Nuove frontiere per la responsabilità civile della pubblica amministrazione

Il tema che mi è stato proposto era già in sé difficile; dopo aver sentito le relazioni di ieri è diventato difficilissimo, perché ieri si è parlato, in termini estremamente incisivi e sotto svariati punti di vista, della politica economica di questo Paese e delle difficoltà che incontra sotto diversi profili,  primo fra tutti forse questo debito mostruoso che abbiamo accumulato ed è stato palleggiato avanti e indietro in giro per il mondo. Sono problemi colossali.

Di fronte a questo, pensare di poter parlare in termini tecnici dell’azione risarcitoria suscita quantomeno il sorriso. Mi sono trovato ieri in grande  imbarazzo e in grande imbarazzo sono ancora oggi. Cercherò quindi di dire qualche cosa di diverso rispetto a ciò che avevo pensato, cioè rispetto a un ragionamento e ad un linguaggio tecnico che penso di saper usare un poco. Cercherò di mettere in luce il profilo politico della trasformazione giuridica che c’è stata nel processo amministrativo. Credo infatti  che questa trasformazione possa indurre una componente di fiducia nei confronti del futuro, perché c’è finalmente uno strumento giuridico e giudiziario più efficiente.

Bisogna partire da una premessa ben chiara: il codice del processo amministrativo ha ucciso la giustizia amministrativa tradizionale, la giustizia amministrativa del 1890, della legge del 1924, del 1971, e persino quella dell’ultima legge di riforma del 2000. Quello che il codice ha fatto è non una nuova giustizia amministrativa, ma un diritto amministrativo nuovo, sul quale sono state calibrate le novità del rito, apparentemente di limitato rilievo. Certo, il ricorso per l’annullamento di un provvedimento è ancora soggetto ad un termine di decadenza; certo continuano ad esserci due gradi di giudizio; l’esecuzione si chiama ancora ottemperanza. Ma la novità emerge in tutto il suo peso quando si legge l’art. 7, che disegna l’oggetto, se così si può dire, della giurisdizione amministrativa: “Sono devolute alla giurisdizione amministrativa le controversie, nelle quali si faccia questione di interessi legittimi e, nelle particolari materie indicate dalla legge, di diritti soggettivi, concernenti l’esercizio o il mancato esercizio del potere amministrativo, riguardanti provvedimenti, atti, accordi o comportamenti riconducibili anche mediatamente all’esercizio di tale potere, posti in essere da pubbliche amministrazioni”. Di fronte a queste parole, noi dobbiamo onestamente riconoscere che questa non è più una giurisdizione generale di legittimità, ma è una giurisdizione generale in tutto e per tutto, o quasi, uguale a quella del giudice ordinario. È un dato di fatto. Bisogna avere il coraggio di guardare questa realtà negli occhi, perché questo codice può indurre una serie di risultati positivi ai quali con il vecchio sistema di giustizia amministrativa non si sarebbe mai potuti arrivare. Nel bene e nel male, con la giustizia amministrativa c’era il vincolo perentorio dell’annullamento, c’era il vincolo perentorio della pura legittimità. Con il codice del processo amministrativo  non dico che si possa pronunciare nel merito;  ma quando si parla di mancato esercizio del potere che può essere sindacato dal giudice amministrativo, mi domando che cosa manca a un discussione nel merito del mancato esercizio del potere. Certo, il giudice amministrativo non può dire che si sarebbe dovuto fare nel modo “A” anziché nel modo “B”; ma il solo fatto che si possa dire “tu dovevi fare qualcosa, e male hai fatto a non farla” con la possibilità di condannare l’amministrazione per questa inerzia, mi fa pensare che il gioco giudiziario, l’ingresso del giudice amministrativo e dell’azione giudiziaria nel sistema economico sia molto chiaro e molto forte.

