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Machiavelli, “Il Principe”, l’economia

di - 5 Luglio 2013
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D. Questo ci racconta anche il presente. Se pensiamo alla debolezza nella capacità di innovazione che stiamo vivendo e soprattutto alla debolezza istituzionale forse certe fragilità economiche sono spiegabili ancora con quei criteri.
R. Il contesto è totalmente diverso. Nel caso dell’economia italiana, la mia interpretazione è che il ristagno ormai ventennale nella produttività – cioè nella capacità di innovare, di rendere le produzioni qualitativamente migliori – dipende da quattro fattori: le carenze istituzionali, nel diritto dell’economia; la finanza pubblica in squilibrio; una concorrenza che scema; infine, una risposta lenta, inadeguata, dei produttori italiani.

D. Può aiutarci o no la lezione della storia? Lei ha accennato che nel ‘900, prima con Giolitti, poi negli anni ’50 e ’60, siamo riusciti a invertire i lunghi negativi cicli. Potremo dirci: proviamo a ripercorrere quelle strade.
R. Dall’Unità abbiamo avuto due fasi di vera crescita economica. La prima è quella giolittiana, dagli anni iniziali del ‘900 alla prima guerra, la seconda è il cosiddetto “miracolo economico” del 1950-1970. Abbiamo anche avuto tre fasi di regresso o di ristagno: Crispi, nello scorcio dell’800; il fascismo regime, dal 1925 al disastro della guerra; infine, gli ultimi venti anni. Nelle due fasi positive cultura, istituzioni e politica si sono mosse nella direzione acconcia. Hanno fatto sì che la finanza pubblica fosse in equilibrio, le infrastrutture fisiche e giuridiche adeguate, la concorrenza operante. La risposta dei produttori italiani, premuti dalla concorrenza, consentì loro di esprimersi al meglio in termini di produttività. L’opposto è accaduto nelle tre fasi negative. Una terza fase positiva, machiavellicamente, può riavviarsi solo a partire da cultura, istituzioni e politica, perché il problema economico attuale del Paese è davvero serio, radicato nella società civile, oltre che nello Stato.

D. Anche nel ‘500 e ‘600 fummo ostacolati dai produttori di grandi stati nazionali che beneficiavano di istituzioni molto più solide delle nostre.
R. Machiavelli non l’ha visto fino in fondo, ma l’aveva intuito. Tra l’altro vi fu l’equivoco secondo cui alla pace dei trattati di Cateau Cambrésis, nel 1559, sarebbe seguita una qualche ripresa, quella che Cipolla chiamò “estate di S. Martino” dell’economia italiana. Ma sulla base dei dati nuovi quella ripresa appare modesta e comunque insufficiente a rovesciare la tendenza negativa secolare.

D. Mancò lo Stato Moderno, espressione che lei ha usato nella conversazione dell’8 maggio a Firenze. Ma sulla grande difficoltà con cui l’economia di mercato capitalistica si è affermata nel nostro paese influì un elemento antropologico?
R. Lo escluderei. Quando noi economisti ci rifugiamo nell’antropologia vuol dire che non abbiamo più cartucce. Vi è un problema più di fondo. La Penisola in cui viviamo, per più versi meravigliosa, è povera di risorse: sotto il suolo nulla (si pensi alla carenza di fonti di energia), sopra il suolo poco (montagne, terra per due terzi poco fertile). La Penisola, inoltre, per ragioni che affondano nel passato lontanissimo, è densamente popolata. Quindi i suoi abitanti continueranno a vivere una difficoltà oggettiva, strutturale. Dall’altro lato vi è stata una frantumazione politico-istituzionale, storicamente non meno profonda. Per il Centro-Nord parliamo di “rifeudalizzazione”, in forme naturalmente diverse da quelle precedenti l’anno 1000: una contaminazione fra spunti di borghesia e quei “castella” che Machiavelli aborriva. Ma nel Sud Federico II fece la scelta di uno Stato accentrato, con margini ristretti di autonomia per le città. Nel Meridione, quindi, come diceva Cipolla, “fu colpa di Federico”: prevalse un assetto anche dal punto di vista giuridico-istituzionale-burocratico definibile feudalesimo, che solo i francesi all’inizio dell’800, almeno sul piano formale, cancellarono.
L’aspetto politico istituzionale è assolutamente centrale per ogni economia. Machiavelli l’aveva capito perfettamente.

D. Mi sembra che qualche germe di ottimismo sia possibile, per l’oggi.
R. Certamente sì. L’economia italiana resta potenzialmente dotata. Ha tutti gli ingredienti d’ordine economico per tornare a crescere. Ha il risparmio, quattro milioni di imprese, conosce la tecnologia, dispone di forza lavoro qualificata. Inoltre, la società italiana ha ancora bisogni privati e pubblici in larga misura da soddisfare.

D. La Germania viene vista quasi come una nemica.
R. Sono molto critico di queste posizioni. Il problema economico italiano è radicato nella società. È risolvibile, ma è tutto nostro. Quindi non considererei un problema la Cancelliera Merkel, della quale credo di comprendere la difficoltà politica nell’atteggiarsi nei confronti dei propri elettori. Certo, le chiederei dov’è il vantaggio per la Germania, per il suo stesso governo, nel permettere che l’economia tedesca cada in recessione. Ma questa è questione del tutto diversa dal problema, strutturale, di produttività, delle imprese italiane. Cosa c’entra la Germania se i produttori italiani non sono più in grado – come diceva Carlo Cipolla – di “produrre cose che piacciano al mondo”, l’elemento distintivo, cruciale, oggi come nel ‘500?
Alla risposta spontanea, produttivistica, delle imprese deve naturalmente unirsi una politica economica degna di questo nome.

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