Il “processo alla scienza” nella sentenza sul terremoto dell’Aquila

Sommario: 1. Il “presunto” processo alla scienza. – 2. Le conclusioni della sentenza. – 3. La “non eccezionalità” dell’evento lesivo. – 4. Dalla “protezione dal danno” alla “protezione della minaccia di danno”: l’ingresso della scienza nell’attività amministrativa. – 5. La comunicazione del rischio: il dialogo tra scienza e amministrazione. – 6. La previsione e prevenzione del rischio sismico. – 7. La possibilità di analizzare il rischio. – 8. Le illegittimità compiute nella valutazione del rischio. – 9. Conclusioni.

 

  1. Il “presunto” processo alla scienza

Il 22 ottobre 2012 il Tribunale penale dell’Aquila, a seguito di un processo durato poco più di un anno, ha riconosciuto la colpevolezza di sette scienziati, alcuni dei quali componenti  della Commissione per la valutazione dei Grandi Rischi, sostanzialmente per due ragioni: innanzitutto per non avere valutato correttamente i rischi sismici ai quali era esposta la popolazione dell’Aquila e, in secondo luogo, per non averli comunicati nel modo appropriato così cagionando la morte e il ferimento di molte persone (il 6 aprile 2009).
Al momento della lettura del dispositivo di colpevolezza, avvenuta appunto il 22 ottobre 2012, l’opinione pubblica si è scagliata contro tale decisione arrivando addirittura a definirla un vero e proprio “processo alla scienza” diretto a sanzionare proprio l’attività di valutazione del rischio. La rivista Nature ha parlato di “verdetto ridicolo e assurdo”; Michael Alpern della ONG Union of Concerned Scientist  di “decisione assurda e pericolosa”; c’è chi ha paragonato la sentenza a un nuovo caso Galileo (l’ex ministro Clini); c’è chi ha sostenuto che l’effetto della sentenza sarà che “molti scienziati d’ora in poi terranno le bocche chiuse” (Thomas Gordon in Science) e alcuni addetti ai lavori di altri paesi hanno affermato che al posto degli imputati avrebbero detto le stesse cose (Shinichi Sakai e Wiemer direttore del servizio sismologico svizzero).
Una minoranza di scienziati si è, al contrario, schierata a favore della sentenza ritenendola corretta perché le responsabilità degli scienziati erano chiaramente emerse (Giuliani) o perché quegli scienziati avevano fallito non tanto nell’aspetto della valutazione del rischio quanto nella comunicazione del rischio stesso (Scientific american).
Qualche mese fa, precisamente il 20 gennaio 2013, sono state rese pubbliche le motivazioni della sentenza Tribunale dell’Aquila n. 380/2012 e si tratta di circa 950 pagine (948 per la precisione…).

  1. Le conclusioni della sentenza.

Partiamo immediatamente dalle conclusioni della sentenza.
Dopo un periodo di continue scosse nell’Aquilano iniziate nel giugno del 2008, il 31 marzo 2009 la Commissione Grandi Rischi, organo della protezione civile, aveva rassicurato i cittadini dell’Aquila affermando che il rischio di forti scosse di terremoto nella zona era molto basso.
Alcune persone, sulla base di tali rassicurazioni, da quel momento venivano indotte a restare in casa (invece di uscire) durante le scosse e il 6 aprile (circa una settimana dopo le rassicurazioni da parte della Commissione) restavano vittime (o comunque subivano lesioni fisiche) in conseguenza della scossa più forte.
Il giudice penale dell’Aquila riconosce la colpevolezza dei membri della Commissione proprio per aver “rassicurato” tali persone così inducendo quella modifica delle loro abitudini di vita che si ritiene essere stata determinante, purtroppo, in ordine alla loro sopravvivenza o incolumità fisica.
È opportuno chiarire, fin dall’inizio, che i giudici penali dell’Aquila non hanno condannato i membri della Commissione Grandi Rischi per non aver previsto il terremoto. Ed infatti, a parte il fatto che prevedere i terremoti è impossibile, se così fosse stato, avrebbero dovuto contestare ai membri della Commissione l’omicidio di tutte le 309 vittime del terremoto oltre alle lesione di oltre 1600 persone, mentre si sono limitati a considerare solo quelle 42 persone che avendo modificato le proprie abitudini in conseguenza delle affermazioni della Commissione Grandi Rischi erano rimaste vittime del terremoto (e di quelle 6 che, per lo stesso motivo, erano rimaste ferite).
Come si vedrà, peraltro, è stato riconosciuto l’omicidio esclusivamente di 28 persone su 42 e la lesione di 4 feriti sui 6 inizialmente considerati.
Con un lavoro certosino i giudici dell’Aquila hanno ricostruito persona per persona, grazie soprattutto alle testimonianze, quali fossero le abitudini di ciascuno in caso di terremoto (es. usciva di casa o meno), se avessero o meno conosciuto le “rassicurazioni” della Commissione Grandi Rischi e, infine, se avessero o meno modificato le proprie abitudini dopo aver ascoltato la Commissione Grandi Rischi.
Solo nell’ipotesi in cui si sia effettivamente accertato che la persona aveva l’abitudine di uscire di casa, che la persona aveva conosciuto gli esiti della Commissione Grandi rischi, che in conseguenza di tale conoscenza aveva modificato le sue abitudini (prima delle “rassicurazioni” della Commissione usciva, dopo aveva iniziato a rimanere in casa) è scattata la condanna per i membri della Commissione.
E a tale risultato si è pervenuti esclusivamente per 28 persone che sono rimaste vittime del terremoto e per 4 che sono rimaste ferite.

