Cosa sono le clausole di azione collettiva apposte ai titoli del debito pubblico?

1. Nell’information memorandum[1] che accompagna la emissione dei Buoni del tesoro poliennali di ogni specie e di ogni specie di Certificati di credito del Tesoro[2], a partire dal 1° gennaio 2013, si legge l’avvertenza che i titoli sono soggetti alle clausole di azione collettiva.
Per il contenuto delle clausole, il documento rinvia al decreto 7 dicembre 2012 del Ministero dell’economia e delle finanze.
Il decreto è stato adottato in attuazione dell’art. 12 comma 3, del Trattato istitutivo del Meccanismo Europeo di stabilità, firmato a Bruxelles il 2 febbraio 2012, il quale appunto sancisce l’obbligo di inserire clausole di azione collettiva in tutti i titoli di Stato di nuova emissione, con scadenza superiore ad un anno. L’obbligo incombe non già sui soli paesi in particolari situazioni di difficoltà, ma su tutti gli Stati che hanno aderito al Trattato, ovvero su tutti gli Stati dell’area euro.
Le clausole di azione collettiva, o CACs secondo l’acronimo del termine inglese collective action clauses, sono clausole in virtù delle quali gli investitori in titoli di debito pubblico fin dalla sottoscrizione accettano che le condizioni di emissione o di amministrazione dei titoli possano essere modificate. Per la modifica, è necessario il consenso dell’emittente ed il consenso della maggioranza dei possessori dei titoli in circolazione. In virtù delle clausole, l’accordo tra l’emittente e la maggioranza dei creditori è reso efficace nei confronti di tutti i creditori. In altre parole, la maggioranza è autorizzata fin dall’inizio a decidere con effetti vincolanti per la minoranza e a disporre degli interessi del gruppo.
L’obiettivo della disciplina è evidentemente quello di coordinare l’azione del gruppo dei creditori dei titoli del debito pubblico, agevolando le manovre di ristrutturazione del debito che lo Stato ritenga opportuno effettuare. L’esigenza del coordinamento e/o del consenso unanime dei creditori, si pone infatti principalmente quando si determinano condizioni che rendono desiderabili operazioni di ristrutturazione. In queste situazioni, i creditori, agendo singolarmente, potrebbero subire impulsi contraddittori ed adottare scelte dannose per il gruppo: ad esempio potrebbero precipitarsi a vendere i titoli oppure potrebbero agire in giudizio per ottenere l’adempimento, o, infine, potrebbero decidere di resistere e di negoziare liberamente un accordo di ristrutturazione. In virtù delle clausole, fin dall’inizio apposte ai titoli, i singoli creditori si sottopongono al potere decisionale del gruppo, espresso dalla maggioranza, evitando così fenomeni di free-rider ed il prodursi di quelle situazioni che la logica e la teoria dei giochi definiscono come “il dilemma del prigioniero”[3].

