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Appunti sul sistema tributario

di - 21 Marzo 2013
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Compiamo un salto di un decennio, durante il quale si susseguirono una serie di interventi, compreso la famosa, o famigerata, “minimum tax”[44] della finanziaria 1993, e giungiamo agli Studi di settore[45]. Dopo un lavoro preparatorio avvenuto negli anni novanta, nel 1997 inizia l’attività degli Studi, con una ampia raccolta di dati concernenti l’attività commerciale, dai metri quadri agli addetti, ai consumi elettrici, messi in rapporto con i volumi d’affare, per determinare il livello dei ricavi. Attività svolta con la partecipazione e l’accordo delle categorie. Come scrisse, dieci anni dopo, il Ministro di allora, Vincenzo Visco[46], “le situazioni soggettive dei contribuenticambiano continuamente. Perciò era prevista una assidua “manutenzione” diciascuno studio per consentire il necessario aggiornamento. Viceversa, dopo laloro prima applicazione nel ’99, quella manutenzione è stata di fattoabbandonata, anche a causa dell’introduzione dei ripetuti condoni tributari che,di fatto, sterilizzavano l’applicazione degli Studi”.

Inoltre “l’uso che si è diffuso di questo strumento – che, come si è detto, è uno strumento di analisi e non un metodo di tassazione – ha assunto caratteristiche che ne hanno in parte alterato la funzione. Pur essendo chiaro a tutti – e chiaramente scritto nella legislazione – che ogni contribuente è tenuto a pagare le imposte in base al proprio reddito effettivo, è invalso l’uso di interpretare gli indicatori riportati negli Studi di Settore come una sorta di “minimum tax” alla quale adeguarsi con la garanzia di essere in regola, prescindendo dal livello di tassazione effettiva al quale il reddito realmente prodotto avrebbe dovuto essere sottoposto. Al diffondersi di questo uso alterato (o addirittura distorto) degli Studi, hanno probabilmente contribuito sia un comportamento talvolta poco adeguato dell’Amministrazione fiscale (ora corretto dalle direttive impartite nel 2007) sia le scelte suggerite da consulenti fiscali in maniera eccessivamente semplicistica con l’obiettivo di prevenire il rischio di fastidiosi accertamenti, considerando in molti casi conveniente adattare le dichiarazioni agli indicatori degli Studi che, nella fase iniziale della loro applicazione, erano stati formulati in maniera estremamente prudenziale. Per conseguenza, nel caso in cui i risultati degli studi risultavano convenienti, i contribuenti e i loro consulenti tendevano a ritenerli una “minimum tax”, nel caso contrario a contestarli in quanto “minimum tax”!”

Se è vero quindi che gli Studi di settore hanno permesso di smussare alcune punte più accentuate, è vero anche che hanno favorito un processo di livellamento verso il minimo livello di congruità che permette di sfuggire alla rete gettata dagli Studi. Se i miei ricavi sono pari a 100, ma il commercialista mi dice che sono congruo a 80, perché dovrei dichiarare di più? Gli Studi possono quindi essere utili, ma non sono certo risolutivi ai fini del contrasto dell’evasione.