Il giudice dell’Aquila arriva a tali conclusioni dopo quasi 1000 pagine di motivazione. La sentenza può idealmente suddividersi nei seguenti capitoli: la descrizione del terremoto; la struttura e i compiti della Commissione; le “rassicurazioni” fornite nella riunione dalla Commissione; il concetto di valutazione di rischio; l’analisi caso per caso della situazione delle vittime, le conclusioni.
Nell’ottica dell’amministrativista, e nella prospettiva dell’analisi dei rapporti tra scienza e amministrazione in ordine al rischio ambientale, le parti più interessanti sono quelle relative alle funzioni della Commissione e all’attività di valutazione del rischio ma tali parti non si potrebbero affrontare compiutamente senza aver richiamato l’iter motivazionale della sentenza stessa e, particolarmente, gli elementi di fatto su cui esso si fonda.

  1. La “non eccezionalità” dell’evento lesivo

Avendo la sentenza ad oggetto, sotto il profilo penalistico, l’attività di valutazione del rischio ambientale (nella fattispecie quello sismico) è logico che essa si apra con una serie di dati che portano a concludere non tanto che la scossa del 6 aprile si poteva prevedere quanto piuttosto che non poteva essere considerata un evento del tutto inaspettato.
Il paragrafo secondo della sentenza riporta, infatti, una serie di dati di fatto che portano inequivocabilmente a concludere che la scossa del 6 aprile 2009 (ormai quasi quattro anni fa) di magnitudo 6.3 (IX grado della scala Mercalli) avvenuta alle ore 3.32 nella città dell’Aquila e nelle zone limitrofe (a seguito della quale perdevano la vita 309 persone, si registravano circa 1600 feriti e quasi 10.000 sfollati e veniva evacuato l’intero centro storico oltre a numerosi quartieri periferici[1]), non era e non poteva essere considerata un fatto totalmente imprevedibile.
I dati essenziali sono: la sequenza di scosse preliminari; i terremoti avvenuti in passato; la forte sismicità accertata della zona dell’Aquila; la presenza minima di edifici in cemento armato.
Innanzitutto la sentenza riporta dettagliatamente[2] la sequenza di scosse preliminari iniziate circa un anno prima (il 1 giugno 2008) che avevano preceduto la scossa principale: si era trattato di circa 600 scosse preliminari (con una media di quasi due al giorno) di intensità assai minore di quella principale (la magnitudo di tali scosse preliminari era normalmente oscillante tra 1 e 2 e con rari picchi tra 2 e 3 a fronte dei 6.3 della scossa principale).
Anche l’analisi storica dimostrava che la città dell’Aquila era stata colpita da terremoti di uguale o pari intensità a quello del 6 aprile 2009 in varie occasioni (particolarmente violenti furono i terremoti degli anni 1349, 1461 e 1703[3]).
Vi era poi la qualificazione del territorio dell’Aquila come ad elevato rischio sismico (Comuni di classe II) avvenuta alla luce dei quattro provvedimenti fondamentali che costituiscono la normativa antisismica in vigore nel nostro paese[4].
Peraltro per quei territori le normative antisismiche avevano previsto che potesse, in caso di terremoto, sviluppare un’accelerazione massima del terreno di 0,25g ed effettivamente così risulterebbe essere avvenuto per la scossa del 6 aprile.
Sulla base di questi dati la sentenza conclude quindi “la scossa delle ore 03.32 del 6.4.09 non ha rappresentato un evento anomalo, atipico o eccezionale né alla luce della storia sismica di L’Aquila, né in base alle caratteristiche sismogenetiche dell’area di riferimento, né in relazione al cd. periodo medio di ritorno, né sulla base dei dati evincibili dalle registrazioni accelerometriche, né in termini assoluti, ossia in relazione al panorama mondiale annuale di eventi di uguale intensità”[5].
E che non si trattasse di una scossa anomala o di un evento fuori scala o eccentrico lo prova il fatto che a L’Aquila si è avuto il collasso di una percentuale di edifici in cemento armato inferiore all’1% del patrimonio edilizio complessivo[6].
Peraltro la scossa del 6 aprile di magnitudo 6.3 può essere considerata di intensità media: la sentenza riporta la classificazione dell’istituto sui terremoti americano (Nationale Earthquake Information Center, U.S. Geological Survey) per cui una scossa di magnitudo 6 viene considerata “strong” ma è comunque nella scala a livello mediano (ed infatti i terremoti light sono tra i 4 e i 4.9 e ce ne sono circa 6200 l’anno, i moderate sono tra i 5 e i 5.9 e sono 800, gli strong (come appunto quello dell’Aquila) sono tra i 6 e i 6.9 e sono 120 all’anno; i major sono tra i 7 e i 7.9 e sono 18 all’anno e i great sono 8 o di più e sono 1 all’anno[7]).
La scossa del 6 aprile non può quindi essere considerata in nessun modo atipica o eccezionale.

  1. Dalla “protezione dal danno” alla “protezione dalla minaccia di danno”: l’ingresso della scienza nell’attività amministrativa

Il paragrafo terzo della sentenza si occupa, invece, specificamente della Commissione Nazionale per la previsione e la prevenzione dei grandi rischi.
Si descrive, innanzitutto, quella che si è anticipata come l’evoluzione dall’amministrazione di soccorso all’amministrazione di precauzione, quest’ultima fondata principalmente sulla previsione e sulla prevenzione del rischio.

