Il caso ILVA tra crisi economica ed emergenza ambientale

Premessa
 In primo luogo, vorrei fare alcune considerazioni di carattere generale sul concetto di crisi e le sue caratteristiche, per fornire uno sfondo su cui collocare la vicenda dell’ILVA.
Vi darò anche alcuni suggerimenti bibliografici in proposito, anche se la bibliografia sul tema, di carattere sia economico che giuridico, è assolutamente sterminata.
Al momento, iniziano ad essere più chiare le ragioni della crisi, sebbene sia ancora difficile individuare i soggetti in grado di risolverla. La seconda parte della relazione la dedicherò, invece, all’analisi del caso ILVA, come caso paradigmatico dell’intreccio tra crisi economica e crisi ambientale.
Entrano in gioco nel caso ILVA tutta una serie di questioni delicate, che si direbbero di bilanciamento di valori costituzionali, e proverò a verificare lo stato dell’arte alla luce del bilanciamento operato dal primo decreto legge salva ILVA e dalle successive risposte della magistratura.
Il conflitto, in materia ambientale sempre più frequente, tra politica e giustizia, tra potere esecutivo e legislativo e la magistratura ( l’ordine o il potere giudiziario ) è un conflitto molto radicato e non nuovo.
Il ruolo del giudice penale in materia ambientale porta spesso a “sganciarsi” dal dato positivo, per assurgere a un ruolo di tutela di alcuni “valori” che ha una radice culturale che definirei di tipo “giusnaturalistico”; questo è avvenuto sin dalle origini della creazione del diritto ambientale, e si è verificato anche nel caso ILVA.
In ultimo cercherò di parlarvi delle prospettive di fuoriuscita dalla crisi, perché se parlassi solo del caso ILVA lo sconforto regnerebbe sovrano, mentre se guardiamo a cosa succede anche al di fuori dei nostri confini possiamo trovare alcune risposte in materia di crisi ambientale.

Crisi finanziarie e crisi economiche e loro rapporti con le crisi ambientali
 Per comprendere il rapporto fra crisi finanziaria ed economica e la radice comune che le lega nonché la possibilità della cultura umana di individuare vie d’uscita dalla crisi occorre partire da una constatazione sul cambiamento di paradigma all’interno del sapere filosofico.
Una delle discussioni più interessanti che i filosofi stanno affrontando è quella tra i seguaci di indirizzi ermeneutici che sostengono che la realtà si esaurisca nel linguaggio e non esistano fatti, ma solo interpretazioni e coloro che sponsorizzano, invece, un ritorno della realtà, del noumeno, in termini kantiani (tra questi Maurizio Ferraris).
È evidente che questo ritorno del noumeno – quale realtà incomprimibile ed innegabile, dalla quale attendersi dure repliche – è visibile sia nelle vicende della crisi finanziaria a partire dal 2007-2008 che nella crisi ambientale.
Le due crisi – finanziaria ed economica – si intrecciano ed hanno una matrice comune, ma sono pur sempre distinte fra loro.
Esse derivano da un atteggiamento culturale che potremmo chiamare l’“atteggiamento della grande illusione” al cui superamento è legata la possibilità di individuare realistiche vie d’uscita dalla crisi.
Non bisogna però demonizzare tutta la cultura che fonda la “grande illusione” che è niente altro che un irenismo originariamente giustificato dalla straordinaria crescita nella pace che ha connotato il secondo dopoguerra europeo.
Gli europei sono cresciuti in un’atmosfera culturale connotata dall’idea di “magnifiche sorti e progressive”, idea che è bene non convertire nell’opposto atteggiamento mentale della rinuncia critica e distruttiva, solo perché la realtà economica ed ambientale impone scelte difficili o tragiche.
Vi è stato, infatti, a fondamento di tale atteggiamento culturale un periodo che si potrebbe definire “età dell’oro”, definizione adoperata da Giorgio Ruffolo e Stefano Sylos Labini nel loro libro “Il film della crisi”, che delinea risposte interessanti e prospetta strade non percorse dalla politica attuale, nazionale ed europea.
La “età dell’oro” è un periodo del capitalismo recente in Europa e nei paesi occidentali in genere, in cui, successivamente alla fine della Seconda Guerra Mondiale, ad un alto indice di crescita si è accompagnato lo sviluppo delle istituzioni sociali e la diffusione del benessere in ceti che prima non avevano accesso a molti beni di consumo. All’allargamento al ceto medio si è accompagnato lo sviluppo di una serie di istituzioni economiche sino ad allora sconosciute anche in virtù dell’intervento dello Stato con politiche sociali di tipo keynesiano, non restrittive nell’utilizzo della leva della spesa pubblica.
Il diffondersi del pubblico impiego si è accompagnato ad un grande sviluppo dell’industria.
In tale periodo è stato possibile dare un principio di attuazione alle costituzioni del secondo dopoguerra in tutta Europa e si è conosciuta la fase aurea dello sviluppo delle Comunità europee.
Questo processo si interrompe nel 1973 con lo shock petrolifero, ma si tratta di un breve episodio recessivo che costituisce il primo campanello di allarme della crisi ambientale, insegnandoci che le risorse sono limitate.
Se anche lo shock petrolifero ha determinato una flessione di carattere economico, ad essa, tuttavia, gli Stati occidentali hanno reagito in modo conveniente, soprattutto con politiche di carattere monetario, ben descritte nel libro di Ruffolo e Labini. Di conseguenza, la stagflazione – un intreccio perverso di inflazione e recessione – che ha caratterizzato gli anni Settanta e Ottanta, è stata superata.

* Intervento del Cons. Giancarlo Montedoro alla Tavola rotonda su “L’ambiente in tempo di crisi” al Master di II livello in Diritto dell’Ambiente – La Sapienza (giovedì 31 gennaio 2013). Si è scelto di mantenere il tono colloquiale della lezione e si è solo aggiunto un postscritto per attualizzarla alla sentenza della Corte Costituzionale n. 85 del 2013.

