Università, scienza, burocrazia

Abbiamo ricevuto dal Prof. Di Gaspare un articolo di severa critica delle attuali politiche universitarie, in ordine sia alla predisposizione dei percorsi formativi e didattici, sia ai meccanismi di selezione dei docenti universitari. L’articolo è firmato, oltre che dal Prof. Di Gaspare, da altri 13 docenti universitari. I loro nomi sono riportati in calce.
Nonostante il tema sia stato molto dibattuto ed oggetto di grandi polemiche, pubblichiamo questo articolo per la sua grande chiarezza, nell’intento di riaprire la discussione su questo argomento, indiscutibilmente cruciale.

Si sta dibattendo il problema della burocratizzazione dell’Università e dei suoi effetti ([1]). È opportuno ricostruirne la genesi.
Tutto è cominciato con “i crediti”, introdotti per il mutuo riconoscimento dei titoli di studio abilitanti all’esercizio delle professioni nella Ue negli anni 70.
La burocrazia universitaria, non solo italiana, ne ha intravisto la potenzialità di omologazione e di standardizzazione. Dopo essere stati sperimentati nella scuola dell’obbligo, i programmi di insegnamento sono stati tarati a loro volta in base ad una unità di tempo/contenuto, definita “credito for-mativo”. I crediti formativi sono divenuti i mattoncini della costruzione burocratica dell’insegnamento universitario: il sapere era divenuto misurabile. Anche i percorsi formativi e didattici si sono cominciati a “ponderare” sulla base dei programmi dei corsi di laurea di altri paesi della Comunità, presi quali bench marking. Ha preso forma, quasi inavvertitamente, una specie di pensiero unico metodologico-quantitativo nella definizione dei percorsi formativi e nell’incasellamento delle materie. Un metodo per noi, almeno per molti di noi, sempre più estraniante dal contenuto delle nostre ricerche e dall’insegnamento.
Grazie ai crediti si è cominciato a pensare le materie secondo modelli di apprendimento da definire rispetto agli “obbiettivi formativi”. L’insegnamento di ogni materia sulla base di programmi omologati si intende destinato perciò a standardizzarsi per assicurarne l’offerta omogenea. L’offerta didattica, come qualsiasi buon prodotto da supermercato, deve corrispondere ad un etichetta che ne specifichi i contenuti. Gli insegnamenti, poi, definiti essenziali, caratterizzanti, affini e … quanto altro nei vari corsi di laurea, sono stati catalogati in base al numero delle pagine dei libri di testo da studiare, conformando così le inevitabili differenze nella difficoltà di apprendimento e conseguentemente standardizzando i tempi dedicati alla didattica e allo studio individuale. Tutto il sapere deve essere quantificabile, computabile, misurabile e valutabile su quella base, per essere riconosciuto come tale.
Rapidamente le singole materie, impacchettate nei carichi didattici, sono state veicolate nelle varie caselle di corsi di laurea ed indirizzi, moltiplicatisi per interna gemmazione e diversificazione. Una neo lingua ha fatto la sua apparizione tra noi. Visti dal di fuori: percorsi labirintici, meandri insensati negli arditi accoppiamenti e nelle marginali differenziazioni tra materie, ma rigidi nelle opzioni e nella loro sfuggente giustapposizione e nei rapporti di potere codificati tra i vari raggruppamenti e materie. Non solo i professori universitari e gli allora esistenti consigli di facoltà, ma gli stessi studenti universitari, di fatto sono stati privati della libertà di scegliere. Gli studenti, liberi cittadini, sono stati così impediti a costruirsi un percorso di studi autonomo tra materie di loro interesse guardando ad un futuro, il loro, che sicuramente intravedono meglio di quello che la burocrazia ministeriale ha codificato, per tutti noi, nei percorsi formativi, con la validazione del CUN. Va detto che ci siamo prestati e ci stiamo ancora prestando con queste istituzioni, ritenute rappresentative, a svolgere una autolesionista opera di validazione dei nuovi costrutti del potere burocratico
Insomma l’omologazione e la standardizzazione delle materie e dei curricula hanno indotto lo sviluppo di un sistema di controlli, anch’essi su base quantitativa, che ha l’epicentro nel sistema di valutazione ed ha contrassegnato la progredente burocratizzazione dell’università italiana, a partire dalla riforma del ministro Berlinguer, senza soluzione di continuità, fino alle più recenti vicende ricordate da Salmieri.
Non che la quantità non abbia una sua intrinseca qualità, come affermava Stalin a proposito dell’Armata rossa. Come dargli torto! Ma lo stesso Stalin si sarebbe molto stupito se avesse sentito dire l’opposto, cioè che la qualità ha una sua intrinseca quantità.
È questa pietra filosofale che trasforma la qualità in quantità l’oggetto dei desideri della burocrazia ministeriale e che incontra adepti ormai, per una specie di rassegnata assuefazione, anche tra noi.
Che dire? I punti di approdo della valutazione dei titoli e dei criteri quantitativi per valutare la ricerca sono sotto gli occhi di tutti.
Basta ricordare la relazione di Sabino Cassese ([2]), per il quale l’ANVUR con le sue “tecniche ingegneristiche … burocratizzando misurazione e valutazione si sta trasformando in una sorta di Minosse all’entrata dell’inferno” (sempre Cassese).
Dobbiamo stare attenti, allora, a tenerci alla larga dall’incombente insensata inquisizione. Se non vogliamo essere di fatto esautorati dalla valutazione del merito, come corpo accademico non dobbiamo più dare involontariamente ulteriore fondamento a questo processo di standardizzazione della misurazione e della valutazione basato su criteri estrinseci al contenuto del lavoro scientifico oggetto di valutazione: ad esempio, anche compilando innocui questionari anagrafici.
L’essenza della valutazione quantitativa è la computazione di presunti parametri qualitativi estraibili in modo automatico dal testo scientifico a prescindere dalla valutazione specifica del suo contenuto. È un metodo che consente a qualsiasi incompetente burocrate di dare un giudizio, quantomeno in termini di controllo dell’effettivo impegno quantitativo di ricerca che prescinde dai contenuti, dai risultati e dalle obbiettive difficoltà del tema affrontato.

