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Troppa variabilità nelle performance ospedaliere: ritorniamo sui banchi di scuola?

di - 18 Luglio 2013
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Quando nel 2010 l’Organizzazione Mondiale della Sanità pubblicò il World Health Report 2000, il silente orgoglio italiano emerse dal consueto imbarazzo e si esibì in una rumorosa sfilata di dichiarazioni, citazioni e appropriazioni più o meno debite da parte di increduli e gratificati politici, amministratori e professionisti, e in un rincuorato riflesso popolare, confortato da un giudizio internazionale super partes su una rete intricata, a volte disordinata, di assistenza e tutela, troppo aleatoria per essere facilmente valutata da un comune cittadino nella capacità effettiva di rispondere alle esigenze di cura della popolazione: la WHO consegnava al nostro sistema sanitario la medaglia di argento.

Il ranking di quasi duecento paesi che ci vedeva secondi classificati, immediatamente dopo l’incomparabile Francia, si basava sul valore assunto da un indice sintetico che aggregava in un’unica misura indicatori relativi allo stato di salute (espresso da un indice di sopravvivenza alla nascita, aggiustato per disabilità[1]), alla sua distribuzione (più o meno uniforme) nella popolazione, al livello di gradimento dei servizi offerti, alla dipendenza o meno della soddisfazione dell’utenza dalla classe di reddito di appartenenza (e da altre variabili demografiche), alla dimensione della solidarietà, intesa come partecipazione al finanziamento proporzionata alla capacità di spesa, il tutto rapportato al volume di risorse economiche destinate alla salute: un indice di efficienza, quindi, con cui si proponeva una possibile misura del rapporto tra obiettivi di salute e di equità da una parte e di risorse impiegate dall’altra.

Per coloro che possono vantare onestà intellettuale, il senso di appagamento si è presto dissolto, come spesso accade, in una più attenta lettura della definizione degli indicatori utilizzati nel Report e aggregati nell’indice complesso; molti si sono invece affezionati a quella legittimazione dall’alto, scansando accuratamente la corretta interpretazione tanto dell’indicatore overall quanto degli indici semplici ed evitando di notare o menzionare il registrato slittamento dell’Italia dalla seconda all’undicesima posizione, a seconda che si tenesse o meno in considerazione la componente di spesa (a significare che il dato di performance era trascinato dal relativamente basso livello di spesa sanitaria nazionale) e la collocazione del nostro paese tra il 45esimo e il 47esimo posto nella graduatoria relativa al livello di progressività del finanziamento dei servizi sanitari, dovuto a una tutt’altro che trascurabile quota di out of pocket.

Il reale messaggio che sottostava l’apparentemente lusinghiero dato aggregato era che la spesa sanitaria italiana non poteva certo dirsi eccessiva se confrontata con quella prevista in altri paesi industrializzati a benessere diffuso, ma che, nella sua componente privata di “pay as you go” denotava la presenza, all’interno di uno schema di tutela a impronta fortemente universalistica, di significativi elementi di sperequazione nell’accesso alle prestazioni. Un messaggio tutt’altro che gratificante, quindi, tanto più se si parte dal presupposto che la giustificazione dell’intervento pubblico nel finanziamento delle prestazioni sanitarie si basa essenzialmente su principi etico-solidaristici.

In termini di anni di sopravvivenza in assenza di disabilità, possiamo dirci soddisfatti. Non si rileva una forte eterogeneità di questa misura a livello di individui e popolazioni. Viviamo a lungo a fronte di un impiego controllato di risorse economiche. Tuttavia, il nostro sistema sanitario non è equo e a livello di percezione degli assistiti non riscuote neppure un buon livello di gradimento. Questo ci diceva, tredici anni fa, il rapporto WHO, uno studio che, tra l’altro, si estendeva su un numero elevatissimo di paesi, in molti dei quali (circa un quarto) si registra un’aspettativa di vita alla nascita inferiore (a volte anche di molto) a cinquantacinque anni. Nel confronto con i paesi sviluppati (ad esempio quelli dell’occidente industrializzato) il divario nella quota di PIL destinata alla spesa sanitaria è considerevole: assumendo che, al di sotto di una certa soglia di spesa, in paesi non sviluppati e in cui il benessere presenta problemi di diffusione, differenze contenute di spesa in sanità coesistono con effetti anche significativi in termini di salute, l’attenzione della WHO ai fattori strettamente sanitari risulta essere più che motivata. Sappiamo che l’implementazione di un buon sistema sanitario ha contribuito e contribuisce indubbiamente a determinare lo stato di salute di una popolazione, ma se è condizione necessaria per la conservazione o per il recupero del benessere psicofisico, non può dirsi sufficiente a spiegare le differenze in DALE (disability-adjusted life expectancy) tra le varie nazioni. I fattori strettamente sanitari sono soltanto un determinante, e non necessariamente il più importante, dello stato di salute di una popolazione: altre variabili, quali, ad esempio, le condizioni di igiene e l’alimentazione, condizionano ampiamente il tasso di longevità. Analogamente, il DALE non può considerarsi una misura della performance del sistema sanitario, quanto meno in un contesto di sviluppo e di ridotta sperequazione economico-sociale. Ecco quindi che la WHO riconosce i benefici della dieta mediterranea, ci  avverte che non spendiamo troppo in sanità (cosa diversa dall’affermare che spendiamo poco) e che, nonostante il sistema di tassazione generale per il finanziamento delle prestazioni, accade troppo spesso che paghi chi sta male, nel momento in cui si manifesta il bisogno di cura. Stiamo forse semplificando un po’ troppo ma siamo più vicini alla realtà di quanto non fossero gli osservatori di allora.

Che voto dare, quindi, al nostro Servizio Sanitario Nazionale?

Note

1.  Il DALE prende in considerazione la disabilità come elemento ridimensionante la qualità della vita: ciò che rileva non è l’aspettativa di vita ma gli anni di sopravvivenza nel pieno delle condizioni di salute.

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