Nel frattempo, il paradigma culturale del ruolo dello Stato è cambiato senza che quasi ce ne avvedessimo, soprattutto nei paesi anglosassoni con l’avvento di Reagan negli Stati Uniti e del primo ministro Thatcher in Inghilterra. Queste due personalità politiche diffondono una visione del mercato che ha dominato negli ultimi decenni, che può essere così sintetizzata: mito della autoregolazione del mercato.
Tale visione ha dei padri accademici ben precisi nell’area anglosassone e in particolare nella Scuola di Chicago tra cui Milton Friedman, premio Nobel dell’economia. Vi sono, inoltre, letture più risalenti, ad esempio quella del teorema di Coase e della sua analisi del ruolo del mercato e dei costi transattivi della regolazione pubblica. Tali questioni sono studiate, nell’ambito dell’analisi economica del diritto, sia da giuspubblicisti che da giusprivatisti.
Il paradigma cui si ritiene debbano rispondere tutte le politiche pubbliche è che il mercato sia lo strumento ottimale per l’allocazione delle risorse e che lo Stato debba intervenire solo in casi di fallimento del mercato.
Frattanto, viene abbandonato il sistema della convertibilità del dollaro in oro, le monete iniziano a fluttuare e il dollaro diventa moneta di riferimento per tutto il sistema monetario internazionale. All’abbandono del sistema della convertibilità del dollaro in oro si accompagna l’idea, prima impensata, della libera circolazione dei capitali. Tale contesto, naturalmente, porta ad un rafforzamento delle imprese e della loro dimensione sovranazionale. Poiché le imprese eccedono i confini degli Stati, si indebolisce l’azione che gli Stati hanno effettuato a sostegno dell’economia nella fase definita età dell’oro.
Le imprese sovranazionali hanno due nature: vi sono imprese che si occupano di economia reale ed imprese finanziarie. Se nella prima fase recessiva – quella dello shock petrolifero – la grande partita riguardava il controllo delle risorse naturali e delle imprese energetiche, la seconda fase è invece dominata dalle imprese finanziarie.
D’altra parte, utilizzando una terminologia marxiana, tornata in auge in questo periodo, per descrivere quanto è avvenuto nei momenti di cambiamento del paradigma dallo Stato sociale allo Stato basato sulla liberta di mercato deregolata, si può parlare di un ciclo di sviluppo del capitalismo noto come DMD (denaro-merce-denaro).
Nella prima fase, il denaro si converte in merce, ovvero il sistema produttivo investe denaro per produrre merci che vengono vendute sul mercato. Nella seconda fase, la merce si trasforma in denaro. Nella prima fase vi è dominio dell’economia reale, nella seconda dominio dell’economia finanziaria.
A ogni modo, la deregolazione finanziaria non costituisce necessariamente un male, perché la finanza svolge una funzione essenziale nel capitalismo, contribuendo a far incontrare le buone idee di chi non ha denaro con il denaro di chi non ha buone idee.
Se, però, la finanza serve solo a se stessa, come è avvenuto negli ultimi anni, con uno sviluppo dell’economia finanziaria non legato allo sviluppo dell’economia reale, essa diventa solo uno strumento di un’economia puramente cartolare fatta di contratti finanziari privi di causa giuridica ed economica che non sono altro che scommesse.
Infatti, il contratto che oggi ha più successo non è la compravendita ma il giuoco o la scommessa, ovvero il contratto derivato.
L’economia finanziaria diviene così un’occasione di arricchimento per una serie di soggetti, alcuni dei quali esercitano funzioni private di rilevanza pubblica, come le agenzie di rating, su cui ha scritto il prof. Pinelli.
I valutatori che sono interni al sistema finanziario non sono dei pubblici ufficiali. Anche quando nasce una start-up, oggi viene affiancata da un soggetto che la legge definisce incubatore, che in realtà è un valutatore privato. Solo nel settore degli appalti pubblici i valutatori – le SOA – esercitano pubbliche funzioni in senso proprio (ma anche questo è mal sopportato).
Gli imprenditori finanziari, che percepiscono commissioni in base ai contratti finanziari che concludono, si sono pertanto arricchiti mostruosamente, come rilevato dall’indice Gini, che misura il divario fra i redditi. Nei Paesi avanzati, la diseguaglianza cresce, in Italia con buona pace dell’art. 3, comma 2 della Costituzione.
L’intero assetto del sistema economico – incentrato sull’economia finanziaria autoreferenziale, che non svolge più la sua funzione propria a favore del sistema capitalistico – contrasta con il programma dello Stato sociale di cui all’art. 3, co. 2, Cost.
Attualmente il sistema bancario in assenza di vincoli conclude – nel mercato dei derivati – scommesse con i soldi dei risparmiatori, che è già di per sé discutibile dal punto di vista della sana e prudente gestione delle imprese bancarie (t.u. bancario).
Talvolta si insinua la mala gestio dolosa e, in alcuni casi, a seguito di indagini penali, inizia ad essere contestato il reato di truffa ai danni dei soci e dei depositanti (art. 640 c.p.).
Per quanto riguarda lo scoppio della crisi economica nel 2007-2008, crollano alcune banche d’affari, che sono anch’esse dei mostri giuridici creati dalla regolamentazione.
I nostri nonni avevano vissuto crisi economiche anche spaventose, come la Grande Depressione, che però era di segno completamente diverso dalla crisi attuale.
Infatti, la crisi del ‘29 nacque per un problema di sovrapproduzione, dovuto all’incapacità del mercato di assorbire i beni prodotti da un sistema capitalistico che si stava sviluppando in maniera troppo veloce negli Stati Uniti, che ebbe poi un riflesso finanziario nella caduta dei titoli di borsa. Tale crisi fu superata con la Seconda Guerra Mondiale, con le politiche del New Deal, ma soprattutto con i grandi sforzi bellici sia in Germania che negli Stati Uniti.