La trasformazione della valutazione qualitativa in standard e parametri di valutazione quantitativa è necessaria solo all’esercizio di potere burocratico. Tutte quello che si riesce a misurare – e a trasformare in “dati” – dalle informazioni ai numeri alle valutazioni soggettive dei questionari viene ricercato, codificato ed elaborato a tal fine: numero di citazioni, diffusione quantitativa, referaggio inteso come procedura espletata… a doppio cieco …
In questo modo tutto il misurabile diviene controllabile, a prescindere dalle finalità stesse del controllo. Una specie di delirio kafkiano ci aspetta se ci spingiamo ancora in questa direzione. Al culmine di questi procedimenti “amministrativizzati”, (Cassese) il decisore ultimo sarà, sempre di più, il giudice della burocrazia: il giudice amministrativo.
Il monitoraggio quantitativo ci accompagna ormai in contemporanea, il VQR, ed il CINECA, sembra il suo collettore cieco di dati che funziona come il panottico di Bentham che vede tutto ma non mette in realtà a fuoco nulla, accumula informazioni ingenerando però soggezione.
Siamo continuamente interpellati ad aggiornare le banche dati dei nostri “prodotti” scientifici ad indicare i “5 più significativi” per i dottorati, a tenerci dentro medie e mediane, a tenere sotto occhio la produttività del raggruppamento, a non scivolare sotto soglia e così via.
Perché impegnarsi in percorsi ardui di ricerca e ad esito incerto con il rischio di perdere tempo e scendere di produttività?
Meglio rimanere nel main stream dei dibattiti in corso in modo da fare da sponda ad altri e offrire occasioni di citazioni e rimandi.
La produzione scientifica cresce apparentemente in modo esponenziale ma al contempo viene meno l’esigenza di leggere con effettivo atteggiamento critico. Non ce n’è in realtà più motivo. Si rischia solo di farsi inutilmente dei nemici.
La competizione interna, qualitativa e di merito, alla comunità scientifica sembra destinata a scomparire nella parametrazione quantitativa dei meccanismi di abilitazioni.
Se non c’è più competizione non c’è necessità di comparazione nell’ordine di merito.
Basta situarsi al di sopra di certe soglie quantitative e se i criteri estrinseci di valutazione del prodotto sono congrui: dal numero dei capitoli, alla classificazioni “bibliometriche” delle collane e delle riviste ove gli scritti sono pubblicati, alle citazioni del lavoro o alla loro diffusione nelle biblioteche. Tutto il giudizio si risolve, o può risolversi su dati estrinseci. Il fatto che le commissioni di abilitazione di questa tornata concorsuale siano state vincolate a tempi così brevi e rigidi per la formulazione dei giudizi ne è la riprova. Solo una breve proroga con decreto “direttoriale” (‘dittatoriale’). Bisogna spicciarsi. Fretta burocratica. Le commissioni non sono necessariamente tenute a svolgere una valutazione approfondita anche sui contenuti scientifici. Non c’è ne è ragione. Potrebbe essere sufficiente attenersi ai riscontri parametrici.
La resistenza con cui le attuali commissioni di concorso insistono giustamente nel volere effettuare una valutazione di merito potrebbe ben presto divenire anacronistica ed in contrasto con il funzionamento del sistema della codificata valutazione burocratica.
Nelle nostre facoltà umanistiche, allorquando i concorsi erano non solo nazionali, ma anche con un numero chiuso di posti, era la competizione entro un tetto predeterminato che induceva alla valutazione critica diffusa che circolava e diveniva patrimonio della comunità scientifica. In prima fila gli stessi candidati, che si davano da fare, a segnalare limiti e errori altrui, ingenerandosi, in fine dei conti, un contradditorio palese e una competizione virtuosa che non lasciava angolini in ombra e dalla quale in definitiva in genere uscivano rafforzati i migliori. La valutazione sistematica da parte della comunità scientifica aveva poi un periodo di latenza fino ai nuovi concorsi, ma in realtà era presente e funzionava nei passaggi decisivi. Quel sistema aveva altri difetti, soprattutto i tempi, che sarebbero comunque emendabili senza ricorrere alla burocratizzazione.
Non bisogna farsi espropriare da questa funzione di valutazione nel merito, non per spirito corporativo, ma nell’interesse del paese.
Che dire delle ultime richieste del “questionario” del CUN, che sta funzionando in questo caso come una stanza di trasmissione delle istanze burocratiche alla comunità scientifica. Stiamo attenti a non fornire alla burocrazia nuovi elementi per l’ANAGRAFE da trasformare poi in dati e nuovi “lacci e laccioli” escludenti l’accesso alla valutazione o per una sua conformazione estrinseca che finiscono per penalizzare l’autonomia della ricerca e le sue modalità di esternazione, il nostro impegno di studiosi e soprattutto i giovani ricercatori e il futuro della ricerca scientifica nel nostro paese.
C’è infine un altro aspetto della burocratizzazione che rimane normalmente in un cono d’ombra.
L’Università ha fatto le spese, come tutto il sistema educativo, negli ultimi venti anni dei tagli di spesa che però non è andata in risparmi per investimenti ma a vantaggio della crescita della spesa burocratica corrente.
Negli anni 90 è stata abolita l’equiparazione tra il trattamento economico dei professori universitari e quello della dirigenza pubblica. È stato accettato senza storie. Molti di noi, con sbocchi professionali, avevano la possibilità di altri introiti. Ad ogni modo nessuno ha fatto questione di soldi. Il risultato? La dirigenza pubblica, liberatasi dal fardello degli universitari, ha visto aumentare posti dirigenziali e lievitare trattamenti economici (con costi complessivi – se includiamo anche la cosiddetta dirigenza a contratto – forse addirittura decuplicati in termini di spesa pubblica anche per la possibilità allora introdotta di nominare dirigenti in eccedenza ai posti di ruolo: il c.d. spoil system all’italiana ).

