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Università, scienza, burocrazia

di - 24 Settembre 2013
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La trasformazione della valutazione qualitativa in standard e parametri di valutazione quantitativa è necessaria solo all’esercizio di potere burocratico. Tutte quello che si riesce a misurare – e a trasformare in “dati” – dalle informazioni ai numeri alle valutazioni soggettive dei questionari viene ricercato, codificato ed elaborato a tal fine: numero di citazioni, diffusione quantitativa, referaggio inteso come procedura espletata… a doppio cieco …
In questo modo tutto il misurabile diviene controllabile, a prescindere dalle finalità stesse del controllo. Una specie di delirio kafkiano ci aspetta se ci spingiamo ancora in questa direzione. Al culmine di questi procedimenti “amministrativizzati”, (Cassese) il decisore ultimo sarà, sempre di più, il giudice della burocrazia: il giudice amministrativo.
Il monitoraggio quantitativo ci accompagna ormai in contemporanea, il VQR, ed il CINECA, sembra il suo collettore cieco di dati che funziona come il panottico di Bentham che vede tutto ma non mette in realtà a fuoco nulla, accumula informazioni ingenerando però soggezione.
Siamo continuamente interpellati ad aggiornare le banche dati dei nostri “prodotti” scientifici ad indicare i “5 più significativi” per i dottorati, a tenerci dentro medie e mediane, a tenere sotto occhio la produttività del raggruppamento, a non scivolare sotto soglia e così via.
Perché impegnarsi in percorsi ardui di ricerca e ad esito incerto con il rischio di perdere tempo e scendere di produttività?
Meglio rimanere nel main stream dei dibattiti in corso in modo da fare da sponda ad altri e offrire occasioni di citazioni e rimandi.
La produzione scientifica cresce apparentemente in modo esponenziale ma al contempo viene meno l’esigenza di leggere con effettivo atteggiamento critico. Non ce n’è in realtà più motivo. Si rischia solo di farsi inutilmente dei nemici.
La competizione interna, qualitativa e di merito, alla comunità scientifica sembra destinata a scomparire nella parametrazione quantitativa dei meccanismi di abilitazioni.
Se non c’è più competizione non c’è necessità di comparazione nell’ordine di merito.
Basta situarsi al di sopra di certe soglie quantitative e se i criteri estrinseci di valutazione del prodotto sono congrui: dal numero dei capitoli, alla classificazioni “bibliometriche” delle collane e delle riviste ove gli scritti sono pubblicati, alle citazioni del lavoro o alla loro diffusione nelle biblioteche. Tutto il giudizio si risolve, o può risolversi su dati estrinseci. Il fatto che le commissioni di abilitazione di questa tornata concorsuale siano state vincolate a tempi così brevi e rigidi per la formulazione dei giudizi ne è la riprova. Solo una breve proroga con decreto “direttoriale” (‘dittatoriale’). Bisogna spicciarsi. Fretta burocratica. Le commissioni non sono necessariamente tenute a svolgere una valutazione approfondita anche sui contenuti scientifici. Non c’è ne è ragione. Potrebbe essere sufficiente attenersi ai riscontri parametrici.
La resistenza con cui le attuali commissioni di concorso insistono giustamente nel volere effettuare una valutazione di merito potrebbe ben presto divenire anacronistica ed in contrasto con il funzionamento del sistema della codificata valutazione burocratica.
Nelle nostre facoltà umanistiche, allorquando i concorsi erano non solo nazionali, ma anche con un numero chiuso di posti, era la competizione entro un tetto predeterminato che induceva alla valutazione critica diffusa che circolava e diveniva patrimonio della comunità scientifica. In prima fila gli stessi candidati, che si davano da fare, a segnalare limiti e errori altrui, ingenerandosi, in fine dei conti, un contradditorio palese e una competizione virtuosa che non lasciava angolini in ombra e dalla quale in definitiva in genere uscivano rafforzati i migliori. La valutazione sistematica da parte della comunità scientifica aveva poi un periodo di latenza fino ai nuovi concorsi, ma in realtà era presente e funzionava nei passaggi decisivi. Quel sistema aveva altri difetti, soprattutto i tempi, che sarebbero comunque emendabili senza ricorrere alla burocratizzazione.
Non bisogna farsi espropriare da questa funzione di valutazione nel merito, non per spirito corporativo, ma nell’interesse del paese.
Che dire delle ultime richieste del “questionario” del CUN, che sta funzionando in questo caso come una stanza di trasmissione delle istanze burocratiche alla comunità scientifica. Stiamo attenti a non fornire alla burocrazia nuovi elementi per l’ANAGRAFE da trasformare poi in dati e nuovi “lacci e laccioli” escludenti l’accesso alla valutazione o per una sua conformazione estrinseca che finiscono per penalizzare l’autonomia della ricerca e le sue modalità di esternazione, il nostro impegno di studiosi e soprattutto i giovani ricercatori e il futuro della ricerca scientifica nel nostro paese.
C’è infine un altro aspetto della burocratizzazione che rimane normalmente in un cono d’ombra.
L’Università ha fatto le spese, come tutto il sistema educativo, negli ultimi venti anni dei tagli di spesa che però non è andata in risparmi per investimenti ma a vantaggio della crescita della spesa burocratica corrente.
Negli anni 90 è stata abolita l’equiparazione tra il trattamento economico dei professori universitari e quello della dirigenza pubblica. È stato accettato senza storie. Molti di noi, con sbocchi professionali, avevano la possibilità di altri introiti. Ad ogni modo nessuno ha fatto questione di soldi. Il risultato? La dirigenza pubblica, liberatasi dal fardello degli universitari, ha visto aumentare posti dirigenziali e lievitare trattamenti economici (con costi complessivi – se includiamo anche la cosiddetta dirigenza a contratto – forse addirittura decuplicati in termini di spesa pubblica anche per la possibilità allora introdotta di nominare dirigenti in eccedenza ai posti di ruolo: il c.d. spoil system all’italiana ).

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