Ne “Il film della crisi” di Ruffolo e Labini si trova anche una singolare lode delle politiche economiche del Führer, che in poco tempo, ma grazie al riarmo foriero di politiche belliciste, riuscì a portare la Germania dallo stato di sofferenza dovuto alle ferite della Prima Guerra Mondiale a uno stato di relativa prosperità (nell’ambito del continente europeo, nulla di paragonabile alla potenza economica americana).
Vi erano dunque strane analogie fra il New Deal di Roosevelt e le politiche sociali degli stati totalitari nel continente europeo. Ovviamente, il significato di queste politiche è del tutto diverso: un conto è l’intervento dello Stato in un quadro democratico, un altro conto in un quadro totalitario.
Non che vi fosse qualcosa di buono nelle finalità delle politiche economiche del nazismo, ovviamente, ma lo strumento metodologico messo in campo può essere interessante (investimenti pubblici ed impianto di grandi industrie manifatturiere hanno consentito il superamento della crisi weimariana).
In periodi di crisi – in sostanza – assume rilievo l’intervento dello Stato nel distribuire commesse e lavori pubblici – magari anche solo per scavare delle buche, come nell’esempio paradossale avanzato da Keynes – per gli effetti positivi del moltiplicatore.
Per altro verso, se ne deve concludere che se si riduce la spesa pubblica, si mette in moto un deflattore, per cui politiche di austerità producono effetti di decrescita più che proporzionali rispetto alla minore spesa. Anche il Fondo Monetario Internazionale inizia a rivedere in tal senso le proprie ricette.
Tornando alle ragioni della crisi, negli Stati Uniti le banche, nell’età del mito del mercato che si autoregola, hanno cercato di svolgere de facto delle funzioni pubbliche o para-pubbliche, in particolare per quanto riguarda l’accesso all’abitazione, facendo politiche sociali attraverso il credito facile (coperto da contratti derivati).
Come è noto i contratti bancari di concessione del credito (veri e propri contratti di mutuo), venivano poi “impacchettati” con meccanismi di cartolarizzazione, che consiste nella creazione di una società parabancaria, chiamata società veicolo.
A questa S.p.A. – dotata di un patrimonio autonomo da quello della banca – vengono conferiti dei titoli che producono flussi di reddito che si presumono costanti. In questo caso i titoli conferiti erano i contratti di mutuo, che producevano interessi. Questi contratti di mutuo, però, erano stati stipulati con persone impossidenti per permettere loro di comprare una casa, in assenza di qualunque valutazione del c.d. merito del credito, valutazione che sarebbe compito delle banche e del sistema finanziario. Le banche, infatti, non devono essere caritatevoli e fornire credito a tutti i costi, bensì devono fare profitti e, di conseguenza, valutare il merito del credito che prestano. Diversamente, incorrono in una grave deviazione dal paradigma capitalistico, che è all’origine della crisi.
I titoli tossici conferiti nelle società veicolo, infatti, quando i debitori non sono più stati in grado di restituire le rate dei mutui, hanno smesso di produrre il flusso di reddito atteso. A quel punto sono scattate una serie di procedure esecutive. Nel frattempo le società veicolo, però, avevano a loro volta emesso e diffuso nel mercato i c.d. titoli tossici, comprati da qualsiasi risparmiatore nel mondo.
Quando si è dovuto salvare queste banche e società parabancarie, il sistema finanziario si è ricordato che esistono gli Stati, che sino ad allora erano stati fatti “dimagrire” per effetto del paradigma friedmaniano-monetarista per cui il mercato garantisce un’ottimale allocazione delle risorse e lo Stato deve ridursi al ruolo di “guardiano notturno” con poche funzioni (giustizia, polizia, esteri…). Ma quando il meccanismo della finanza è andato in crisi, si è bussato alla cassa dello Stato, cioè ai contribuenti e in particolare al ceto medio, che si è iniziato ad impoverire.
Ciò è accaduto in varie misure in tutti gli Stati occidentali; in Italia in misura più limitata, non perché il nostro sistema bancario sia particolarmente virtuoso, ma solo perché più arretrato.
Gli Stati danno vita, pertanto, a massicci programmi di salvataggio delle banche, a seguito dei quali si indebitano.
La seconda fase, dopo i programmi di salvataggio, avrebbe dovuto consistere nell’apposizione di regole al mercato finanziario. Tali regole possono essere apposte solo con lo strumento del trattato internazionale, perché i mercati sono globali.
I tentativi in tal senso, portati avanti nell’ambito del G20 anche dal ministro italiano Tremonti, sono falliti.
Si è agito soltanto con meccanismi di soft law, per mezzo di raccomandazioni del Financial Stability Board, presieduto da Mario Draghi, che è uno dei più attenti lettori di questa crisi e che era sicuramente un keynesiano nell’animo, almeno prima di diventare il Presidente della BCE (ma c’è da supporre anche dopo , nei limiti in cui la carica lo permetta).
La soft law del FSB consiste in mere raccomandazioni che, tuttavia, possono essere prese in considerazione dai regolatori e servire a stabilizzare il sistema finanziario.
In realtà, parte del problema è stata anche la “cattura” dei regolatori – ad esempio delle banche centrali dei paesi occidentali, investite del compito di vigilare sui mercati finanziari – da parte del paradigma del mercato autoregolato.
Nella seconda fase della crisi, i mercati si vendicano degli Stati che li hanno salvati. Assistiamo a un’ondata speculativa sugli Stati più deboli, soprattutto in Europa, fra cui l’Italia, ad opera del capitalismo anglosassone.

Tale fenomeno ha anche delle ragioni di carattere politico, ma non deve essere inteso in senso complottistico (come avviene nella vulgata di alcune forze politico sociali populistiche), poiché si è trattato di scelte razionali, difficili da dismettere finché non si pongono dei limiti legali alle scelte degli attori dei mercati finanziari.
Le imprese finanziarie che hanno sostenuto l’emissione da parte degli Stati di titoli del debito pubblico per sostenere i livelli di spesa dello Stato sociale e per salvare il sistema finanziario, a un certo punto si rendono conto che i titoli del debito pubblico non sono più sostenibili con i tassi di crescita dei prezzi occidentali, soprattutto nei Paesi nel sud Europa.
Pertanto, inizia un violento attacco a questi Paesi, anche per indebolire l’euro e conservare al dollaro i vantaggi del ruolo di valuta di riserva mondiale.
Tali attacchi sono falliti per effetto della scelta della BCE di difendere l’euro ad ogni costo, che ha fatto capire agli speculatori che non avrebbero potuto fare breccia sull’unità monetaria.
Naturalmente la moneta unica in assenza di un’Europa politica rimane una costruzione fragile. Di conseguenza, si è solo vinta una battaglia, ma non la guerra.
Questa crisi finanziaria ed economica, con le parole del prof. Padoa-Schioppa, rivela che si agisce con una “veduta corta”. Tutti gli agenti economici più importanti – imprese sovranazionali, banche, agenzie di rating – fanno prevalere la ricerca immediata del profitto.
In questo momento sono sotto accusa molti dei fattori che contribuiscono a costruire il capitalismo come rapina, ad esempio il sistema di remunerazione del management, che premia i risultati di esercizio e non l’investimento a medio o lungo termine.
Padoa-Schioppa, che è stato a lungo uno dei migliori regolatori e degli intellettuali più raffinati dell’Italia della seconda metà del Novecento si è reso conto che effettivamente è una questione di lunghezza dello sguardo.
Se lo sguardo inizia ad essere più lungo, le cose si aggiustano.
Se ognuno torna a fare il suo mestiere con una prospettiva neoumanistica che non faccia prevalere la corsa avida al profitto immediato, pur non risolvendosi tutti i problemi, paradossalmente il mondo può migliorare.
La veduta corta è un problema anche per l’ambiente. Veniamo al secondo corno della crisi.
La crisi ambientale è il frutto di un altro tipo di veduta corta; noi sappiamo che le risorse sono scarse, ma il sistema economico e il paradigma dell’economia politica classica non hanno mai considerato, se non come un vincolo esterno, l’esistenza del tema della scarsità delle risorse.
Leggendo un bel libro – “L’immaginazione economica”, pubblicato alcuni mesi fa da Sylvia Nasar, giornalista anglosassone – che ripercorre la vita dei più grandi economisti di tutti i tempi, si comprende come l’ossessione degli economisti sia sempre stata quella di risolvere il problema della sotto produzione, della povertà crescente, magari delle disuguaglianze, forse meno al centro della riflessione economica è stato il tema della scarsità delle risorse.
Ma oggi anche gli economisti si sono resi conto dell’importanza del tema dell’ambiente: per esempio fra questi merita una menzione, per l’assiduità con la quale torna sull’argomento, Jean Paul Fitoussi, che ha scritto un libro con Eloi Laurent “La nuova ecologia politica”, nel quale si indagano le tematiche della crisi ambientale.
Il sistema capitalistico si basa sul mito della crescita, esaltato persino dalle grandi forze che si sono opposte al capitalismo (si pensi al “Manifesto” di Marx e Engels); ma la crisi ambientale, e dunque l’ecologia politica ed economica, hanno posto in luce altre necessità: nascono concetti come quello di “sviluppo sostenibile”, che tengono conto anche degli effetti negativi che la produzione ha sull’ambiente, e del fatto che molte risorse non sono rinnovabili (es. combustibili fossili) e dunque destinate ad esaurirsi.
L’aspetto della crisi ambientale che fa più impressione alla coscienza civica dei paesi occidentali è quello dei cambiamenti climatici, per massima parte imputabili ai combustibili fossili: la nostra società, infatti, è basata per almeno il 50% sull’energia prodotta dai combustibili fossili, mentre è molto meno impiegata l’energia da fonti rinnovabili, come l’energia solare.
È una sorta di “corsa contro il tempo”: da una parte la speranza che non si esauriscano rapidamente le fonti di energia tradizionale dall’altra l’auspicio che la tecnica permetta di produrre energia da nuove fonti quanto prima.
In questa dialettica, in questa “corsa all’impazzata verso l’esaurimento delle risorse”, si inserisce l’elemento della regolazione delle attività produttive, determinando nuovi equilibri; nuovi equilibri che consistono secondo taluni in una “non-crescita” o addirittura in una decrescita, mentre secondo altri la crescita potrebbe derivare da investimenti per così dire “verdi”, vale a dire in settori ad alta compatibilità ambientale che servono a garantire questo valore, che è anche un valore costituzionale fondamentale: artt. 9 e 117.
Le due crisi, quella economica e quella ambientale, hanno dei punti in comune, che si trovano ben descritti nel libro di Fitoussi e che reclamano nuove politiche pubbliche:

1. Necessità di un intervento pubblico, sia di investimento che di regolazione, per risolvere la crisi: più “Stato buono”, più intervento. Ciò però richiede una consapevolezza particolare sulla necessità di risolvere in parte la crisi dello Stato.

Lo Stato è in crisi in tutte le sue accezioni: liberale, sociale, rappresentativo, democratico, fiscale e potremmo continuare. Non c’è quasi una qualità dello Stato che non sia in crisi. E non dipende dalla crisi, ma da ragioni sue proprie: per esempio lo Stato di diritto è in crisi perché implode il sistema delle fonti, per il proliferare di fonti anche sovrastatali, che impediscono di sapere chi è il “decisore ultimo”. Qualsiasi problema, anche il caso ILVA, è suscettibile di trascinarsi da un luogo decisionale ad un altro senza che si trovi mai un punto finale di definizione dell’assetto di diritto. Lo chiamano “dialogo fra Corti”, ma il Prof. Cassese ha fatto notare che si tratta in realtà di un dialogo babelico, discorrendo di “Tribunali di Babele” ha fatto emergere plasticamente l’idea che la molteplicità delle lingue rischi di minare il concetto di certezza del diritto, determinando la crisi dello Stato di diritto.
Così lo Stato rappresentativo è in crisi, e con ciò l’idea del Parlamento, che è un’idea ottocentesca che identifica l’assemblea come luogo di rappresentanza politica e sintesi della volontà generale; in realtà la politica sta diventando una sorta di teatro, di intrattenimento – teatro è parola troppo nobile – tipico di una vita ridotta al semplice consumo: noi siamo esseri che consumano e quindi la politica ci da un’illusione decisionale, in realtà essendo altrove i poteri veri. Molte cose sono decise con decreto, non con legge, e questo è sintomatico della crisi dello Stato rappresentativo.
2. Un altro punto che accomuna le crisi è che l’idea di futuro è in gioco, e quindi è necessario l’intervento pubblico come strumento di soluzione. Questa necessità non potrà realizzarsi correttamente se non cambia l’idea che noi abbiamo del rapporto tra presente e futuro: il presente ci fa fare degli errori di valutazione (v. caso ILVA).

Si esce sia dalla crisi finanziaria, che punta tutto sui guadagni a breve termine, sia dalla crisi ambientale, coltivando l’idea che il futuro è una cosa preziosa: è il concetto di giustizia intergenerazionale. Ad esempio, la Costituzione è di per sé un programma di giustizia intergenerazionale.
Occorre poi invertire alcuni meccanismi “antiumanistici” che si sono impossessati del mondo; e in particolare, l’economia procede sulla base di calcoli automatici, ignorando la realtà. È necessario un approccio umanistico per evitare un eccesso di “matematizzazione” del mondo.

La storia dell’ILVA
 La crisi dell’ILVA – veniamo al secondo punto – ha in vitro delle caratteristiche di esemplarità, perché ci permette di verificare la fragilità del nostro sistema economico-industriale e la difficoltà, tutta italiana, di articolare delle politiche ambientali razionali. E nello stesso tempo rivela i limiti dell’intervento dello Stato in una fase di risorse finanziarie scarse – perché lo Stato è molto indebitato e deve rispettare i vincoli europei introdotti fin dal Trattato di Maastricht (oggi recepiti anche nella nostra Costituzione con la L. Cost. 1/2012 sul pareggio di bilancio, vincoli che divengono sempre più stringenti perché basati sul rapporto debito/PIL).
La storia dell’ILVA è emblematica: l’ILVA nasce come impresa pubblica sull’onda del migliore pensiero meridionalista – che trova i suoi antenati illustri in Giustino Fortunato, Gaetano Salvemini e altri sostenitori della “modernizzazione del Meridione” – il quale nel secondo dopoguerra – penso a Pasquale Saraceno, Manlio Rossi Doria, un grande Consigliere di Stato come Gabriele Pescatore – ha creato quelle premesse della modernizzazione e dell’industrializzazione del Meridione scegliendo anche alcuni luoghi – Gioia Tauro, Taranto – dove l’impresa pubblica avrebbe potuto fare da volano.
Poi quest’industria pubblica viene dismessa, per effetto delle privatizzazioni e del paradigma per cui lo Stato imprenditore si deve liberare il più possibile dei compiti di intervento diretto nell’economia. Attenzione, l’impresa è tutt’ora redditizia: dispone di una quota di mercato, ha i suoi fornitori e riceve commesse che ora, per effetto dei provvedimenti giudiziari che ne rallentano il funzionamento, non possono essere svolte.
Quest’impresa è situata a ridosso della città, quartiere “Tamburi” di Taranto, in un luogo che con il senno di poi si è rivelato sbagliato [1]: essa produce dei fumi – diossina e benzopirene – noti come cancerogeni. Le concentrazioni massime di queste sostanze sono definite dalla legislazione nazionale e regionale, e da un quadro internazionale che non ci obbliga ad adottare misure più restrittive di quelle vigenti se non a partire dal 2016.
Nel frattempo, la situazione delle emissioni può essere discrezionalmente valutata dall’amministrazione nell’ambito del procedimento noto come autorizzazione integrata ambientale, dove si valuta se gli standard sono o meno allineati a quelli delle best practice europee. Queste “pratiche” europee, in realtà, non sono prive di criticità (la tedesca Thyssen – nel noto infausto incidente torinese – sostiene di esservisi conformata regolarmente; la società del rischio – delineata dalle norme, spesso amministrative o extrapenali – espone il lavoratore ad eventi tragici a fronte dei quali intervengono le procure ed il giudice penale, evidenziando la necessità di un maggior livello di integrazione tra criteri di imputazione penalistica e disciplina extrapenale di riferimento) [2].
L’impressione che si ha è che l’AIA sia intervenuta molto tardi, mentre si svolgevano indagini di tipo epidemiologico sia in sede giudiziaria che amministrativa; queste hanno evidenziato, secondo i giudici, un nesso tra l’attività produttiva e la morte delle persone, fortemente incrementata negli ultimi anni.