Ed, infatti, mentre originariamente fino agli anni 80, sostanzialmente fino al terremoto in Irpinia, il sistema ordinamentale era strutturato in modo che l’amministrazione fosse pronta ad organizzare i soccorsi dopo l’evento calamitoso[8] ossia dopo il danno, nel 1981, per la prima volta, si afferma che la protezione civile concerne “la prevenzione degli eventi calamitosi”, la minaccia di danno e, quindi, il rischio.
Come si è anticipato si passò, quindi, da un sistema che prevedeva l’intervento dell’amministrazione dopo il verificarsi dell’evento (riparazione a danno avvenuto), a un sistema in cui l’amministrazione deve creare le condizioni per le quali se l’evento, comunque imprevedibile, dovesse verificarsi, i danni siano comunque limitati il più possibile (protezione dalla minaccia di danno): si può dire che entrando la valutazione del rischio si innalzava conseguentemente l’asticella della tutela e della garanzia (il cittadino viene tutelato non solo dopo l’evento lesivo di danno ma prima dello stesso; non a seguito del danno ma di fronte alla mera probabilità o alla minaccia del danno stesso) ma si innestava un elemento di forte complessità.
Il passaggio dall’amministrazione di soccorso a quella di precauzione, con la sua necessità di valutare il rischio, implicò, conseguentemente, quel coinvolgimento di esperti all’interno dell’attività amministrativa che prima mancava: l’attività di prevenzione del rischio esige, infatti, una serie di competenze tecnico-scientifiche che solo la scienza può tentare di fornire.
L’evoluzione dall’amministrazione di soccorso a quella di prevenzione o, come anche è stata chiamata, di rischio comportava, così, l’ingresso della “scienza” nell’ambito dell’attività amministrativa.
E, dunque, mentre originariamente la Commissione tecnica era composta solo da personale interno alla pubblica amministrazione, successivamente, venendo assegnate alla Commissione interministeriale tecnica le competenze in materia di “previsione e prevenzione delle calamità naturali e catastrofi” nonché di “divulgazione di ogni informazione utile ai fini della protezione della popolazione”[9] era il legislatore stesso a prevedere l’inserimento di tecnici/scienziati esterni che potessero svolgere tale attività di valutazione.
Ciò avviene sia con le normative del 1982 (con cui si istituisce la Commissione tecnico-scientifica a base interdisciplinare per lo studio dei rischi che comportano misure di protezione civile e che codifica il principio per cui l’analisi del rischio, a fini di protezione civile, diventava un compito affidato a funzionari pubblici) sia con quelle del 1984 (che prevedono che la Commissione tecnico-scientifica a base interdisciplinare venga suddivisa in 6 settori di cui uno proprio relativo al rischio sismico).
Nel 1992 la legge generale sulla protezione civile consacra il ruolo della Commissione nazionale per la previsione e la prevenzione dei grandi rischi.
Vale la pena di riportare letteralmente il testo dell’art. 9 della l. 225/1992 per il quale “la Commissione nazionale per la previsione e la prevenzione dei grandi rischi è organo consultivo e propositivo del Servizio  nazionale della protezione civile su tutte le attività di protezione civile volte alla previsione e prevenzione delle varie ipotesi di rischio. La Commissione fornisce le indicazioni necessarie per la definizione delle esigenze di studio e ricerca in materia di protezione civile, procede all’esame dei dati forniti dalle istituzioni ed organizzazioni preposte alla vigilanza degli eventi previsti dalla presente legge ed alla valutazione dei rischi connessi e degli interventi conseguenti, nonché all’esame di ogni altra questione inerente alle attività di cui alla presente legge ad essa rimesse”.
La Commissione è, quindi, come testualmente emerge, organo consultivo e propositivo, organo che appartiene all’amministrazione strumentale o di ausilio e non all’amministrazione attiva, essa, in base al diritto positivo, deve (e doveva) fornire il suo apporto all’amministrazione attiva, appunto il dipartimento di protezione civile, perché poi questo a propria volta operasse all’esterno (la scienza come servente rispetto alla funzione amministrativa…).
E questo appare un punto di importanza fondamentale dal momento che i membri della Commissione (la scienza) avrebbero dovuto limitarsi a fornire le loro indicazioni al dipartimento di protezione civile (l’amministrazione) senza esternare in alcun modo direttamente le proprie considerazioni alla società civile (come invece avvenne a seguito della riunione del 31.3.2009 analizzata nei minimi particolari dal giudice penale).

  1. La comunicazione del rischio: il dialogo della scienza con l’amministrazione

Quel che è stato messo in evidenza molto bene da alcune riviste scientifiche, e che sembra essere uno dei punti nodali, è quello che viene studiato come problema della comunicazione del rischio e che, con altre parole, potrebbe indicarsi come dell’individuazione degli interlocutori della scienza[10].
Se l’innalzamento della tutela esige la protezione non solo di fronte al danno ma anche alla semplice minaccia di danno; se la valutazione della minaccia di danno può farla solo la scienza; con chi deve rapportarsi quest’ultima? Deve esternare le proprie valutazioni in modo diretto o, invece, avere come interlocutore necessario la pubblica amministrazione?
In ogni caso così come valutare un rischio richiede una conoscenza e una preparazione specifica allo stesso modo anche comunicare con il pubblico non costituisce attività di poca importanza e richiede professionalità e competenze specifiche[11].

