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Il divieto di mandato imperativo: tra cogenza, obsolescenza e convalescenza

di - 9 Gennaio 2014
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La consacrazione dell’unità della Nazione è finalizzata al perseguimento della esigenza politica di unirsi per vincere le forze esterne anti-rivoluzionarie, ma soprattutto costituisce lo strumento per affermare la discontinuità con la precedente epoca delle corporazioni[11]. La Nazione dei costituenti francesi si presenta come un insieme completo ed omogeneo di cittadini uguali, in antitesi alla società dei gruppi d’ancien régime. L’unità e l’identità nazionale muovono dalla représentation in ragione del suo momento istitutivo: la consultazione elettorale. In altre parole, se la legittimazione al voto è determinata dall’essere cittadini e quindi dell’essere parte della Nazione, il soggetto rappresentato cessa di essere chi materialmente esercita il diritto elettorale, ma diviene un’entità superiore ed indivisibile: la Nazione.
Eccettuata la parentesi giacobina dove l’esigenza ineliminabile del controllo dei mandanti sull’operato dei mandatari imponeva il ricorso ad una responsabilità di carattere giuridico che contemplava l’eventuale revoca dei rappresentanti[12], dunque, nell’Europa continentale, a seguito degli eventi rivoluzionari, la rappresentanza diviene “politica”.
La nuova rappresentanza politica tuttavia, come accennato, deve al divieto di mandato imperativo non solo il carattere “nazionale”, ma anche la soluzione del problema dello stallo decisionale. A ben guardare, difatti, l’elezione di un’assemblea deputata a trattare gli affari generali di uno Stato, che postuli la distinzione tra governanti e governati, può garantire un esercizio tempestivo delle sue funzioni solo ove i primi non siano vincolati alle istruzioni puntuali dei secondi.
Il principio del libero mandato parlamentare, così come elaborato durante la Rivoluzione francese, successivamente “è passato in tutte le costituzioni liberali dell’Ottocento”[13] e, in sinergia con l’istituto delle immunità, è divenuto il meccanismo giuridico di protezione del primato degli interessi comuni su quelli particolari[14]. Il rappresentante, infatti, pur essendo eletto da molti, è chiamato a governare “tutti” e “per tutti”: l’interesse nazionale, dunque, è sintesi della volontà dell’elettore che ha perso le elezioni e di quello che le ha vinte, così interpretato da ogni singolo rappresentante – che, pertanto, non può delegare il suo voto a un collega o a un terzo all’esito del dibattito parlamentare[15].
Una volta che la prerogativa legislativa delle assemblee elettive è divenuta pacifica, il divieto di mandato si palesa, nondimeno, come precondizione della discussione in Aula. Solo a partire dall’assenza di istruzioni vincolanti per il parlamentare sussiste la possibilità logica di giungere ad una decisione compromissoria, che non deve essere intesa in senso negativo o solo parzialmente satisfattivo: nel sistema parlamentare la discussione è la via attraverso la quale si può raggiungere un grado di ragionevole approssimazione alla verità, ossia alla decisione migliore per la Nazione. In quello che è stato chiamato il modello del governement by discussion[16], in altre parole, il deputato si presenta come un individuo che, sollecitato dalla discussione, dalla circolazione di tante opinioni diverse dalla sua, matura un convincimento diverso da quello che nutriva all’inizio della seduta, al quale non sarebbe mai giunto nella solitudine dei suoi uffici.
Veniamo quindi al profilo della responsabilità.
Il deputato non risponde giuridicamente della mancata osservanza delle istruzioni, non incorrendo in tal caso né nella revoca né nella decadenza dal mandato; egli però non è altrettanto immune dalla responsabilità “politica”. Gli elettori, difatti, hanno la possibilità di confermare o meno, periodicamente, il mandato rappresentativo con l’unico, ma micidiale strumento della mancata rielezione.
Proprio rispetto a tale ultimo aspetto si apprezza la diversità tra la rappresentanza politica “liberale” e quella delle democrazie pluralistiche. Mentre la prima si configura come una mera situazione di potere[17], la seconda si struttura anche come “rapporto”, ossia non trova legittimazione nel solo fatto dell’elezione alla carica, ma anche nella relazione continua tra rappresentante e rappresentato. Questo stato di cose è però coerente con l’esercizio dei diritti politici limitato alla sola classe borghese: l’appartenenza allo stesso blocco sociale, difatti, garantisce la rispondenza degli interessi tra eletti ed elettori: non è necessaria quindi una continua comunicazione tra i due termini del rapporto rappresentativo. Le cose si complicano, dunque, con l’allargamento del suffragio quando nella sfera della rilevanza politica fanno ingresso interessi e bisogni molto diversi.