2. Il Decreto disciplina due modelli generali di clausole, negli Allegati A e B, conformi ai modelli standard definiti, anch’essi, in sede europea dal comitato economico e finanziario.
Le clausole di cui ai due modelli sono applicabili rispettivamente ai titoli emessi sul mercato italiano e sottoposti alla legge italiana e a tutti gli altri titoli. Le differenze tra i due modelli sono limitate e riguardano essenzialmente l’estensione delle materie riservate, ovvero i termini e le condizioni dei titoli suscettibili di essere modificati con una maggioranza particolarmente qualificata.
Le modifiche concordate possono riguardare anche condizioni essenziali del rapporto (c.d. materie riservate), quali la scadenza di ogni pagamento relativo ai titoli, la riduzione di qualsiasi ammontare, incluso qualsiasi ammontare insoluto, pagabile in relazione ai titoli, la riduzione del prezzo di rimborso, il cambio della valuta o del luogo di pagamento, la modifica degli obblighi di pagamento, la modifica di qualsiasi circostanza relativa ai pagamenti, la modifica dell’ordine di preferenza, la modifica dell’ammontare nominale dei titoli in circolazione, la modifica della stessa definizione di materia riservata. Per i titoli emessi sui mercati esteri, le modifiche possono riguardare anche la legge applicabile ai titoli e la competenza giurisdizionale.
Le modifiche devono essere approvate dall’assemblea dei detentori delle serie dei titoli in circolazione[4], interessate dalla proposta di modifica,  ovvero con la sottoscrizione di una risoluzione scritta da parte degli stessi soggetti. In entrambi i casi è richiesta una maggioranza qualificata.
Il decreto del dicembre 2012 regola le modalità di convocazione dell’assemblea, la legittimazione ad esprimere il voto e le ipotesi di conflitto di interessi che escludono la legittimazione, il quorum strutturale dell’assemblea, le  modalità di espressione del voto e le soglie di maggioranza.
I principi, cui la disciplina si ispira, sono quelli di trasparenza (disposizioni in materia di identificazione dei possessori dei titoli e di conflitto di interessi),  correttezza (agente responsabile dei calcoli), democraticità della procedura (pubblicità e maggioranze richieste sia per la validità della assemblea che per l’approvazione), al fine di assicurare un equo coordinamento delle posizioni individuali.
La disciplina è minuziosa.
Il rispetto delle forme è del resto essenziale poiché il potere di modificare i termini e le condizioni dei titoli può essere riconosciuto solo ad una maggioranza validamente individuata e validamente espressa.
Per la stessa ragione, è essenziale garantire al grado massimo l’effettività del controllo di regolarità, anche attraverso la contestazione in sede giurisdizionale dei vizi formali, da cui possa essere affetto il procedimento di formazione e di espressione della volontà della maggioranza.
Sotto questo profilo, la lettura delle disposizioni di chiusura del dm 7 dicembre 2012 solleva un interrogativo delicato. La norma che ci interessa[5] è quella contenuta al punto 1.3.1., che esclude la legittimazione dei singoli possessori dei titoli a far valere i propri diritti nei confronti dell’emittente, ammettendo solo una forma di legittimazione collettiva.

Ci si potrebbe chiedere allora se la restrizione valga per le contestazioni che concernono i vizi formali del procedimento e dunque se, anche in questo caso, l’accesso alla tutela giurisdizionale si debba ritenere precluso ai singoli.
La risposta negativa, al quesito sopra sollevato, mi sembra preferibile.
La disposizione, che detta le condizioni ed i limiti della legittimazione processuale, deve essere interpretata nel contesto della disciplina nella quale si colloca. La finalità dell’apposizione delle clausole di azione collettiva è quella di favorire il coordinamento della azione dei creditori, evitando fenomeni di strenua resistenza da parte dei singoli, rispetto a proposte di modifica delle condizioni e dei termini dei titoli. Finalità rispetto alla quale è del tutto estranea quella di tollerare eventuali abusi a danno della minoranza, che potrebbero essere agevolati ove non fosse consentito ai singoli di contestare in sede giurisdizionale la regolarità del procedimento seguito.

