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Il divieto di mandato imperativo: tra cogenza, obsolescenza e convalescenza

di - 9 Gennaio 2014
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Le esigenze di “responsività” dell’eletto all’elettore, ossia la corrispondenza degli interessi dei secondi all’azione politica dei primi, non si accontentano di un potere di controllo limitato alle cadenze elettorali. Parlare di responsività nei confronti degli elettori, infatti, significa legittimare il governo rappresentativo sulla base della promessa che i governati non subiscano passivamente l’operato dei governanti attraverso la creazione di meccanismi che permettano la comunicazione costante della domanda politica. La funzione rappresentativa, quindi, vive “della” e “nella” tensione dialettica dell’essere rappresentante della Nazione, ma eletto in un singolo collegio[34].
“Malgrado” si tratti del rappresentante della Nazione, la consultazione elettorale “punisce”, con la mancata rielezione, i rappresentanti che non hanno riprodotto gli interessi degli elettori, e “premia” chi invece li ha ascoltati. Non sempre però ciò accade; molteplici, infatti, possono essere i fattori di distorsione, dai sistemi elettorali alle asimmetrie informative[35]. Come ciò possa avvenire è di facile constatazione: basti pensare alle soluzioni elettorali che non consentono all’elettore di esprimere un giudizio politico sull’eligendo, ad esempio costringendo la scelta all’interno di una lista bloccata e/o, addirittura, rendendo impossibile, prima del conteggio dei voti, la previsione dell’ordine delle candidature, come accade nella legge n. 270 del 2005 appena colpita dalla declaratoria di incostituzionalità proprio per questo profilo[36].
Per altro verso, a prescindere dalle formule elettorali, se è il partito a decidere le candidature e, più in generale, a permettere ai cittadini di concorrere alla determinazione della politica nazionale (art. 49 Cost.), non è del tutto peregrino affermare che nelle democrazie pluraliste il soggetto chiamato a rispondere e corrispondere agli elettori sia diventato proprio il partito.
Per dirla diversamente, poiché il voto è deciso sostanzialmente dall’appartenenza partitica, è il consenso o il dissenso nei confronti dell’ideologia di fondo di un partito, oppure il suo comportamento nella legislatura conclusasi, che in via principale determinano positivamente o meno gli elettori[37].
Ebbene, proprio alla luce di quanto appena detto, si ricava che se non viene garantita la democrazia interna ai partiti comandata dall’art. 49 Cost., allora il divieto di mandato imperativo si offre agli impieghi più vari[38]. Soprattutto quando la motivazione dell’appartenenza partitica sbiadisce di connotazione ideologica esso sarà maggiormente permeabile alle ragioni delle lobbies economiche, sociali, culturali[39].
Malgrado ciò è comunque necessario difendere l’art. 67 così come è. Il partito non può essere il rappresentante della Nazione: esso, infatti, registra i bisogni di quella parte della società che esprime per poi consegnarli al suo gruppo parlamentare e ai suoi eletti per la sintesi con gli interessi degli altri (partigiani anch’essi). L’interesse del partito è infatti sempre partigiano, mentre quello dell’Aula è l’interesse della Nazione.
Come rilanciare quindi la rappresentanza? Molti guardano alla riforma elettorale, ma forse non è una soluzione che da sola è sufficiente. Il rilancio del principio rappresentativo, infatti, deve muovere anzitutto dal rilancio dei partiti, per evitare che essi siano sostituiti da altri soggetti dalle discutibili priorità democratiche, portatori di interessi settoriali (come possono essere i gruppi di pressione o i partiti-azienda[40], o i movimenti populistici).
Una soluzione, forse, si potrebbe trovare in quel “metodo democratico” (interno) indicato dall’art. 49 Cost[41]. Orbene, se per preservare l’autonomia dell’associazione partitica si è preferito non intervenire con una legge sui partiti, forse, davanti a fenomeni sempre più dilaganti di corruzione[42], sarebbe auspicabile un intervento del legislatore ordinario, che, rispettoso dell’autonomia statutaria e organizzatoria riconosciuta ai partiti, comunque intervenisse almeno per garantire una soglia minima indispensabile di democrazia interna agli stessi e almeno l’obbligo di rendicontazione pubblica dei flussi di denaro (pubblico e privato) percepiti [43]. Tali obiettivi, peraltro, non paiono perseguibili con la semplice abolizione del finanziamento pubblico, scelta questa molto mediatica, ma poco rispettosa dei diritti di partecipazione politica dei ceti meno privilegiati[44].
Garantire la democraticità interna dei partiti significa, tra le altre cose, assicurare al parlamentare la possibilità che la minoranza (nel partito) possa in ogni momento divenire maggioranza[45], sicché essa ben può costituire l’incentivo ad un discostamento non opportunistico dalla disciplina di partito, o di gruppo (parlamentare). Solo la democraticità decisionale, infatti, permette di non avvertire la disciplina di partito o di gruppo come una tirannia dei vertici, bensì come un male necessario per la governabilità del partito e, in generale, del Paese.
Una regolamentazione “a tutto tondo” dell’associazione partitica, invece, permetterebbe di incidere significativamente sul grado di responsività dei partiti nonché sulla genuinità del pluralismo eventualmente espresso dall’eletto, e comunque, almeno nell’immediato, potrebbe riaccendere la fiammella della fiducia nella politica[46].
La realtà, per il momento, ci rappresenta il contrario.