L’ipotesi di reato per cui ci si muove fa “cortocircuitare” il diritto amministrativo e quello penale, perché il primo tiene conto di una serie di fattori di contesto, assurgendo a una sorta di crisis management; mentre il secondo si occupa degli effetti sul territorio sotto il profilo “fenomenologico” della consumazione di una serie di fatti rilevanti come reato.
Risultato: blocco dell’attività produttiva, caduta verticale dei redditi della città di Taranto, drammatica alternativa tra “morte per effetto dei veleni” e morte per effetto, più lento, della crisi economica e della disoccupazione che può produrre fame e povertà.
Il management è latitante, in fuga; lo Stato non ha le risorse finanziarie per nazionalizzare quest’impresa, né questa è secondo molti la scelta migliore.
Si giunge così all’intervento del Governo: viene emanato il D.L. 3 dicembre 2012, n. 207, convertito in legge il 24 dicembre, dopo soli venti giorni di discussione Parlamentare: un atto sostanzialmente governativo, dunque, su un problema che pure è di grande rilevanza (ennesimo sintomo della crisi dei Parlamenti).
Il provvedimento è concepito con molti articoli, alcuni di carattere molto generale altri con il carattere tipico della legge provvedimento.
Questa legge ha una finalità: nonostante i provvedimenti cautelari dell’autorità giudiziaria, consentire in modo “funambolico” la prosecuzione dell’attività.
Il sistema industriale italiano aveva frenato il ricorso all’AIA e l’amministrazione non era stata al passo con la tempistica europea: diversi anni dopo il codice dell’ambiente non ne era stata rilasciata nemmeno una, a fronte di una notevole crescita negli ultimi anni.
Anche gli ambientalisti, per cecità politica, non hanno affrontato sempre consapevolmente i nodi del sistema industriale.
Nella giurisprudenza della Corte Costituzionale il tema del costo economico delle scelte ambientali è stato affrontato espressamente.
La sentenza della Corte Costituzionale, n. 127/90, Rel. Ettore Gallo – ad esempio – riguardava il caso di un processo penale per inquinamento a carico di un soggetto, il quale si difese affermando che l’esercizio dell’attività economica – secondo criteri e cautele diversi da quelli in concreto adottati – che gli veniva rimproverato, non sarebbe stato economicamente conveniente.
Il Pretore rinviò alla Corte, sollevando questione di razionalità del quadro giuridico laddove non consente una certa gradualità nell’adozione della tecnologia più avanzata per la produzione e per l’adeguamento dei relativi costi.
La Corte dichiarò la questione non fondata: vi è un nucleo duro dell’ambiente e della salute umana, che rappresenta un limite assoluto e indefettibile, rappresentato dalla tollerabilità per la tutela della salute umana e dell’ambiente, che troviamo all’art. 32 della Costituzione.
Il limite del costo eccessivo, ai fini dell’esercizio dell’impresa, può essere preso in considerazione solo laddove sia stato rispettato il nucleo duro del diritto alla salute; ciò significa che i miglioramenti resi possibili dalla tecnica non possono essere esclusi ove la situazione ambientale lo richieda, e nemmeno in tal caso si può escludere l’adozione di limiti ulteriori, tenendosene però conto ai fini di un adeguamento temporale graduale.
Questa sentenza – conciliando il’impossibile – distingue, dunque, interventi immediati e non rinviabili, da quelli che possono essere dilazionati nel tempo.
Questo è il parametro costituzionale individuato in uno dei casi più significativi, perché attiene alla flessibilizzazione nel tempo degli interventi per la salute ambientale ed alla loro compatibilizzazione con i costi economici.
Nel caso dell’ILVA, astrattamente, la cosa più razionale sarebbe fermare gli impianti, procedere a un risanamento ambientale per lo meno minimo e poi riprendere l’attività produttiva; questo però ha una controindicazione sul piano economico: fermare gli altiforni di una acciaieria è molto costoso e l’esperienza insegna che se si fermano questi impianti si perde forza lavoro, perché gli operai cercano subito nuovi impieghi, oltre che la perdita di quote di mercato in favore di concorrenti (soprattutto tedeschi e giapponesi).
Naturalmente abbiamo anche il dilemma di come risanare immediatamente; il problema è stato risolto con la seconda AIA, resa necessaria anche dal ius superveniens, che ha imposto la valutazione di altri nuovi parametri.
Il Governo Monti ha individuato un vero e proprio “cronoprogramma” con l’AIA, prevedendo interventi immediati e interventi da adottare più avanti.
Purtroppo questa costruzione sembra un “gigante dai piedi di argilla”: la fragilità deriva dal fatto che le risorse sono prese dai privati, attenzione, senza un procedimento ablativo, ma attraverso la destinazione del prodotto alla commercializzazione.
L’acciaio già prodotto che si trova nei magazzini potrà, infatti, essere venduto e i proventi utilizzati per continuare a garantire l’esistenza del capitale circolante, pagare le retribuzioni e mantenere in vita la società.