3. Nell’eurozona, l’attenzione per le clausole di azione collettiva è recente. Un primo riferimento alle clausole è contenuto nella Dichiarazione dell’Eurogruppo del 28 novembre 2010[6]. Se ne è poi parlato, più concretamente, con riferimento alla crisi del debito greco[7]. Infine, l’obbligo di introdurre le clausole di azione collettiva è stato sancito con il Trattato istitutivo del Meccanismo Europeo di stabilità, firmato a Bruxelles il 2 febbraio 2012, come già detto.
Se però valutiamo il fenomeno in un contesto più ampio, dobbiamo constatare che  le clausole di azione collettiva non rappresentano una novità, in termini assoluti, e nemmeno una anomalia, propria dei paesi dell’area euro.
Al di fuori dell’eurozona, clausole di questo tipo sono conosciute ed utilizzate da molto tempo.
Fin dalla fine del 1800, i titoli emessi secondo la legge inglese contengono le c.d. majority action clauses. Si tratta di clausole che presentano caratteristiche in tutto analoghe a quelle ora rese obbligatorie nei paesi dell’eurozona. Come queste, consentono alla maggioranza del gruppo degli investitori in titoli del debito pubblico di decidere con effetti vincolanti per la minoranza la modifica di ogni condizione del titolo, ivi incluso il termine di pagamento .
Le majority action clauses non rappresentano peraltro l’unico tipo di collective action clauses[8] conosciute nel diritto inglese. Accanto a queste, l’esperienza anglosassone ha elaborato le collective representation clauses, che servono a coordinare una rappresentanza dei creditori come gruppo; le sharing clauses, le quali prevedono che ogni ricavo ottenuto dai debitori debba essere diviso tra i creditori pro-rata, e le acceleration clauses, per le quali il 25% dei possessori dei bond, dietro comunicazione scritta all’emittente, può dichiarare che i titoli sono immediatamente esigibili e pagabili.
Fino alla fine degli anni ’90, la possibilità di includere nei titoli pubblici clausole del tipo delle majority action clauses ha rappresentato una peculiarità dei titoli soggetti alla legge inglese.
Per i titoli del debito pubblico soggetti alla legge statunitense, l’utilizzo di queste clausole risale a circa un decennio orsono.
La ragione del mancato inserimento delle clausole, fino a quella data, è da rinvenire nella disposizione contenuta nel § 316 della legge federale del 1939, che disciplina l’offerta al pubblico di strumenti finanziari. Il § 316 del Trust Indenture Act del 1939 espressamente esclude che le condizioni dei titoli di stato possano essere modificate senza il consenso di ciascun possessore di titoli (100%). La stessa norma prevede poi che solo un rinvio per un massimo di tre anni può essere stabilito con l’approvazione  del 75% dei possessori dei titoli. Inoltre, sebbene il Trust Indenture Act non si applicasse necessariamente ai titoli di Stato emessi negli Stati Uniti da altri paesi, le clausole, che prevedono modifiche, incluse nei titoli di stato emessi negli Stati Uniti hanno poi di fatto sempre seguito tale modello.
L’inversione di tendenza ha iniziato a manifestarsi negli US, solo nel giugno 1997. In quella data, il Kazakistan emise sul mercato statunitense una serie di titoli, soggetti alla legge di New York, che permettevano al 75% dei possessori dei titoli di modificare i termini delle obbligazioni.
Nel 2003 l’esempio del Kazakistan fu seguito da un altro paese in via di sviluppo, il Messico e poi dall’Uruguay, dal Brasile e da altri paesi ancora. Mentre il caso del Kazakistan era passato quasi inosservato, questa volta l’intero mondo della finanza internazionale commentò la tendenza dei governi dei paesi emergenti ad emettere titoli muniti di tali clausole sui mercati stranieri e quindi in divisa estera. I commenti a volte furono entusiastici, altre estremamente critici[9].
Quel che è certo è che l’utilizzo delle clausole di azione collettiva nei titoli emessi da paesi di economie emergenti sul mercato statunitense e soggetti alla legge statunitense è oggi massiccio.

4. La circostanza per la quale le clausole di azione collettiva sono ampiamente utilizzate nei titoli del debito pubblico dei paesi di economie emergenti solleva un interrogativo e qualche timore.
Che cosa accomuna i paesi emergenti ai paesi dell’area euro? L’economia dei primi è spesso connotata da una certa instabilità e da una certa fragilità. Dobbiamo allora concludere che l’apposizione delle clausole nei titoli dei paesi dell’area euro segni il suggello di un contagio? E soprattutto, l’utilizzo delle clausole aumenta il margine di rischio dei titoli del debito pubblico?

