità tecnica con cui si realizza la rivalutazione delle quote di partecipazione della Banca d’Italia è incentrata – come si è detto in precedenza – su un aumento del «capitale mediante utilizzo delle riserve statutarie». È evidente, quindi, che il nocciolo della questione risiede nella modalità con cui risulta effettuata la ri­valutazione del capitale (nella misura di cui alla richiamata norma); e, sul punto, è bene ribadire, come è stato puntua­lizzato nel precedente paragrafo, che l’importo di euro 7.500.000.000 riflette la rivaluta­zione dell’originaria quota nominale di capitale, prescindendo dal computo degli in­crementi patrimoniali derivati dalla remunerazione delle funzioni istituzionali della Banca d’Italia.
Pertanto, fermi i risultati dell’analisi quantitativa svolta dal Comitato di esperti in ordine al valore del capitale della nostra banca centrale, verosi­milmente deve ritenersi che il legislatore non abbia voluto negare ai partecipanti la possibilità di beneficiare di un corretto aumento dell’importo delle quote dai medesimi possedute; a ben considerare, una differente opzione normativa avrebbe implicita­mente perpetrato un ingiustificato depauperamento a loro danno. Se ne deduce che, nella fattispecie, non si registra un’ipotesi di violazione del divieto degli ‘aiuti di Stato’, ricorrendo quest’ultima solo nel caso in cui la rivalutazione delle quote si fosse risolta in un trasferimento di valore di entità diversa da quella originariamente espressa dal nominale dei titoli in parola.
Naturalmente, si è consapevoli di essere in presenza di analisi complesse, nelle quali può giocare a sfavore della posizione delle banche una distorta interpreta­zione della pregressa disciplina della materia (ci si riferisce, in particolare, al disposto dell’art. 39 dello Statuto della Banca d’Italia approvato nel 2006). Del pari, non va sottaciuto l’ipotizzabile intento di alcune banche straniere di evitare (comunque) che abbia a verificarsi il rafforzamento patrimoniale di taluni enti creditizi italiani, i quali saranno, in tal modo, messi in grado di affrontare senza eccessive difficoltà l’AQR e gli stress test imposti dalla BCE.
Al riguardo, sembra conforti l’accettazione della tesi dianzi rappresentata la circostanza che il provvedimento normativo in esame è stato puntualmente valutato dalla Banca Centrale Europea, competente a rilasciare un apposito parere prima della conclusione del relativo iter parlamentare.
È il caso di ricordare come, in detta sede, la BCE si sia soffermata ad analiz­zare i diversi aspetti dell’operazione in esame (valutata positivamente ai fini della in­dipendenza finanziaria della nostra banca centrale), limitandosi a «richiamare l’at­tenzione del Ministero circa il rispetto della procedura di consultazione» ed a racco­mandare un agere prudente e conforme «con i principi e gli obiettivi del SEBC all’atto di effettuazione dell’aumento di capitale». E’ questa una raccomandazione che assume spe­cifico rilievo con riguardo al menzionato obiettivo dell’indipendenza finanziaria, necessitando «che Banca d’Italia … (sia) sempre sufficientemente capitalizzata e … (si trovi)… sempre in condi­zione di creare, consolidare e ricostituire riserve appropriate e commisurate al livello di rischio emergente dalla natura delle sue attività» (cfr. il parere della BCE del 27 dicembre 2013 relativo all’aumento di capitale della Banca d’Italia).
Tale posizione è stata successivamente ribadita dalla BCE, la quale – prescindendo da talune riserve in ordine alla sua mancata consultazione «sugli emendamenti al decreto legge» n. 133/2013 (cfr. il parere della Banca Centrale Europea del 21 febbraio 2014 sulle modifiche alla governance della Banca d’Italia) – ha espresso nei suoi interventi un sostanziale nulla osta al procedimento di rivalutazione, consacrandone la conformità giuridico-formale alle prescrizioni UE.

5. Volendo trarre qualche conclu­sione in ordine alla portata disciplinare della legge n. 5 del 2014, ritengo opportuno sottolineare la validità della decisione governativa di procedere alla rivalutazione del capitale della Banca d’Italia, eliminando il suo anacronistico ancorag­gio a livelli quantitativi che rendevano irrisorio il suo importo nominale.

Sotto altro profilo, rilevano i benefici effetti della regolazione dei diritti e del ruolo dei titolari delle ‘quote’ di partecipazione: si è fatta chiarezza su una problematica risalente nel tempo, modernizzando la struttura della Banca d’Italia nel riferimento ai più avanzati sistemi finanziari del pia­neta (si pensi allo status di azionista del ‘Federal Reserve System’ che, negli Stati Uniti, connota un’alta percentuale delle banche commerciali).
La stretta connessione, disposta in sede politica, tra il provvedimento norma­tivo in parola e quello relativo alla sospensione del pagamento dell’Imu, ha influen­zato l’iter della legge di conversione del d.l. n. 133 del 2013, dando spazio a forme di generica contestazione per presunti vantaggi dalla medesima elargiti alle banche. Da qui il clima di incertezza – o, più esattamente, di carente serenità – nel quale è avvenuta l’approvazione della l. n. 5/2014, cui ha fatto seguito una diffusa distorsione nel valutare e comprendere la reale portata dispositiva di quest’ultima.
Detto clima di incertezza non appare ancora superato, come sembra evincersi da alcune segnalazioni della stampa specializzata secondo cui sussisterebbe un fondato rischio di veder vanificate le aspettative connesse all’operazione di cui trattasi, attesa l’interpretazione a quest’ultima data dall’ESMA, cui avrebbe fatto seguito un intervento della Consob volto a «non far transitare la plusvalenza che deriva dalla rivalutazione della quota nel conto economico» (cfr. l’editoriale intitolato ‘Banche, faro Esma su quote Bankitalia. Atteso intervento Consob’, in Il Sole24Ore dell’8 marzo 2014). Evidenti appaiono, infatti, le implicazioni negative derivanti da tale orientamento, dovendo le banche rivedere nell’immediato – come si sottolinea nelle richiamate indicazioni di stampa – «i criteri di contabilizzazione per i loro bilanci», donde l’ipotesi di risolvere la questione percorrendo la «strada … (di)… un nuovo intervento legislativo che consenta di recuperare … una sostanziale compensazione tra i benefici patrimoniali per le banche e l’imposizione fiscale che deriva dalla rivalutazione delle quote».
Ovviamente, adun attento esame, il complesso disciplinare in parola non ri­sulta esente da talune critiche, specie per quanto concerne il rispetto dei tempi della procedura di consultazione della BCE e alcune modifiche recate all’originario testo del d.l. n. 133 nel corso dei lavori parlamentari (i.e. la preclusione agli enti creditizi dell’Unione di acquistare ‘quote’ di partecipazione al capitale della Banca d’Italia, divieto di certo poco coerente con le finalità del processo di omogeneizzazione bancaria avviata con la realizzazione dell’UBE). Ciò non inficia, tuttavia, l’importanza degli obiettivi rag­giunti dal legislatore nel segnare una netta svolta col passato, a vantaggio della cer­tezza del diritto e di una migliore organizzazione della Banca d’Italia.