Il gruppo degli esperti/scienziati appartenenti alla Commissione Grandi Rischi (lasciando da parte le questioni sulla qualificazione della riunione della Commissione come Commissione in quanto tale o gruppo di esperti)[12] venne convocato dal Capo Dipartimento della Protezione Civile, Guido Bertolaso, con “l’obiettivo di fornire ai cittadini abruzzesi tutte le informazioni disponibili alla comunità scientifica sull’attività sismica delle ultime settimane” (comunicato stampa con cui si annunciava il giorno prima la riunione della Commissione).
Il tentativo di creare questo link diretto tra scienza e società civile già potrebbe qualificarsi come una violazione della normativa in vigore dal momento che la Commissione per legge è organo consultivo del dipartimento di Protezione civile e come tale deve rendere i propri pareri al dipartimento stesso e non dovrebbe esternarli direttamente.
Così come si può nutrire qualche dubbio sull’opportunità di rilasciare interviste televisive a margine della riunione stessa da parte dei membri della Commissione (ve ne furono quattro una del prof. Barberi, due del prof. De Bernardinis e due del Sindaco).
A prescindere comunque dal fatto che i membri della Commissione non avrebbero dovuto esternare nulla al pubblico, in ogni caso lascia perplessi che nell’esternare abbiano fatto affermazioni connotate da certezza (come quella del prof. Boschi riportata nel verbale “studiamo con molta attenzione l’Abruzzo e lo stato delle conoscenze ci permette di fare delle affermazioni certe” o per cui “escluderei che lo sciame sismico sia precursore di eventi” o di Barberi “questa sequenza sismica non preannuncia niente”)[13].
Si consideri poi che l’intento “rassicuratore” della commissione si capisce ancor meglio se si considera che la riunione della Commissione avvenne in una situazione di diffusa preoccupazione da parte della popolazione alimentata da voci circa forti scosse imminenti (il riferimento è da intendersi al ricercatore locale Giampaolo Giuliani che riteneva di essere in grado di prevedere, sulla base dell’analisi del gas radon di superficie, un’imminente scossa e lanciava allarmi in proposito).
Come risulta dagli atti “l’intento era quello di fornire alla popolazione aquilana, tramite il massimo organo scientifico dello Stato, senza intermediari e senza filtri, un quadro di informazioni valido ed attendibile dal punto di vista scientifico, idoneo a contrapporsi in maniera efficace agli allarmismi che, pur se privi di credibilità scientifica, si stavano diffondendo nella popolazione aquilana. Questo, del resto, fu il motivo per il quale la riunione si tenne a L’Aquila”[14].
Come correttamente affermato dalla sentenza “l’obbligo di informazione nei confronti della popolazione interessata, per quanto attiene agli scenari nazionali, grava sul Dipartimento Nazionale della Protezione Civile che attinge i dati oggetto di comunicazione dalle valutazioni della Commissione Grandi Rischi. Sulla Commissione Grandi Rischi grava un obbligo di informazione nei confronti del Dipartimento Nazionale della Protezione Civile. Tale informazione è prodromica a quella che il Dipartimento Nazionale della Protezione Civile deve curare nei confronti della popolazione e ne costituisce il presupposto necessario ed indefettibile”[15].
E tutto questo non è avvenuto nel caso di specie dal momento che vi fu informazione diretta nei confronti della popolazione interessata sia “consentendo l’accesso e la presenza nella sala di persone diverse dai componenti nominativi della Commissione Grandi Rischi e dai partecipanti alla riunione, rendendo, di fatto, immediatamente pubblici, senza alcun filtro, ogni fase della discussione e ogni argomento trattato” sia “attraverso la partecipazione alla conferenza stampa, tenuta in conclusione della riunione”[16].
E quindi si può “affermare che la Commissione, per strategia informativa e comunicativa predeterminata, non indirizzava le proprie valutazioni al Dipartimento della Protezione Civile, bensì direttamente al pubblico, per volontà manifesta dello stesso Dipartimento, cui i membri della Commissione non si sottraevano”[17].
Si procedette quindi “ad eliminare un filtro normativamente previsto tra il responso scientifico e la popolazione; di elidere il passaggio intermedio,che avrebbe reso meno efficace l’esito informativo della riunione, secondo il quale la Commissione Grandi Rischi, dopo essersi riunita, fornisce il miglior quadro informativo possibile al Dipartimento della Protezione Civile e solo dopo (previa eventuale selezione delle informazioni ritenute utili e previa necessaria individuazione delle modalità comunicative ritenute più adatte sia quanto alle forme che quanto ai mezzi di diffusione), il Dipartimento della Protezione Civile provvede ad informare la popolazione”[18].
Una volta affermato che l’interlocutore diretto della scienza deve essere l’amministrazione e non la società civile diviene consequenziale, in sintesi, arrivare ad una valutazione negativa dell’operato della Commissione.

  1. La previsione e la prevenzione del rischio sismico

Il paragrafo 4 della sentenza è forse il più importante perché chiarisce praticamente in modo testuale che nella decisione non si è trattato di fare un processo alla scienza.
È già chiarissimo al riguardo l’incipit per cui non viene contestata agli imputati “la mancata previsione del terremoto o la mancata evacuazione della città di L’Aquila o la mancata promulgazione di uno stato di allarme o un generico mancato allarme o un generico “rassicurazionismo”, ma la violazione di specifici obblighi in tema di valutazione, previsione e prevenzione del rischio sismico disciplinati dalla normativa vigente alla data del 31.3.09” oltre che “la violazione di specifici obblighi in tema di informazione chiara, corretta e completa”[19].