Il problema che sono chiamato a discutere – la responsabilità civile della pubblica amministrazione – è un tema che è stato studiato per decenni dal punto di vista della risarcibilità degli interessi legittimi (ne sono stato un paladino: quando avevo ventisette anni ho scritto un articolo sull’esecuzione del giudicato dove dicevo che laddove il giudicato non fosse stato più eseguibile non si poteva che ricorrere al risarcimento del danno e quindi al risarcimento degli interessi legittimi. La Cassazione mi ha dato ragione solo nel 1999, mentre sono passati alcuni anni e alcune profonde ingiustizie che si sono commesse in questo Paese) ma il risultato è che non sappiamo come si debba costruire giuridicamente la responsabilità civile della pubblica amministrazione. La ragione è molto precisa: noi siamo abituati a un giudizio di legittimità con il quale possiamo benissimo sindacare la conformità o meno di un provvedimento alla legge, ma non sappiamo individuare, misurare la colpa: dove sta la colpa? Si tratta infatti di illecito aquiliano, non di certo contrattuale (ciò non avrebbe senso comune).

Vi propongo questa riflessione: noi parliamo di un sistema – la pubblica amministrazione – che è in tutto e per tutto paragonabile a qualsiasi grande organismo privato, a qualunque grande impresa; c’è una differenza di fondo, naturalmente: l’impresa lavora per produrre reddito; la pubblica amministrazione si preoccupa di curare l’interesse pubblico, non in astratto, ma nella concretezza della vita, nei rapporti dei cittadini con la collettività. Questo e non altro significa il fatto che l’amministrazione deve autorizzare, deve concedere, deve fare. Come ogni impresa, dunque, l’amministrazione opera attraverso le persone che la compongono.

Se si muove dalla premessa che la pubblica amministrazione opera attraverso le persone e che le persone danno il contributo che rende l’azione di Filippo Satta azione del Comune, poniamo, di Barletta, si può chiarire quali sono i comportamenti che si sono concretamente tenuti, quelli che si sarebbero dovuti tenere e se sono o meno conformi alla regola.

Gli studi di sociologia delle grandi organizzazioni da decenni hanno messo in luce che, per poter funzionare, ogni organismo ha bisogno di regole di comportamento cui le persone che lavorano al suo interno si devono attenere. Sono le regole più varie, spesso non scritte. Ad esempio, parlavo tempo fa con un amico che lavora presso la filiale italiana di una grande multinazionale, il quale mi raccontava che certi contratti non possono neppure essere presi in considerazione senza l’autorizzazione della casa madre: c’è una regola interna che dice che contratti di valore superiore a X devono essere autorizzati all’interno dalla società madre senza che ci sia nessuna regola scritta, senza che nulla vieti il non farlo. Ma questo si deve fare, nonostante sia in pieno contrasto con l’autonomia di cui ex lege gode qualunque persona giuridica.

Se voi prendete la legge 241 che ha prima evocato il Presidente Giacchetti, voi non potete non osservare che questa legge detta una serie di criteri che devono guidare l’attività amministrativa. Ma questi criteri che guidano l’attività amministrativa sono puramente e semplicemente i criteri che devono guidare le persone che lavorano nelle pubbliche amministrazioni, per consentire loro di esistere e agire: soltanto i loro comportamenti, le loro decisioni, i loro tempi sono quelli che costruiscono l’azione concreta della pubblica amministrazione.

Io ritengo che ci sia molto lavoro da fare su questo terreno. Per chiarire bene di che cosa si tratta, è utile fermare per un momento l’attenzione sulla violazione di legge. Che cos’è la violazione di legge? Parrebbe essere una scialba figura. Può essere invece diverse cose. Sul piano puramente formale, Tizio ha preso una decisione interpretando la legge X in un modo che poi il giudice amministrativo, interpretando in modo diverso, non condivide. Ma c’è differenza se io mi trovo a dovermi misurare per la prima volta con una legge che devo interpretare, o se mi trovo davanti all’esistenza di conflitti di giurisprudenza, o se addirittura mi prendo la briga di dire “c’è un orientamento giurisprudenziale dominante, ma ritengo di dover procedere diversamente”. In tutti i tre casi il TAR accoglie il ricorso, dichiara illegittimo il provvedimento dell’amministrazione. Sono però tre situazioni assai diverse. Una è quella in cui siamo vicini all’eccesso di potere: se c’è giurisprudenza dominante, perché l’amministrazione la contraddice? Non sta né in cielo né in terra. Ma se c’è incertezza sull’interpretazione della legge, come si fa a dire che c’è illecito civile se si aderisce ad un’interpretazione piuttosto che a un’altra? Dico questo perché qui c’è una “linea di fede”, come si dice in mare, che indica la direzione in cui l’indagine si può svolgere: si può andare a cercare se l’amministrazione, attraverso le persone, ha seguito quelle regole di comportamento, quei criteri che la possono guidare meglio alla decisione che deve assumere. Questo vuol dire che bisogna studiare. È utile a tal fine fermare l’attenzione sull’art. 1, co. 44 della legge anticorruzione n. 190/2012, che sostituisce l’articolo 54 del D.lgs. n.165/2001:

Art. 54. Codice di comportamento. Il Governo definisce un codice di comportamento dei  dipendenti delle pubbliche amministrazioni al fine di assicurare la qualità dei servizi, la prevenzione dei  fenomeni  di  corruzione, il rispetto dei doveri costituzionali di diligenza, lealtà, imparzialità e  servizio esclusivo alla cura dell’interesse pubblico”.

Noi dunque già  abbiamo una legge, importante perché il problema della corruzione è gravissimo, che espressamente prevede che il Governo adotti un codice di comportamento per garantire il corretto funzionamento della pubblica amministrazione. A me pare che questa sia un’apertura fortissima per trovare un meccanismo di valutazione dell’attività delle amministrazioni e delle persone che lavorano in essa, in grado di condurre all’identificazione di parametri certi, non arbitrari, per identificare l’illecito civile in cui essa poi incorre. Devo qui dire una cosa che farà ridere il mio amico Giacchetti: mi dispiace, l’ eccesso di potere non è morto! L’eccesso di potere si ripresenta, perché ciò di cui stiamo parlando è l’eccesso di potere in forma viva, cioè non come modello astratto, ma come regola di comportamento violata. Ha quindi una sua oggettività che merita di essere valutata e sindacata come pienezza di giudizio e con la più assoluta serenità di valutazione.

Sento già suonare una critica da parte dell’uditorio. La critica è: ma tu ti sei imbarcato nel parlare di responsabilità da violazione di regole di comportamento nell’applicazione della legge, si noti bene, quando la Corte di Giustizia dice che, in caso di appalti, la semplice violazione della legge è sufficiente per generare responsabilità. La replica è: in primis, le norme in materia di aggiudicazione di appalti, se depurate di tutto quel mostruoso art. 38 del Codice, sono norme che in termini di scelta del contraente lasciano poca discrezionalità in capo alle amministrazioni (sono discrezionali solo le valutazioni dell’offerta tecnica, non di certo dell’offerta economica). Credo che parlare di responsabilità per la semplice violazione della legge abbia un senso perché la legge poteva non essere violata. Se viceversa, si volesse fare una costruzione generale in cui la violazione di legge implica di per sé responsabilità civile della pubblica amministrazione, io non ho nessuna esitazione a dire che la giurisprudenza della Corte di Giustizia è sbagliata. Così non può essere, perché la legge è lo strumento di azione della pubblica amministrazione e non è concepibile che una lettura diversa di una norma rispetto alla lettura datane da qualcun altro costituisca illecito.

Concludo dicendo che questa norma del codice del processo amministrativo è di un’importanza straordinaria, perché riconduce l’operare, l’agire, dell’amministrazione a parametri di partecipazione e condivisione all’interno della società. Ci vorranno anni e anni perché questo diventi costume generale; ma quando ciò sarà accaduto, significherà anche che la gente si sarà abituata ad agire e comportarsi in modo da non provocare danni ai terzi, e quindi a non abusare del potere che in qualche modo ha avuto.

Lì il sistema migliorerà molto, e quindi questo processo farà molto bene all’economia.

*Intervento del Prof. Filippo Satta al Convegno “Economia e diritto amministrativo – Il ruolo del processo e del giudice amministrativo” –  Bari 8-9 marzo 2013