E’ questo il dubbio espresso dalla stampa nazionale, che ha commentato in toni spesso allarmati e allarmanti la nuova disciplina. Ed è questo l’assunto che è opportuno smentire per primo.
I titoli del debito pubblico sono strumenti sicuri dal punto di vista giuridico. Nel diritto italiano, il D.P.R. 30 dicembre 2003, n. 398, che reca il Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di debito pubblico, accorda le massime garanzie. L’art. 3 prescrive che la prima assegnazione da farsi nel bilancio di ciascun anno sia “per i pagamenti di debito pubblico per interessi, eventuali premi e rimborsi”; ed inoltre che i pagamenti di debito pubblico non sono “ridotti, ritardati o assoggettati ad alcuna imposta speciale neppure in caso di pubblica necessità”[10].
Dal punto di vista economico, però, è inevitabile che il titolo, e la soddisfazione dell’obbligazione in esso incorporata, restino legati all’andamento dell’economia dello Stato.
Questa osservazione vale per le obbligazione pubbliche, incorporate nei titoli del debito pubblico, così come è pacifica con riferimento alle obbligazioni delle società per azioni. Nelle società per azioni, la distinzione tra le azioni (titoli partecipativi) e obbligazioni (titoli di debito) è netta sul piano giuridico: le azioni danno diritto ad un reddito solo in presenza di utili, di cui viene decisa la distribuzione, mentre le obbligazioni danno diritto al rimborso del capitale e al pagamento del reddito anche in mancanza di utili. Sul piano economico, invece, la sussistenza di perdite può vanificare non solo il valore delle azioni, ma anche la realizzazione dei diritti di credito. Sia nelle azioni (titoli di partecipazione), che nelle obbligazioni (titoli debito) vi è una partecipazione al rischio di impresa[11].
Il rischio, legato all’andamento economico dell’emittente, è dunque insito nelle obbligazioni e su di esso non incide affatto l’apposizione delle clausole, il cui scopo è invece – come già detto – quello di facilitare le operazioni di ristrutturazione del credito.
Una volta escluso che rischiosità dei titoli e/o fragilità dell’economia siano legati da un rapporto di causa/effetto con l’apposizione delle clausole di azione collettiva, resta aperto l’altro interrogativo. La previsione di meccanismi che agevolano la revisione delle condizioni del debito, nei titoli dei paesi di aree così lontane, è del tutto casuale, oppure c’è qualcosa che accomuna le due esperienze e che giustifica la previsione di tali meccanismi, in entrambi i casi?
Un dato comune tra i paesi emergenti che emettono i loro titoli sui mercati di New York o di Londra, in dollari o in sterline, ed i paesi dell’area euro può essere rinvenuto nel fatto che, in entrambi i casi, il debito è emesso in una moneta sulla quale l’emittente non ha il controllo.
La rinuncia alla sovranità monetaria, con l’adesione alla moneta unica, ha comportato, per gli Stati dell’euro zona, la perdita della possibilità di emettere debito in una moneta sulla quale essi hanno il pieno governo. La situazione è per questo verso simile a quella dei paesi che emettono titoli di debito sul mercato di New York in dollari.
Nei paesi che emettono debito nella propria moneta, le banche centrali possono sempre provvedere alla liquidità necessaria e possono agire sulla moneta, in momenti di difficoltà.
Questa leva non è utilizzabile dai paesi che emettono debito in una moneta sulla quale non hanno il pieno controllo.
Si potrebbe allora ipotizzare che sia questa la ragione per la quale si è ritenuto opportuno in sede europea approntare altri strumenti, attraverso i quali l’emittente possa reagire prontamente a situazioni di debito difficilmente sostenibile.
Le clausole di azione collettiva possono rappresentare uno strumento utile ad assicurare all’emittente un certo margine di elasticità nella gestione del debito.
Occorre poi sfatare l’idea che misure di ristrutturazione del debito siano l’anticamera del default di uno Stato. In realtà a misure di ristrutturazione consensuale lo Stato può far ricorso anche quando le aspettative favorevoli del mercato rendono non più giustificati i tassi di interesse, ai quali i titoli sono stati emessi. Nella storia italiana troviamo un precedente significativo. Dobbiamo andare indietro al 1906, quando con legge il governo fu autorizzato “ad estinguere al 1° luglio 1906 i consolidati al 5% lordo e al 4% netto, offrendo ai possessori dei titoli il rimborso alla pari oppure il cambio con titoli di nuova emissione con un interesse al 3,75%, fino al dicembre 1911 e poi al 3,50%. Le operazioni di conversione ebbero luogo tra il 2 ed il 7 luglio 1906 e vennero sostenute da due consorzi bancari, uno straniero, guidato dai Rothschild di Parigi, con la partecipazione di gruppi bancari tedeschi ed inglesi, che mise a disposizione 400 milioni ed uno italiano, guidato dalla Banca d’Italia, cui si associarono altri gruppi stranieri minori, che tenne pronti 700 milioni. Questo grande dispiegamento di mezzi non fu però utilizzato, perché meno di 5 milioni di capitale dovettero essere rimborsati e 48 milioni utilizzati per il sostegno dei corsi. A conclusione dell’operazione, il Tesoro aveva speso poco più di 9,5 milioni di lire, ottenendo un risparmio di cica 20,2 milioni fino al 1911, raddoppiati dopo tale data”[12].