E, dunque, sempre con parole della sentenza “la valutazione della condotta posta in essere dagli imputati nel corso della riunione del 31.3.09 non deve, infatti, essere svolta attraverso il ricorso a regole scientifiche o attraverso la verifica della fondatezza di argomenti di carattere scientifico e del grado di condivisione che tali argomenti riscuotono nell’ambito della comunità scientifica. Ai fini del giudizio di responsabilità nel presente processo, non occorre valutare la conformità tra quanto affermato dagli imputati e quanto assunto dalla scienza ufficiale”[20].
E, quindi, più direttamente “non si tratta di “processo alla scienza” ma di processo a sette funzionari pubblici, dotati di particolari competenze e conoscenze scientifiche, chiamati per tali ragioni a comporre una commissione statale, che effettuavano una valutazione del rischio sismico in violazione delle regole di analisi, previsione e prevenzione disciplinate dalla legge”[21].
Infine “il parametro del giudizio sulla condotta degli imputati non è scientifico ma è di tipo normativo. Il giudizio di prevedibilità/evitabilità tipico della colpa, che si basa sulla cristallizzazione di giudizi ripetuti nel tempo, non ha ad oggetto il terremoto quale evento naturalistico non deterministicamente prevedibile e non evitabile; ma ha ad oggetto una attività di valutazione in termini di previsione e prevenzione del rischio, finalizzata alla tutela della vita e dell’integrità fisica, che il legislatore disciplina e demanda alla Commissione Grandi Rischi”[22].
Il punto di arrivo è che se la scienza non può prevedere il terremoto però può valutare il rischio sismico e può fornire gli elementi per una comunicazione corretta.

  1. La possibilità di analizzare il rischio

Cosa intende il giudice penale per valutazione del rischio? Cosa avrebbe dovuto fare la Commissione? Seguendo il ragionamento del Tribunale dell’Aquila essa avrebbe dovuto prevedere che in presenza di date condizioni (ad es. di mancato rispetto della normativa antisismica nella gran parte degli edifici) la probabilità di perdita di vite umane e di lesioni all’integrità fisica sarebbe stata molto alta.
Testualmente la sentenza afferma che “l’evitabilità del danno (intesa come diminuita esposizione alle conseguenze dannose per la salute collettiva e individuale) non va dunque intesa in relazione al mancato allarme (che né gli imputati né nessun altro avrebbe potuto dare poiché la scienza non dispone attualmente di conoscenze e strumenti per la previsione deterministica dei terremoti), ma in relazione alla inidonea valutazione del rischio”[23].
La sentenza chiarisce bene che “il terremoto è un evento naturale non prevedibile, il rischio è una situazione potenziale analizzabile”[24].
Il giudizio che avrebbe dovuto essere compiuto non era tanto in ordine alla probabilità o meno che si realizzasse l’evento terremoto, ma in ordine alle conseguenze che si sarebbero potute verificare in una città come L’Aquila nell’ipotesi in cui il terremoto si fosse verificato.
Come dire che posso non sapere se il Vesuvio erutterà o meno, ma posso ipotizzare che tipo di conseguenze si produrrebbero se il Vesuvio eruttasse.
Ovviamente gli imputati hanno sostenuto esattamente il contrario ossia che “non potendosi prevedere deterministicamente la localizzazione, l’esatta data e la magnitudo di una singola scossa futura, non è conseguentemente possibile analizzare il rischio, con particolare riferimento alle analisi a breve termine”[25].
Per confutare tale tesi la sentenza richiama il precedente della Cassazione riguardante Sarno per la quale “con l’ingresso delle attività di previsione delle varie ipotesi di rischio nelle attività di protezione civile, l’obbligo di prevedere i rischi è entrato a pieno titolo tra i compiti delle pubbliche amministrazioni alle quali sono attribuiti compiti in materia di protezione civile. Ne sono espressione i compiti di previsioni attribuiti agli organi centrali della Protezione Civile previsti dagli articoli 4, 8 e 9 della Legge n. 225/1992…”[26].
Il rischio viene inteso, quindi, come “probabilità di raggiungimento del livello potenziale di danno nelle condizioni di esposizione ad un determinato fattore o agente pericoloso”[27].
Sempre secondo i giudici dell’Aquila: “il parametro di riferimento nell’analisi del rischio, dunque, non è individuabile in un determinato evento futuro, ma deve essere assunto in relazione alla probabilità di raggiungimento del livello potenziale di danno nelle condizioni di esposizione ad un determinato fattore o agente pericoloso, dovendosi avere riguardo al livello potenziale di danno raggiungibile ed alle probabilità di raggiungimento di tale livello”[28].
Per spiegare il ragionamento si richiamano, poi, tre esempi indicativi: l’incendio, l’attentato terroristico e l’infarto.
A proposito del rischio di incendio la sentenza afferma che “la previsione del rischio di incendio riguarda invece l’analisi, in senso prognostico, delle possibili circostanze idonee a cagionare un incendio (le attività dell’uomo, la densità abitativa, la stagione, la conformazione orografica e morfologica del territorio, altre situazioni locali che possono aumentarne le proporzioni e la diffusività)  allo scopo di individuare quelle precauzioni che possano evitarne la verificazione in concreto o che possano diminuirne le possibilità di verificazione o diminuirne la propagazione o le conseguenze dannose”.