Al commissariamento della società si è affiancato un garante, l’ex procuratore generale della Cassazione, il dott. Esposito, che attualmente però non dispone ancora di un ufficio, proprio per la mancanza di risorse finanziarie pubbliche. Probabilmente la situazione verrà risolta consentendogli di avvalersi delle risorse di un ente già esistente.
Tornando al provvedimento, la possibilità di commercializzazione costituisce una forzatura sul piano dei principi della Convenzione europea dei Diritti dell’Uomo riguardanti il diritto di proprietà, perché sostanzialmente è un’ablazione senza indennizzo di beni – per ora solo sequestrati – per commercializzarli a fini sociali, per pagare le retribuzioni e continuare dell’attività.
Ciò senza consultare i proprietari, senza che un provvedimento giudiziario abbia previsto la confisca, senza vi sia stato alcun indennizzo. Questo aspetto è forse persino più delicato della tutela ambientale dal punto di vista dello stridore con i principi generali.
Ciononostante, la finalità dell’intervento del Governo è chiara: in presenza di risorse scarse, non potendo mettere un’intera città sul lastrico, disponendo di un programma razionale come il programma dell’AIA e del risanamento dell’azienda e di risorse che sono le stesse che l’azienda è capace di generare, si tenta di mantenerla in vita sotto una sorta di tenda ad ossigeno, nella consapevolezza della estrema difficoltà dell’operazione di bilanciamento dei valori costituzionali imposta dalle circostanze.
Questo è quanto è stato fatto con il decreto legge, che il Parlamento ha ritenuto ragionevole ed ha convertito in legge.
La magistratura ha reagito con durezza al decreto legge, cosa che si può ritenere ragionevole dal punto di vista della valutazione della legittimità del provvedimento, per i suoi effetti diretti sul processo penale in corso; anche se, per la verità, tali effetti sono limitati al sequestro.
Tuttavia considerato che la creazione di un quadro regolatorio per il futuro, nell’immediato potrebbe determinare concreto pericolo (in forza della prosecuzione dell’attività) per la persona umana, è comprensibile che si sollevi un dubbio sul fatto che il Governo abbia scelto di non interrompere e riprendere la produzione, ma di continuare con l’attuazione del “cronoprogramma”.
Questo è il vero dubbio alla base della sentenza Galli, che però non è citata dai provvedimenti giudiziari tarantini.
Tali provvedimenti, infatti, si fondano, in primo luogo, sulla riserva di giurisdizione e il conflitto tra i poteri, dando la precedenza alle prerogative della magistratura (artt. 102-104 Cost.) rispetto al diritto alla salute (art. 32) e ai suoi rapporti con l’art. 41.
La questione di costituzionalità è rilevante e non manifestamente infondata, perché il caso concreto è tragico, però nelle more della sua risoluzione si pone il problema drammatico del bene sequestrato.

Le misure cautelari in pendenza del giudizio di costituzionalità
 In proposito, la magistratura ha preso una posizione troppo rigida e contraria all’effettività della normativa vigente di fronte alle istanze di dissequestro avanzate dai custodi che ormai agiscono sostanzialmente come organi pubblici.
Infatti, sia il GIP che il Tribunale del riesame, aditi in vari passaggi, hanno preso la posizione che non deve essere operato il dissequestro fino a quando sia pendente la questione di costituzionalità.
Inizialmente, la magistratura addirittura aveva sollevato un conflitto di attribuzione: la procura, prima ancora che si arrivasse davanti al GIP per discutere le istanze di dissequestro, si era sentita lesa nella sua prerogativa costituzionale di cui all’art. 112 Cost., cioè l’obbligo di esercitare l’azione penale.
Però, non ci troviamo davanti ad alcuna sanatoria, forma di condono o depenalizzazione per mezzo di legge-provvedimento, casi purtroppo frequenti negli ultimi tempi. In questo caso, invece, si prevede la modulazione degli effetti di un sequestro.
Il conflitto di attribuzione sollevato dalla procura è sicuramente inammissibile per l’oggetto, perché la procura può sollevare conflitto di attribuzione fra poteri rispetto ad atti amministrativi del Governo e non rispetto alla legge (che non sia legge provvedimento).
Inoltre la via maestra rimane quella del giudizio incidentale di costituzionalità.
Nel nostro ordinamento, infatti, la legge può essere oggetto di un sindacato di costituzionalità solo in via incidentale o in via principale, se impugnata da una Regione, ma non di conflitto di attribuzione.
Il GIP e il tribunale del riesame hanno poi posto questioni sacrosante sul bilanciamento tra salute e impresa o salute e lavoro, che sono entrambi valori costituzionali fondamentali.
La Corte dovrà sciogliere tali questioni tenendo conto del precedente Gallo, ma anche del contesto diverso ben più drammatico in cui si cala questa vicenda.
Il punto debole, però, è che nel frattempo è mancata la definizione di un assetto cautelare adeguato. La mancata applicazione del decreto legge, con il rifiuto di provvedere sull’istanza di dissequestro in pendenza della questione di costituzionalità, determina il rischio del perimento della res iudicanda, cioè l’azienda rischia di scomparire anche prima del giudizio del giudice delle leggi, perche se si mantiene il sequestro non si pagano lavoratori e l’azienda chiude.
Si tratta di uno strano funzionamento all’inverso della cautela, che deve sempre servire a conservare la res iudicanda, mai a distruggerla.

Questo orientamento della giustizia è tutto schiacciato sul presente: in una difficile realtà in cui studi epidemiologici affermano che vi è una correlazione tra un’attività produttiva e dei decessi che va a suffragare un ipotesi di omicidio colposo, si ritiene di dover mantenere obbligatoriamente il sequestro sul prodotto o profitto del reato per evitare che il reato venga portato a ulteriori conseguenze.
Il sequestro del prodotto o profitto del reato deve essere volto a tutelare l’interesse pubblico a che l’autore del reato non consolidi alcun vantaggio dalla sua condotta criminosa.
Diversamente, in questo caso i vantaggi previsti dal decreto legge legati al dissequestro e alla commercializzazione del prodotto non vanno a favore degli autori del reato – i quali sono invece danneggiati da un provvedimento para-ablativo di sospetta illegittimità ai sensi del Protocollo 1 della Convenzione europea dei Diritti dell’Uomo che tutela il diritto di proprietà – ma sono a vantaggio della popolazione locale, che vuole lavorare, e della cittadinanza che si augura che l’azienda venga risanata.
Si potrà obiettare che sussiste il pericolo che qualcuno si ammali, ma tale pericolo può essere scrutinato dal nostro sistema, nella dialettica fra validità ed efficacia delle leggi, solo dal giudice costituzionale.
In Assemblea Costituente si è svolto un dibattito sulla validità ed efficacia delle leggi. Il dibattito riguardava il modo in cui doveva avvenire il controllo di costituzionalità: vi era chi diceva che ogni giudice deve poterlo fare nel caso concreto (Calamandrei), chi diceva che nessuno deve poterlo fare, essendo sufficiente un controllo preventivo interno al Parlamento (Togliatti) e chi ha trovato la mediazione del controllo incidentale (Leone ed altri), nelle more del quale si applica una legge anche sospetta di incostituzionalità, che, finché non viene dichiarata invalida, è efficace.
Il problema è che non si può invertire il rapporto tra validità ed efficacia, come hanno fatto i giudici nel caso dell’ILVA, rifiutandosi di provvedere sul sequestro, utilizzando la questione di costituzionalità.
A questo punto bisogna chiedersi se il giudice delle leggi possa rimediare mediante un provvedimento cautelare.
La risposta sembra essere negativa.
Non può rimediare nel conflitto di attribuzione sollevato dalla sola procura, giudizio in cui la Corte costituzionale avrebbe un potere di sospensione dell’esecuzione degli atti (art. 40, l. n. 87/1953 che regola il processo costituzionale), perché, come si è visto, tale ricorso è inammissibile.
Per quanto riguarda, invece, il giudizio incidentale di costituzionalità sollevato dal GIP prima e dal tribunale del riesame poi sulle due versioni del decreto legge intervenute sul sequestro – la seconda per precisare che il primo decreto si applicava anche ai sequestri già intervenuti – in tale tipologia di giudizio non vi è una disciplina della sospensione (diversamente dal giudizio in via principale – art. 35, l. n. 87/1953).
Ciò perché tra validità ed efficacia delle leggi non prevale la versione kelseniana ma la versione realistica, per cui le leggi devono essere efficaci (almeno fino a diverso avviso della Corte).
In conclusione, la magistratura, per un’esigenza comprensibile, con provvedimenti non abnormi, relativi ad un caso drammatico di tutela della persona umana, ha adottato determinazioni che contrastano con l’efficacia del diritto normativo.

