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È possibile semplificare?

di - 1 Giugno 2013
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1. Semplificare il sistema amministrativo italiano è stato un obiettivo perseguito da molti Governi negli ultimi anni, e da ultimo, ripetutamente, dal Governo Monti. Nessun vero risultato è stato ottenuto. La ragione è semplice ed è esplicitamente enunciata nella relazione al d.d.l. Semplificazioni C-5610 con queste parole:

 “Nella consapevolezza di quanto il tema sia delicato, si è operato in modo che le semplificazioni, tutte concordate con il competente Ministero, riguardino esclusivamente adempimenti formali (la cosiddetta “burocrazia del lavoro”) nonché oneri informativi, ma non tocchino gli aspetti sostanziali della sicurezza, la cui effettività viene anzi rafforzata, in quanto la riduzione degli oneri amministrativi connessi agli adempimenti formali consentirà di liberare risorse per assicurare il bene supremo costituito dalla tutela della salute e della sicurezza dei lavoratori. In sintesi, “meno carta e più sicurezza”. Inoltre, le misure semplificative agevoleranno le imprese nell’individuazione degli elementi essenziali da indicare nella predisposizione della documentazione ….”

Appare di piana evidenza che la parola “semplificazione” è stata interpretata  in senso molto restrittivo, vale a dire come mera riduzione degli oneri burocratici materiali, grazie all’uso di strumenti di comunicazione tra cittadini e pubbliche amministrazioni diversi, più avanzati della carta: tipicamente, di tecnologie digitali. I rapporti sostanziali tra soggetti pubblici e privati sono rimasti immutati.

2. Il problema è serissimo. Così intesa, la semplificazione non ha futuro. Non lo ha perché, se anche si ottenesse il risultato di azzerare completamente i tempi di comunicazione tra soggetti pubblici e privati, rimarrebbe immutato il sistema dei rapporti sostanziali: resterebbe ferma – come in effetti accade in seguito alle varie leggi di semplificazione – la necessità di un numero sterminato di adempimenti, controlli, verifiche, valutazioni, di interventi umani, insomma, che richiedono tempi indeterminabili ex ante. Se si deve fare, ad es., una conferenza di servizi, è necessario che tutti i rappresentanti delle amministrazioni coinvolte studino la pratica, discutano e cerchino un accordo. Se, poi, vi è un problema di competenze statali e regionali, i tempi possono diventare epocali.

Ma la realtà è un’altra, ancora più difficile. Chi, con mente scevra di pregiudizi, studi una legge qualsiasi nell’ottica di una sua semplificazione, non tarda molto ad accorgersi che, a diritto sostanziale invariato, quasi sempre è stato fatto tutto il possibile. Ma con utilità reale scarsa. Sono paradigmatici gli esempi della SCIA e della liberalizzazione del commercio.

La SCIA è la comunicazione che una certa attività verrà iniziata. Fatta la comunicazione con tutto il corredo di documenti e di dichiarazioni asseverate che la legge sostanziale richiede, si può cominciare il lavoro. La semplificazione è evidente e straordinaria. Sennonché entro 60 giorni l’amministrazione cui la comunicazione è indirizzata deve controllare tutto e intervenire per reprimere e ripristinare la legalità. Come è palese, questo rende la SCIA troppo rischiosa e quindi pressoché inutile: si può ricorrere ad essa solo in situazione assolutamente semplici.

La liberalizzazione del commercio è stata proclamata da una delle prime leggi del Governo Monti. Liberalizzato è stato però solo il commercio in quanto tale. Tutto il regime amministrativo che accompagna l’attività commerciale – regolamenti edilizi, sicurezza, igiene etc. etc. – non sono sfiorati dalla liberalizzazione. Che quindi non ha mai raggiunto la metà del valore sociale ed imprenditoriale che dovrebbe avere.

Tutto ciò è aggravato dalla presenza di normative concorrenti, statali e regionali. Questo concorso di fonti non soltanto dà spesso ingresso al contenzioso, anche di rango costituzionale, ma costringe a defatiganti procedure lato sensu di conciliazione, per trovare una soluzione condivisa.

3. Il problema della semplificazione non è dunque quello delle procedure, al quale certamente molte energie sono state dedicate. Il tema da affrontare sta a monte, ed è quello del diritto sostanziale, vale a dire, dell’assetto di interessi pubblici che, in base alle diverse leggi, possono essere coinvolti in una determinata iniziativa. Le leggi, si noti, al plurale: perché un numero n di leggi o articoli di leggi o di altri atti di normazione secondaria possono riguardare l’ambiente, l’acqua, i rifiuti; un altro numero n di norme e precetti può riguardare la tutela del patrimonio storico, archeologico, artistico, etc. etc. Basta leggere l’art. l del d.l. n 1/2012  per avere un quadro univoco  delle materie e degli interessi pubblici che possono essere coinvolti da un’iniziativa qualsiasi, e che, quindi, devono essere tutelati attraverso una previa autorizzazione amministrativa. Da questa moltitudine di interessi pubblici concorrenti e configgenti, ma comunque condizionanti la possibilità di intraprendere un’attività, discende la complessità che nessuna normativa di ordine procedimentale può contenere.

4. Né si possono dimenticare le norme tecniche ed i problemi che pongono.

L’espressione “norme tecniche” esprime un concetto molto complesso. Anzitutto è usata praticamente solo al plurale, come se una singola “norma tecnica” non potesse esistere. Sembra poi contraddittoria: per loro natura le norme sono giuridiche, nel senso che hanno conseguenze ed effetti immediati sui comportamenti umani: in ciò sta la loro giuridicità. La tecnica, come l’etimologia insegna, esprime una regola del fare secondo un’arte. Le “norme tecniche” sono dunque norme che disciplinano un fare secondo le regole dell’arte con l’efficacia giuridica cui si è accennato.

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