3.    L’obsolescenza e la rinascita nell’eterogenesi dei fini.
Tra le trasformazioni sociali che portarono alla crisi dello Stato liberale, un ruolo determinate è sicuramente da riconoscersi nella nascita dei partiti, i quali all’esito del consolidamento in senso democratico del governo rappresentativo divennero i principali attori del sistema politico[18].
L’affacciarsi sulla scena politica dei partiti che rappresentano le masse popolari comportò, come si diceva, la complicazione del circuito politico, anzitutto perché in Parlamento, da questo momento in poi, siederanno i rappresentanti di un tessuto sociale conflittuale e diversificato, ossia pluralistico. Il progressivo consolidamento dei partiti sul territorio rese necessaria la creazione di un apparato burocratizzato e professionalizzato, capace di aggregare e mobilitare le masse, ma soprattutto di esercitare un controllo penetrante sui propri parlamentari.Il partito divenne dunque, a tutti gli effetti, l’intermediario tra la domanda sociale e le aule parlamentari.
Queste modificazioni dell’istituto della rappresentanza politica aprirono i nuovi orizzonti del mandato di partito.

Note

11.  Il principio di unità è l’unico in grado di rovesciare quello che viene suggestivamente chiamato da Bureaux de Puzy “il colosso gotico dell’antica costituzione”; P. ROSANVALLON, Le peuple introuvable. Histoire de la représentation démocratique en France, Paris, 1998, 34.

12.  Sul giudizio sulla posizione montagnarda sul mandato rappresentativo si vd. G. Azzariti, Cittadini, partiti e gruppi parlamentari: esiste ancora il divieto di mandato imperativo?, in www.costituzionalismi.it.,il quale rileva che “solo dopo aver colto l’essenza del cambiamento di prospettiva – si possono considerare i modi di definizione del progetto giacobino, ovvero esaminare le questioni specifiche, che in questo insieme politico e teorico servono a definire l’immagine, ma non a crearla”.

13.  M. MAZZIOTTI DI CELSO, Parlamento (funzioni), in Enc. dir., XXXI, 1981, 772.

14.  Celebre opera sul tema del rapporto tra eletti ed elettori è Il discorso agli elettori di Bristol del 3 novembre 1774 di EDMUND BURKE (in Discorso agli elettori di Bristol, in Works, I, London, 1834, 180 ss.), dove viene sostenuto che seppure il rappresentante debba tenere in gran conto i desideri degli elettori, fino al punto di preferire il loro bene al proprio, allo stesso modo egli non deve sacrificare la propria imparzialità e la propria coscienza agli umori del corpo elettorale o dei sottogruppi che lo costituiscono.

15.  Difatti “il Parlamento è il luogo dove si parla, si discute, e con le ragioni si cerca di convincere i contrari, di isolare ed evocare fra le angolosità di cento opinioni diverse, quella che meglio corrisponde allo stato d’animo del tempo e del luogo”; così F. Raccioppi – I. Brunelli, Commento allo Statuto del Regno, II, Torino, 1909, 491.

16.  La dottrina ha segnalato una diversità tra la posizione dei teorici francesi e quella degli inglesi in merito alla funzione del mandato libero: mentre per i primi l’istituto in specie costituisce lo strumento per garantire “la razionalità della discussione”; per i secondi, il mandato libero è il presupposto per una discussione che tenga conto di tutti gli interessi rilevanti; P. RIDOLA, La rappresentanza parlamentare fra unità politica e pluralismo, in Studi in onore di Manlio Mazziotti di Celso, II, Padova, 1995, 453 s., spec. nota 31.

17.  D. NOCILLA-L. CIAURRO, Rappresentanza politica, in Enc. dir., XXXVIII, 1981, 560 ss.

18.  La dottrina ha individuato quattro differenti tappe nel cammino del pieno riconoscimento costituzionale dei partiti politici (la fase della Bekämpfung, caratterizzata dalla ostilità dello Stato nei confronti delle organizzazioni partitiche, quella dell’Ignorierung,ove le istituzioni erano sostanzialmente indifferenti al fenomeno, quella dell’Anerkennung und Legalisierung,  che segna il momento del riconoscimento giuridico dei partiti, e infine la fase dell’Inkorporation,ossia quella del loro vero e proprio inserimento nella struttura costituzionale); H. TRIEPEL, Die Staatsverfassung und die politischen Parteien, Berlin, 1930, 12 s., ripreso da P. RIDOLA, Partiti politici, in Enc. dir., XXXII, 67 s. Ciò però non sta a significare che prima della nascita dei partiti di massa non vi fossero “partiti”, ma essi però altro non erano che il riflesso delle semplici divisioni endoparlamentari, identificabili con i moderni gruppi parlamentari, mancava invero un associazionismo partitico non istituzionale.

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