Note

1.  E’ noto che per la Direttiva 2003/71/CE del 4 novembre 2003, c.d. “direttiva prospectus”, gli strumenti finanziari emessi dagli Stati membri, o dai suoi enti regionali o locali, non rientrano nell’ambito di applicabilità della direttiva stessa e dunque non sono soggetti all’obbligo del prospetto informativo. Analogo esonero è disposto dall’art. 21, comma 1, del d.lgs. 24 febbraio 1998, n. 58, che reca il Testo Unico della Finanza. Tuttavia l’emissione dei titoli è corredata da un documento che ne descrive le caratteristiche essenziali.

2.  Il Ministero dell’Economia e delle Finanze emette regolarmente sul mercato italiano cinque diversi tipi di titoli di Stato. I Buoni Ordinari del Tesoro, titoli con scadenza non superiore ad un anno, privi di cedole ed il cui rendimento è dato dallo scarto di emissione; i Certificati del Tesoro zero coupon, con scadenza a 24 mesi, privi di cedole ed il cui rendimento è dato dallo scarto di emissione; i Buoni Poliennali del Tesoro, con durata da tre fino a trenta anni e con rendimento fisso semestrale; i Buoni del Tesoro Poliennali indicizzati all’inflazione europea, con scadenza a cinque o dieci anni, nei quali sia il capitale rimborsato a scadenza, che le cedole semestrali sono rivalutati in base all’andamento dell’inflazione europea, misurato dall’Indice Armonizzato dei Prezzi al Consumo dell’area euro ( IAPC); i Certificati di Credito del Tesoro, con scadenza a sette anni e rendimento variabile semestrale legato all’andamento dei BOT a sei mesi più una maggiorazione; i Certificati di Credito del Tesoro indicizzati all’Euribor, titoli a tasso variabile che, in virtù del loro parametro di indicizzazione, offrono maggiori garanzie per gli investitori istituzionali e retail.

3.  L’esempio del “dilemma del prigioniero”, elaborato negli anni ’50 del ‘900 dall’economista Albert Tucker e dal filosofo Thomas Schelling, descrive le situazioni nelle quali il risultato (in termini di costi e benefici) per il decisore dipende non solo dalla sua scelta, ma anche da ciò che scelgono gli altri.