I professori universitari intanto hanno visto dimezzato il potere di acquisto dei loro stipendi nell’arco di un decennio. Ma non è questo il punto.
Senza un’organizzazione, non dico sindacale ma autenticamente rappresentativa, sono rimasti muti anche sulle vicende dall’autonomia universitaria. Ed è questo l’aspetto grave.
La cosiddetta autonomia universitaria, quella della riforma degli anni 80, con la consegna delle Università, soprattutto quelle di nuova istituzione, ai politici e ai sindacalisti locali, ha dato la stura alle assunzioni di personale amministrativo.
Il costo di un posto di ricercatore è, più o meno, lo stesso di quello di un qualsiasi impiego amministrativo ma politicamente rende molto meno. Messo a concorso può essere vinto da chiunque, non garantisce perciò un ritorno locale come una assunzione burocratica che ormai si fa per chiamata diretta, salva successiva leggina di sanatoria.
Qualcuno è in grado di quantificare questo andamento della spesa e calcolare la sottrazione di risorse alla didattica e alla ricerca a favore di attività autoreferenziali di back office? Sarebbe il caso di iniziare a farlo. Nessuno ovviamente ne parla o fornisce cifre al riguardo.
Qualcosa si può fare anche subito.
Nei provvedimenti di blocco della spesa per le Università andrebbe fatto un chiaro distinguo tra impieghi amministrativi e universitari, limitando il blocco ai primi senza penalizzare la ricerca. Il nuovo Ministro può dare un segnale di discontinuità?

Laura Ammannati – Università degli Studi di Milano
Simona Andrini – Università degli Studi Roma Tre
Antonella Antonucci- Università degli Studi di Bari Aldo Moro
Andrea Bixio – Università degli Studi di Roma La Sapienza
Giovanna Colombini – Università di Pisa
Giuseppe Di Gaspare – LUISS Guido Carli
Raffaele Lener – Università degli Studi di Roma Tor Vergata
Giuliano Lemme – Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia
Umberto Morera – Università degli Studi di Roma Tor Vergata
Cesare Pinelli – Università degli Studi di Roma La Sapienza
Giorgio Pelagatti – Università degli Studi di Foggia
Francesco Riccobono – Università degli Studi di Napoli Federico II
Guido Sirianni – Università degli Studi di Perugia
Antonio Zorzi Giustiniani – Università di Pisa

Note

1.  V. La Lettera aperta al ministro Carrozza “Moriremo di burocrazia?”, in “il Sussidiario.it”, del prof. G. Salmieri.

2.  “L’Anvur ha ucciso la valutazione. Viva la valutazione”, Relazione all’incontro promosso da ROARS su Il sistema dell’Università e della Ricerca. Fatti, leggende, futuro.