Con riferimento al rischio di minaccia terroristica si dice che un’eventuale organo preposto alla prevenzione potrebbe essere chiamato a rispondere non tanto per non aver previsto il concreto attentato ma semmai per non aver analizzato il rischio in modo adeguato e “in base a tutti i dati disponibili (gravità della minaccia, fonte di provenienza della stessa, pregressa conoscenza del gruppo che aveva preannunciato l’attentato, informazioni dei servizi di intelligence, luoghi di svolgimento della competizione teatro dell’annunciata minaccia, numero di spettatori e di persone coinvolte, individuazione dei possibili punti deboli nei sistemi di sicurezza approntati) allo scopo di predisporre tutte le possibili precauzioni tese a evitare il compimento della minaccia o a ridurne le possibilità di realizzazione o le possibili conseguenze dannose; informando degli esiti dell’analisi svolta, in modo corretto e completo, i responsabili istituzionali della sicurezza pubblica e i destinatari delle minacce per intraprendere le necessarie azioni preventive e determinare il livello di allarme”
Si cita, ancora, l’esempio dell’infarto “nell’elaborare la “carta del rischio”, infatti, il medico non è in grado di prevedere al paziente l’insorgenza di un infarto con riferimento al se, al quando ed al come, così come anche non è in grado di escludere con certezza tale insorgenza, ma si limita ad “analizzare il rischio”, a chiarire l’incidenza e la rilevanza dei singoli indicatori di rischio in relazione a quello specifico paziente ed a individuare cure, modifiche allo stile di vita pregresso o altre misure di precauzione per ridurre il rischio individuato o mitigare gli effetti”[29].
In conclusione, per i giudici aquilani, il rischio si può analizzare e su tale analisi ci si deve basare per predisporre tutte le precauzioni possibili.

  1. Le illegittimità compiute nella valutazione del rischio

La sentenza procede, quindi, a “verificare se gli imputati, nel corso della riunione, hanno considerato con la dovuta attenzione tutti i dati (di carattere storico, scientifico, statistico e ambientale) dei quali erano a conoscenza; se hanno valutato con il necessario approfondimento tutti gli indicatori di rischio; se, dunque, hanno condotto l’attività di previsione, prevenzione ed analisi dello specifico rischio sismico, loro normativamente imposta, in maniera seria, corretta, approfondita e secondo criteri di diligenza, prudenza e perizia”[30].
E l’analisi si sofferma in primis sulla superficialità con cui viene liquidato il problema delle sequenze sismiche precedenti o delle mappe di pericolosità sismica.
Assai singolarmente, gli stessi membri della Commissione (ma questo prova senz’altro la loro buona fede) avevano pubblicato nel dicembre 2009 un articolo in cui si riportavano i dati secondo i quali il terremoto dell’Aquila era stato ampiamente previsto (si pensi solo che nel 1999 per lo stesso INGV “l’Aquilano viene identificato come una delle quattro aree italiane che hanno la maggior probabilità di essere colpite da un terremoto distruttivo, con una potenziale magnitudo di 6.5 e superiore”[31]).
Un secondo fattore che avrebbe dovuto essere preso in considerazione è quella della vulnerabilità degli edifici: “il patrimonio edilizio della città di L’Aquila è caratterizzato da un centro storico esteso, di origine medioevale ed è costellato di edifici in muratura ed in cemento armato, costruiti prima che entrasse in vigore la legge antisismica n. 64/74 e pertanto non rispondenti ad adeguati criteri antisismici”[32].
Molti dei Commissari avevano personalmente provveduto alla redazione del cd. Rapporto Barberi, ossia il “Censimento di vulnerabilità degli edifici pubblici, strategici e speciali nelle regioni Abruzzo, Basilicata, Calabria, Campania, Molise, Puglia e Sicilia”, promosso dal Dipartimento Nazionale della Protezione Civile, dal Ministero del Lavoro e della Previdenza sociale, dal Gruppo Nazionale per la Difesa dei Terremoti – Consiglio Nazionale delle Ricerche dal quale emergeva che nella città di L’Aquila, su n. 752 edifici in muratura sottoposti a verifica, n. 555 rientravano nella fascia di vulnerabilità medio – alta, in quanto presentavano “muratura di cattiva qualità con orizzontamenti deformabili o con orizzantamenti rigidi”[33].
Molto interessante è il discorso sul SIGE Sistema Informativo per la Gestione dell’Emergenza, in uso alla Protezione Civile: “il S.I.G.E. è un software realizzato nel 1997 che consente alla Sala Operativa della Protezione Civile, una volta che l’I.N.G.V. ha comunicato i dati di una singola scossa di terremoto (le coordinate dell’ipocentro e la magnitudo), di effettuare una “stima dei danni attesi” in tempo reale”.
Il software di funzionamento del S.I.G.E. opera su “un database di vulnerabilità degli edifici presente per tutti gli 8.000 Comuni italiani … basato sui dati essenzialmente ricavati dal censimento ISTAT”[34].
Orbene “il S.I.G.E. era stato “fatto girare” qualche minuto dopo le ore 03.32 (non appena l’I.N.G.V. aveva comunicato i parametri necessari) e, sulla base dei dati concernenti l’analisi delle caratteristiche di sismicità del territorio, la qualità del patrimonio edilizio, la vulnerabilità delle costruzioni e la densità abitativa,aveva fornito, già “mezz’ora dopo il terremoto”, un’indicazione del “danno atteso” che si è poi rivelata coincidente con i danni effettivamente verificatisi”[35].
In sintesi gli imputati affermano che: a) lo sciame sismico che interessava L’Aquila da circa tre mesi era un fenomeno geologico normale, non pericoloso, non preoccupante; b) la situazione era favorevole perché il progressivo scarico di energia, dovuto al protrarsi dello sciame, allontanava il pericolo di una forte scossa; c) l’unica forma possibile di prevenzione dei terremoti era l’adeguamento sismico degli edifici; d) lo scenario d’evento, in relazione ai danni che c’erano da attendersi, prefigurava danni limitati alle parti fragili e non strutturali degli edifici; e) lo sciame sismico in corso non preannunciava niente e non costituiva affatto fenomeno precursore di un forte terremoto; f) aumenti di magnitudo all’interno dello sciame erano estremamente improbabili; g) i forti terremoti in Abruzzo hanno periodi di ritorno molto lunghi, pari a 2 –3.000 anni, ed era quindi improbabile il rischio a breve di una forte scossa come quella del 1703 pur se non si poteva escludere in maniera assoluta, secondo i giudici aquilani “procedevano ad un’analisi del rischio assolutamente approssimativa, generica ed inefficace”[36].