4.  E’ considerato non in circolazione il titolo che sia stato in precedenza cancellato, che sia stato oggetto di rimborso anticipato, che sia detenuto dall’Emittente o da un dipartimento, ministero, agenzia di questo privi di autonomia decisionale rispetto all’emittente. Il decreto dedica una disciplina piuttosto dettagliata alla nozione di autonomia decisionale del possessore del titolo rispetto all’emittente. L’autonomia decisionale è considerata assente quando, per la relazione di controllo, l’emittente può dare direttive alla dirigenza, può nominare la maggioranza dei membri del consiglio di amministrazione o comunque dei vertici dell’ente.  Tuttavia, pure in presenza di questi indici, l’autonomia decisionale sussiste se l’entità, controllata dall’emittente, ha facoltà di non accettare le istruzioni dell’emittente circa il voto da dare su di una proposta di modifica, ovvero se l’entità controllata è tenuta ad esprimere il suo voto secondo uno standard oggettivo di prudenza e nell’interesse dei partecipanti al suo capitale.

5.  Cfr. 1.3.1 delle previsioni aggiuntive per il quale “nessun possessore dei titoli sarà legittimato ad instaurare una procedura nei confronti dell’emittente o a far valere i diritti dei possessori dei titoli secondo i termini e le condizioni dei titoli a meno che un trustee/fiscal agent, che sia tenuto a procedere in accordo con questi termini e condizioni, non lo abbia fatto entro un ragionevole periodo di tempo e tale situazione stia perdurando”.

6.  La dichiarazione, che traccia le caratteristiche generali del futuro meccanismo europeo di stabilità, precisa “nell’eventualità inattesa che un paese risulti insolvente, lo Stato membro deve negoziare un piano globale di ristrutturazione con i propri creditori privati, in linea con le prassi del FMI al fine di ripristinare la sostenibilità del debito. Per agevolare questo processo, clausole di azione collettiva standardizzate ed identiche, in modo da tutelare la liquidità dei mercati, saranno inserite tra le modalità e le condizioni di emissione di tutte le nuove obbligazioni di Stato della zona euro a partire da giugno 2013 (termine poi anticipato a gennaio). (…) Ciò consentirà ai creditori di prendere una decisione a maggioranza qualificata su una modifica giuridicamente vincolante dei termini di pagamento (sospensione, proroga della maturità, riduzione del tasso di interesse e/o haircut) nell’eventualità di inadempimento del debitore”.

7.  Peraltro, nel caso Grecia, non essendo fin dall’inizio previsto espressamente l’effetto vincolante per la minoranza delle modifiche accettate dalla maggioranza, la tecnica di ristrutturazione del debito che si è utilizzata è stata diversa. Agli obbligazionisti è stata proposta una offerta di scambio, la quale comporta la accettazione di modifiche peggiorative delle condizioni dei titoli già emessi ed in loro possesso. Nel momento in cui si è raggiunta la maggioranza necessaria per modificare i titoli, questi hanno perso di valore e tutti i possessori sono stati “invogliati” ad accettare lo scambio (c.d. exit consent).

8.  Cfr. L. DIXON e D. WALL, Collective Action Problems and Collective Action Clauses, in Financial Stability Review , 2000 e R. OLIVARES-CAMINAL, Is there a need for an international insolvency regime in the context of sovereign debt? A case for the use of corporate restructuring techniques, in Journal of international Banking Law and Regulation, 2009.

9.  Cfr. A. GELPERN e M.GULATI, Public symbol in Private Contract: a case study, in Washington University Law Review, 2006, cit., 1629.

10.  La disposizione riprende il contenuto dell’art. 4 della l. 10 luglio 1861 che istituisce il Gran libro del debito pubblico e fissa le modalità per amministrare i titoli di debito del neocostituto Regno d’Italia.

11.  Cfr. N. SALANITRO, Strumenti di investimento finanziario e sistemi di tutela dei risparmiatori, in Banca, borsa e titoli di credito, 2004, 283-284.

12.  Così la Relazione del direttore generale alla Commissione parlamentare di vigilanza su “Il debito pubblico in Italia, 1861-1987”, Roma, 1988, 30-31.