Note

34.  Solo così la volonté générale non è volontà de tous: E. W. BÖCKENFÖRDE, Democrazia e rappresentanza, in Quad. cost., II, 1985, 227 ss.

35.  G.U. RESCIGNO, La responsabilità politica, Milano, 1967, 63; 124.

36.  Si vd. il comunicato stampa della Corte costituzionale del 4 dicembre 2013 “Incostituzionalità della Legge elettorale n. 270/2005” su: http://www.cortecostituzionale.it. La sentenza, peraltro, non travolgerebbe solo la previsione delle “liste elettorali «bloccate», nella parte in cui non consentono all’elettore di esprimere una preferenza” liste bloccate ma prima ancora il premio di maggioranza.

37.  S. PALMA, L’identificazione di un partito in Italia. Due indici a confronto, in Riv. It. Sc. Pol., 1993, III, 349 ss.

38.  Si pensi al transfug(h)ismo: la mobilità parlamentare non necessariamente è espressione di genuino pluralismo, essa infatti può degenerare in forme di mal costume politico, come l’individualismo senza legittimazione elettorale, o il trasformismo parlamentare che privilegi l’interesse personale a quello generale. D’altra parte non è possibile avere sicurezza del fatto che dietro ad ogni ripensamento rispetto alle scelte elettorali vi sia, per così dire, mala fede. In realtà: “La natura strumentale delle modalità di svolgimento del mandato comporta che non può essere predeterminata l’utilizzazione della libertà del rappresentante” (così G. Azzariti, Cittadini, partiti e gruppi parlamentari…, cit.)

39.  M. LUCIANI, Danaro, politica e diritto, in www.costituzionalismo.it.

40.  A. COLAVITTI, in N. ZANON – F. BIONDI, Percorsi e vicende attuali della rappresentanza e della responsabilità politica, Milano, 2001,122.

41.  Cfr. P. MARSOCCI, Le “primarie”: i partiti italiani alle prese con il metodo democratico, in RIVISTA AIC, 2011, 2, in www.associazionedeicostituzionalisti.it.

42.  Per approfondimenti sulla risposta dei partiti ai “cattivi costumi” degli iscritti si vd. P. MARSOCCI, L’etica politica nella disciplina interna dei partiti, in RIVISTA AIC, 2012, 2, in www.associazionedeicostituzionalisti.it.

43.  Per approfondimenti si vd. E. PIZZIMENTI – P. IGNAZI, Finanziamento pubblico e mutamenti organizzativi nei partiti italiani, in Riv. It. Sc. Pol., 2011, 2, 199 ss.

44.  In tal senso: M. LUCIANI, La Costituzione e i soldi ai partiti, in L’Unità dell’11.07.2013.

45.  H. KELSen, La democrazia, cit., 151.

46.  Il problema della responsività sembrerebbe riproporre l’antico dilemma del rendimento democratico nelle vesti della duplice questione della legittimazione delle istituzioni e dell’effettiva utilità della classe politica. Infatti, ove sia discutibile il legame con l’effettivo titolare del potere sovrano e chi è chiamato ad esercitare tale potere non lo faccia in maniera professionale, ossia in vista dell’interesse generale, il sentimento di riconoscimento dei governati nei governanti si affievolisce. In altre parole, la finzione rappresentativa viene percepita sempre meno come un espediente tecnico, sempre più come un governo lobbysticamente orientato.

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