Ed infatti “parcellizzando e frazionando i singoli indicatori di rischio sismico (…) deve riconoscersi che essi non sarebbero stati granché indicativi[37]( …) ed infatti “questi elementi, analizzati singolarmente e da ciascun singolo membro della Commissione senza il sostegno degli altri membri, senza l’ausilio della competenza altrui, senza una visione d’insieme, sarebbero, forse, potuti sembrare poco comprensibili o poco significativi: agli occhi del geologo balza più evidente la magnitudo dello sciame piuttosto che la vulnerabilità del patrimonio edilizio; l’esperto in tema di protezione civile ha più familiarità con i profili della gestione dell’emergenza piuttosto che con i profili tecnici circa l’analisi dei fenomeni precursori. Ma è appunto la valutazione complessiva, in seno a un organo collegiale formato dai migliori esperti e funzionalmente volto alla corretta informazione, che conferisce (che avrebbe dovuto conferire) a ogni singolo elemento la dignità di significativo indicatore di rischio nel caso concreto. È appunto per questo che la legge prevede che la Commissione abbia una composizione eterogenea”[38]

  1. Conclusioni

Un punto che pare assodato è che nell’incertezza l’amministrazione possa (e in alcuni casi) debba agire: nel caso di specie se gli esperti avessero fornito i dati in loro possesso l’amministrazione avrebbe dovuto comunicare il rischio ai cittadini aquilani  (se l’avesse fatto probabilmente si sarebbero evitate molti decessi o lesioni).
Un secondo punto è che l’amministrazione deve necessariamente (e sempre più spesso) servirsi della scienza per arrivare alle sue determinazioni: nel caso di specie il Dipartimento di protezione civile avrebbe dovuto interpellare la Commissione Grandi Rischi e sulla base delle risultanze di questa attivare la comunicazione del rischio.
Il punto più delicato è quello del sindacato sulla valutazione scientifica: sembra, infatti, essere crollato quel mito della insindacabilità che un tempo si riferiva alla discrezionalità dell’amministrazione in quanto tale e poi si è progressivamente estesa alla discrezionalità tecnica.
La sentenza ci ha dimostrato che la valutazione scientifica può essere sindacabile: il fatto di essere scienziato non significa essere per questo al riparo da ogni tipo di responsabilità…
Certo il parametro di sindacato dovrà essere il più possibile flessibile sia per non indurre al silenzio la scienza sia tenendo presenti le condizioni nelle quali spesso viene effettuata la valutazione scientifica.
E, dunque, non è impossibile formulare dei giudizi di valore sulle condotte della scienza: anche uno scienziato può essere approssimativo, frettoloso e apodittico; anche uno scienziato può sbagliare (come tutti…). Altrimenti si avrebbe l’effetto perverso per cui ad uno scienziato per il solo fatto di essere uno scienziato non si possa contestare nulla…
Nel caso di specie sembra di poter concludere che, a prescindere da ogni altra considerazione e salvo gli esiti del giudizio di appello, si sia riscontrata una doppia violazione: quella della regola per cui in un contesto di incertezza non si possono fare affermazioni perentorie e definitive e quella per cui il rischio deve essere comunicato dalla scienza all’amministrazione e poi da questa alla società civile.
E questo sembra essere ciò che hanno fatto i giudici dell’Aquila forse in modo più approfondito e convincente di quanto non era stato fatto dalla stessa Cassazione nel caso Sarno.
Come si ricorderà, il 5 maggio 1998 per una serie di colate di fango trovarono la morte 137 persone. Al Sindaco, in quanto organo di protezione civile, venne addebitata la colpa di non aver valutato correttamente il rischio. Sia la sentenza di primo grado (Trib. Nocera inferiore, 3 giugno 2004) sia quella d’appello (Corte App. Salerno, 6 ottobre 2008) ne esclusero la colpevolezza ma la Cassazione[39] la riconobbe sulla base di questo ragionamento: “le regole che disciplinano l’elemento soggettivo hanno natura non di verifica a posteriori della riconducibilità di un evento alla condotta di un uomo ma funzione precauzionale e la precauzione richiede che si adottino certe cautele anche se è dubbio che la mancata adozione provochi eventi dannosi”. Così “il comportamento diligente è quello prospetticamente capace di fronteggiare le conseguenze più gravi di un fenomeno ricorrente: non quello che si adagia su esperienze precedenti”.
La sentenza è stata criticata dalla dottrina perché troppo precauzionale[40] e probabilmente le censure in quel caso colgono nel segno ma nella vicenda dell’Aquila, alla luce delle 948 pagine di motivazione, sembra quantomeno superficiale il giudizio di “verdetto ridicolo e assurdo” o di nuovo processo a Galileo che si sono riportate all’inizio.
Forse i vari esponenti del mondo scientifico prima di esprimere un giudizio sulla sentenza avrebbero dovuto leggere la motivazione: non avendolo fatto sembrano essere singolarmente incorsi nella stessa superficialità che i giudici dell’Aquila hanno contestato ai loro colleghi.