L’art. 38 del DPR 600/1973 intitolato “Rettifica delle dichiarazioni delle persone fisiche”, permetteva due diversi sistemi di contestazione delle dichiarazioni Irpef: uno c.d. “sintetico”, basato su specifici acquisti (esempio tipico, quello di un immobile), ed un altro basato su una serie di dati, cui applicare adeguati moltiplicatori per ricavare un reddito presunto. Nel 2010 –DL 78 – questo secondo metodo è stato oggetto di un intervento legislativo volto al fine di calibrarlo meglio alla realtà dell’economia italiana. Il provvedimento, varato a gennaio 2013, identifica un centinaio di voci di spese effettive, di spese presunte (su dati Istat), di variazioni patrimoniali, dai quali ricavare un reddito induttivo. Il “redditometro” ha avuto un sicuro successo sulla stampa, ma è dubbio che possa essere lo strumento risolutivo della lotta all’evasione.
Come detto, lo strumento non è nuovo, e l’uso che in passato se ne è fatto ha coinvolto poche migliaia di contribuenti. Quanto più si tenta di calibrare uno strumento che richiede l’integrazione di banche dati molto diverse, tanto più complessa diviene l’operazione; e ciò a prescindere dalla difficoltà di definire il nucleo familiare, di cui parla la legge. In Francia il foyer fiscal è definito, mentre in Italia, essendo l’Irpef individuale, non lo è. D’altra parte è evidente che un contribuente può comprare immobili o automezzi con il reddito del coniuge, e ciò rende necessario andare oltre i dati che riguardano il singolo contribuente. Probabilmente la maggiore preoccupazione è la disposizione di versamento del 30% della maggiore imposta richiesta dall’Agenzia dell’entrate all’atto dell’accertamento. Pertanto si può ritenere che un uso parsimonioso di questo strumento possa essere utile, ma non è risolutivo; non si può peraltro escludere che possa avere un effetto di deterrenza.
Una proposta che gode di molta popolarità è quella del conflitto d’interesse. L’idea è semplice: se posso dedurre (o detrarre) una certa spesa, ho interesse a farmi consegnare la ricevuta, costringendo il venditore a dichiarare l’ammontare incassato. Ovviamente una deduzione integrale di tutti i consumi, a parte il gigantesco problema gestionale, e l’impossibilità di controlli, significherebbe che la base imponibile dell’Irpef diviene il risparmio. Tuttavia, si dice, si potrebbe pensare ad una deduzione (o detrazione) parziale, ed anche limitata a spese non quotidiane, che possono andare dal carrozziere all’idraulico.
Questa proposta sicuramente favorisce i lavoratori dipendenti (o pensionati[47]), ma in realtà l’erario non ne trae vantaggio[48]. Infatti l’artigiano ed il cliente possono avere convenienza reciproca ad abbassare il prezzo del servizio, nel qual caso per l’erario non cambia nulla; se invece la convenienza non c’è, allora vuol dire che il risparmio d’imposta per il cliente è maggiore di quanto dovrà pagare l’artigiano, e cioè l’erario dovrà finanziare la differenza. Ciò è quello che si è ad esempio verificato con la detrazione per le ristrutturazioni immobiliari; l’incentivo fiscale ha avuto sicuramente il pregio di sostenere il settore edilizio (che è ad alto valore aggiunto), ma ha anche comportato un onere per l’erario.

Note

44.  L’imposta veniva determinata sulla base di un “contributo diretto lavorativo” dell’artigiano e del commerciante, cioè di un reddito imputato per il lavoro da questi svolti nella sua ditta. Se il reddito dichiarato fosse stato inferiore, gli uffici avrebbero mandato direttamente la cartella esattoriale; un vero e proprio “solve et repete”, misura incostituzionale. L’anno dopo Franco Gallo abolisce il provvedimento.

45.  Con gli studi di settore riprendevano vita i lavori delle commissioni dipartimentali delle imposte dirette dell’epoca della Imposta di ricchezza mobile, che annualmente compivano una radiografia di un settore produttivo, stabilendo la redditività delle imprese sulla base degli addetti, delle macchine, dei consumi di materie prime e prodotti intermedi, etc. Studi che si erano interrotti proprio con i primi anni settanta.

46. Introduzione al rapporto della Commissione su Le problematiche di tipo giuridico ed economico inerenti alla materia degli Studi di Settore, TRIBUTI, Supplemento n. 4, 2008 consultabile al sito www.ssef/documenti/riviste.

47.  Cioè i contribuenti a minor rischio di evasione; purché ovviamente siano capienti.

48.  Su Econpubblica 2006, i primi tre articoli delle Short Notes sono dedicati al tema del contrasto d’interesse.

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