Il merito delle questioni di costituzionalità
 Venendo al merito delle questioni di costituzionalità, si fondano su due argomenti: violazione della riserva di giurisdizione con legge-provvedimento e violazione del diritto alla salute.
Sotto il primo profilo, va detto che la legge-provvedimento in sé è – in via generale – ammissibile, secondo la Corte costituzionale [3].
In questo caso non si tratta neanche in toto di una legge-provvedimento, perché dispone in via generale degli impianti di interesse strategico e solo un aspetto riguarda Taranto. Per quanto riguarda l’incisione della riserva di giurisdizione, per la giurisprudenza costituzionale, questo argomento è invocabile solo nel momento in cui il legislatore incida su un provvedimento passato in cosa giudicata. In questo caso, però, si modulano solo gli effetti di una misura cautelare e non si incide sul giudicato. Non si contano, infatti, le norme processuali immediatamente applicabili ai procedimenti in corso.
Più delicata è la seconda questione relativa alla gradualità e all’assolutezza del diritto alla salute, che costituisce il vero oggetto del giudizio. Tale questione si risolve con una valutazione dell’adeguatezza del “cronoprogramma”, configurando un caso particolare in cui il parametro di costituzionalità invocato deve essere calato nel concreto di un provvedimento amministrativo, l’AIA, che secondo la relazione del Governo, ha un adeguato cronoprogramma, che tutela la salute al meglio delle possibilità concrete per mantenere in vita l’azienda, tutelando altri interessi se non di pari grado sicuramente di primaria importanza costituzionale come il lavoro. Il lavoro è citato in Costituzione più volte che il diritto alla salute. Tale circostanza non li rende in sé bilanciabili, anche perché il diritto alla salute ha una posizione “specialissima” in Costituzione, ma i due diritti sono comunque ponderabili.
Come si vede, l’oggetto del giudizio dinnanzi alla Corte è delicato.
I giudici tarantini hanno fatto il loro dovere sollevando la questione di costituzionalità. Non hanno invece avuto la “veduta lunga”, per usare le parole di Padoa-Schioppa, nel valutare la questione del dissequestro che crea tutti i cortocircuiti prima descritti.
Per concludere con una nota di ottimismo, è chiaro che è cresciuta la consapevolezza della necessità della tutela ambientale. Il quadro normativo oggi è estremamente complesso e addirittura iper-tecnico rispetto a quello degli anni Settanta e Ottanta in cui si è creata un’industrializzazione deregolata.
Adesso le regole esistono, ma mancano purtroppo i denari pubblici per gli investimenti.

Prospettive
 Gli Stati Uniti e la Cina investono ormai in modo prepotente nella materia ambientale.
Nello stesso senso agisce l’Europa: ad esempio vi sono molti documenti sugli appalti verdi o sugli aiuti di Stato che affermano che bisogna tornare ad investire in questo settore.
Allo stesso modo, sono importanti i report, come quello condotto da Fitoussi sulla necessita di rivedere il PIL come unico indice che misura la crescita, introducendo stime che rendano conto anche delle esternalità. Agendo in tal senso, ci si renderebbe conto che invece di crescere, stiamo decrescendo. Fitoussi, insieme ad Amartya Sen, su incarico del presidente Sarkozy, ha elaborato un importante rapporto sugli indici dell’economia del benessere, non basata solo su una crescita quantitativa.
In Italia è possibile pensare di riprendere gli investimenti in materia ambientale in modo massiccio se nei prossimi anni i Governi, quale che ne sia il colore, sapranno negoziare in Europa quella che il presidente Monti a suo tempo ha chiamato “golden rule”, ovvero un metodo per evitare di conteggiare nei parametri di Maastricht quale indebitamento annuale gli investimenti pluriennali di lungo periodo.
Per arrivare alla veduta lunga di tipo keynesiano, la “golden rule” è necessaria. La “golden rule” è osteggiata dalla Germania che vuole arricchirsi il più possibile con le politiche deflattive, ma quando i Paesi del Sud Europa non saranno più in grado di comprare le merci tedesche, che per il 60% confluiscono nel Sud Europa, anche la Germania per convenienza economica cambierà idea. Speriamo di essere in quel momento ancora sufficientemente in forze per riprendere un ciclo di investimenti che magari le nuove generazioni potranno orientare ai valori assolutamente necessari ad un cambio di paradigma che non elimini il capitalismo ma lo faccia entrare in una nuova fase più virtuosa di quella che stiamo attraversando, se non una nuova età dell’oro quantomeno in una età della sobrietà e della riscoperta delle regole.