Note

1.  Cfr. p. 26.

2.  Cfr. pp.28-39.

3.  Cfr. p.43.

4.  Ci si riferisce a: 1) il r.d. 2105/1937 in cui i Comuni italiani vengono distinti in Comuni tranquilli (prima categoria) e Comuni pericolosi (seconda categoria e tra essi L’Aquila); 2) la l. 1684/1962 che prevede particolari prescrizioni costruttive differenziate ovviamente a seconda della sismicità delle zone e del tipo di destinazione degli edifici (edilizia ordinaria o speciale come viadotti e ponti); 3) la l. 64/1974 con ulteriori prescrizioni (particolarmente importanti quelle del Ministero dei Lavori Pubblici del 1996); 4) alcune OPCM (3274/2003 e 3441/2005) e le norme tecniche per le costruzioni del 2008 (p. 51).

5.  Cfr. p.57.

6.  Cfr. p. 58.

7.  Cfr. p.48.

8.  E così nella prima legge sulla protezione civile (la l. 996/70) anche la Commissione tecnica era composta dai rappresentanti delle amministrazioni dello Stato e di altri enti pubblici interessati.

9.  Cfr. Art. 1 d.p.r. 66/81.

10.  Sul punto si v. M. LOMBARDI, Rischio ambientale e comunicazione, Franco Angeli, 2007.

11.  E, in effetti, quando il 30 marzo 2009 la sala operativa unificata permanente della protezione civile con un suo comunicato affermò che nell’aquilano “non sono previste altre scosse sismiche di alcuna intensità” e che “tutte le informazioni diffuse di altro contenuto sono da ritenersi false e prive di ogni fondamento” giustamente l’allora capo dipartimento della Protezione civile affermò “quando devono fare dei comunicati che parlassero con il mio ufficio stampa che ha ormai la laurea honoris causa in informazione e emergenza e quindi sanno come ci si comporta perché se tra due ore c’è una scossa di terremoto ehh che dicono?” (p. 150).

12.  Per la difesa degli imputati l’illegittima composizione della Commissione comporterebbe nullità dell’atto relativo e quindi non imputabilità degli stessi.

13.  Indicativa al riguardo è la domanda che viene posta dal pubblico Ministero nel corso del giudizio: “perché usa un linguaggio così sicuro, non preannuncia niente quando invece le affermazioni di tipo probabilistico richiederebbero un linguaggio un po’ più cauto, un po’ meno netto e quindi non le sembra di esprimersi e dare certezze quando certezze non si possono dare? (p. 142).

14.  Cfr. p.154.

15.  Cfr. p. 203.

16.  Cfr. p. 204.

17.  Cfr. p. 206.

18.  Cfr. p. 212.

19.  Cfr. p. 215.

20.  Cfr. p. 216.

21.  Cfr. p. 217.

22.  Cfr. p. 218.

23.  Cfr. p. 293.

24.  Cfr. p. 294.

25.  Cfr. p. 305.

26.  Corte Cass., n. 16761/2010.

27.  Cfr. p. 306.

28.  Cfr. p. 308.

29.  Cfr. p. 311.

30.  Cfr. p.312.

31.  Cfr. p. 326.

32.  Cfr. p. 339.

33.  Cfr. p. 340.

34.  Cfr. p. 360.

35.  Cfr. p. 361

36.  Cfr. p. 363

37.   “Di per sé uno sciame sismico, di magnitudo moderata, in una zona peraltro nota per la sua sismicità, non presenta evidenze di imminente pericolosità; dati di tipo storico e previsioni di ordine statistico sulla ricorrenza in una certa area di forti terremoti non rappresentano, di per sé, immediati indicatori di rischio, ma costituiscono solo linee guida per disegnare una mappa di pericolosità del territorio utile per le prescrizioni normative in materia di costruzioni; una scossa di magnitudo 4.1, come quella verificatasi nel pomeriggio del 30.3.09, singolarmente considerata fuori dal contesto di riferimento, è scarsamente significativa e ha un’elevatissima percentuale di fallibilità quale indicatore prodromico di forti successive scosse; danni su parti fragili non strutturali, patiti da immobili in muratura o da immobili in cemento armato costruiti negli anni ’60, a seguito di uno sciame sismico prolungato ma di bassa magnitudo, non sono particolarmente allarmanti ma rappresentano l’occasione per utili moniti sulla necessità di mitigare la vulnerabilità di un patrimonio edilizio notoriamente fragile”.

38.  Cfr. p. 365.

39.  Corte Cass., IV, 11 marzo 2010, n. 16761 in Foro it., II, 482 (con nota di A. MERLO).

40.  In dottrina PULITANÒ, Colpa ed evoluzione del sapere scientifico, in Dir. pen. e proc., 2008, 647; RUGA RIVA, Principio di precauzione e diritto penale. Genesi e contenuto della colpa in contesti di incertezza scientifica, in Scritti in onore di G.Marinucci, Milano, 2006, II, 1473 che rimproverano alla giurisprudenza di concedere troppo a suggestioni precauzionistiche e, in senso contrario, ATTILI, L’agente modello nell’era della complessità: tramonto, eclissi o trasfigurazione?, in Riv. it. dir. proc. pen., 2006, 1278 e PIERGALLINI, Il paradigma della colpa nell’età del rischio: prove di resistenza del tipo, id., 2005, 1684.