Postscriptum: la sentenza della Corte Costituzionale
 A proposito di regole.
La Corte Costituzionale, dopo la lezione qui riassunta, ha deciso la questione con la nota sentenza n. 85 del 2013.
Il giudice delle leggi in primo luogo fotografa il contesto emergenziale che connota la crisi dell’ILVA rilevando che:
“Sia la normativa generale che quella particolare si muovono quindi nell’ambito di una situazione di emergenza ambientale, dato il pregiudizio recato all’ambiente e alla salute degli abitanti del territorio circostante, e di emergenza occupazionale, considerato che l’eventuale chiusura dell’Ilva potrebbe determinare la perdita del posto di lavoro per molte migliaia di persone (tanto più numerose comprendendo il cosiddetto indotto). La temporaneità delle misure adottate risponde, inoltre, ad una delle condizioni poste dalla giurisprudenza di questa Corte perché una legislazione speciale fondata sull’emergenza possa ritenersi costituzionalmente compatibile (sentenza n. 418 del 1992). Le brevi notazioni in fatto relative all’incidenza, sull’ambiente e sull’occupazione nel territorio di Taranto, dell’attività produttiva dell’Ilva consentono, nella fattispecie, di rinvenire la ratio dell’intervento legislativo «nel peculiare regime che connota le situazioni di emergenza» (sentenza n. 237 del 2007).”
Poi nel merito rigetta le questioni sollevate ed il passo più significativo della decisione è il seguente :
“La distinzione tra la situazione normativa precedente all’entrata in vigore della legge – e, nella generalità dei casi, del decreto del Presidente del Consiglio dei ministri, di cui all’art. 1, comma 1 – e l’attuale disciplina consiste nel fatto che l’attività produttiva è ritenuta lecita alle condizioni previste dall’AIA riesaminata.
Quest’ultima fissa modalità e tempi per l’adeguamento dell’impianto produttivo rispetto alle regole di protezione dell’ambiente e della salute, entro il periodo considerato, con una scansione graduale degli interventi, la cui inosservanza deve ritenersi illecita e quindi perseguibile ai sensi delle leggi vigenti.
In conclusione sul punto, la norma censurata non rende lecito a posteriori ciò che prima era illecito – e tale continua ad essere ai fini degli eventuali procedimenti penali instaurati in epoca anteriore all’autorizzazione alla prosecuzione dell’attività produttiva – né “sterilizza”, sia pure temporaneamente, il comportamento futuro dell’azienda rispetto a qualunque infrazione delle norme di salvaguardia dell’ambiente e della salute. La stessa norma, piuttosto, traccia un percorso di risanamento ambientale ispirato al bilanciamento tra la tutela dei beni indicati e quella dell’occupazione, cioè tra beni tutti corrispondenti a diritti costituzionalmente protetti. La deviazione da tale percorso, non dovuta a cause di forza maggiore, implica l’insorgenza di precise responsabilità penali, civili e amministrative, che le autorità competenti sono chiamate a far valere secondo le procedure ordinarie.”.
Il resto è attualità: la magistratura tarantina, sulla scorta della pronuncia del giudice delle leggi, ritiene che la seconda AIA non sia stata rispettata, dispone nuovi sequestri ed, ovviamente, studia nuove contestazioni; il Governo interviene – data la strategicità dell’ILVA – con un nuovo incisivo decreto salva ILVA, disponendo il commissariamento amministrativo dell’azienda; indagini fiscali milanesi rivelano disponibilità estere del gruppo Riva e dispongono sequestri; il secondo decreto salva ILVA destina queste disponibilità economiche, anche prima della confisca, al risanamento aziendale.
L’emergenza produce diritto derogatorio: la crisi sembra non avere mai fine; ma la soluzione è la veduta lunga (risanare e continuare a produrre; continuare a produrre nel contempo risanando).
Sarà possibile se i poteri si faranno – nel rispetto delle rispettive prerogative e ruoli costituzionali – più dialoganti e se il diritto penale ed il diritto amministrativo verranno integrati al fine di perseguire un retto bilanciamento dei valori e degli interessi costituzionali in giuoco .

Note

1.  All’epoca non vi era certo la disciplina della VAS.

2.  Il discorso di Espenhahn, amministratore delegato di Thyssen Grupp in una assise di Confidustria – riportato dalla Repubblica del 8 maggio 2011 – sebbene a porte chiuse, è stato giudicato dalla gran parte degli imprenditori di buon senso. «Abbiamo fatto investimenti in Italia, abbiamo una governance che si inquadra nella best practice e mi trovo con una condanna a 16 anni per omicidio volontario, ditemi voi se ha un senso tutto ciò».
In realtà l’accusa muoveva dall’assunto che l’amministratore delegato, perfettamente informato, aveva deciso di posticipare gli investimenti anti-incendio.
La sentenza torinese sulla Thyssen afferma l’esistenza di “una responsabilità dolosa del vertice aziendale”: in sostanza  decidendo di non intervenire per adeguare le installazioni di sicurezza, l’amministratore delegato, prevedendo la verificazione dell’evento, ha accettato il rischio che si verificasse la morte degli addetti ad una delle linee produttive del suo stabilimento. E questo aspetto non esaurisce l’importanza della decisione: non meno significative si rivelano infatti le conclusioni dalla Corte raggiunte in relazione ad altre accuse cristallizzate nel capo di imputazione, riguardanti, tra l’altro, la colpa, per lo stesso fatto, del management aziendale e la ravvisata responsabilità dell’ente (d.lgs. n. 231/2001).
Risulta dunque evidente quanto le decisioni apicali siano doppiamente rischiose: economicamente e giuridicamente. Circostanza che aumenta il loro tasso di complessità e, così facendo, non aiuta l’ordinamento a far valere, nei fatti, la sua giusta pretesa di garantire la sicurezza dei luoghi di lavoro.
Infatti, come affermato dall’accusa, da questi processi emerge che si gestisce lo stabilimento non solo da dentro i capannoni, ma anche standone fuori, tra le mura di un consiglio di amministrazione dove si determinano le condizioni di lavoro, con spese fatte o non fatte, prevenzioni attuate o evitate per non spendere.
Il nodo rappresentato dall’esistenza del dolo eventuale viene sciolto “attribuendo esclusivo rilievo a considerazioni deontologiche eminentemente penalistiche, il cui utilizzo è giustificato dal fatto che la formale articolazione del processo decisionale viene ritenuta dalla Corte una mera sovrastruttura, finalizzata in via esclusiva ad occultare il filo rosso delle responsabilità”.
Viene dunque in rilievo una scelta che, se da un lato, altera la complessiva logica preventiva che caratterizza l’intervento ordinamentale a favore della sicurezza dei lavoratori, dall’altro rimuove un ostacolo di non poco conto per il raggiungimento di scopi general-preventivi.
Il riferimento alla decisione e ai suoi processi costringe l’interprete, nella ricerca del momento volitivo necessario per l’integrazione della fattispecie criminosa, a confrontarsi con la specifica qualità del patrimonio informativo detenuto dal decisore, con le reali indicazioni euristiche messe a sua disposizione dai plurimi centri di competenza funzionale coinvolti nel processo decisionale e, infine, con gli effettivi vincoli, della più varia natura, di cui ogni scelta deve tener conto.
In particolare – secondo la prospettiva critica nei confronti della sentenza di primo grado – sarebbero stati trascurati alcuni “elementi qualificanti l’attuale disciplina della sicurezza dei lavoratori: (i) l’incertezza con cui si confronta chiunque sia gravato di obblighi di prevenzione del rischio; (ii) la dimensione organizzativa che connota l’intero impianto regolamentare vigente in materia”.
Ad esempio con riferimento alla “sfuocata conoscenza fattuale acquisita dall’organo apicale attraverso il contributo dei dirigenti preposti al quotidiano controllo della fonte di rischio” e all’opaca “valutazione dagli stessi operata in ordine alla probabilità del verificarsi dell’evento”.
La Corte di Appello di Torino ha confermato pene severe ma ha inquadrato il fatto non come omicidio con dolo eventuale ma come omicidio commesso con colpa con previsione.

3.  Come è noto, la prevalente dottrina e la giurisprudenza della Corte Costituzionale non considerano la legge-provvedimento incompatibile, in sé e per sé, con l’assetto dei poteri stabilito dalla Costituzione. In particolare è stato ritenuto che «nessuna disposizione costituzionale […] comporta una riserva agli organi amministrativi o “esecutivi” degli atti a contenuto particolare e concreto» (ex plurimis, sentenza n. 143 del 1989).
Le leggi provvedimento devono soggiacere tuttavia «ad un rigoroso scrutinio di legittimità costituzionale per il pericolo di disparità di trattamento insito in previsioni di tipo particolare e derogatorio» (ex plurimis, sentenza n. 2 del 1997; in senso conforme, sentenza n. 20 del 2012).