Protezione civile, cittadini, Istituzioni ed interventi emergenziali

Sebbene attualmente svolga la mia attività nella “Protezione Civile”, sento la profonda esigenza di affrontare questo tema in modo “laico”, da semplice cittadino che, come tutti, potrebbe un domani ritrovarsi ad averne bisogno.
Il Servizio Nazionale della Protezione Civile, nasce nel 1992 con la legge n. 225 e, come noto, di fatto è la modalità con cui lo Stato si attiva per fronteggiare le emergenze diversamente da quanto era riuscito a fare in occasione del sisma che nel 1980 colpì l’Irpinia e provocò circa 3000 vittime. A quei tempi ero poco più che bambino, rimasto senza casa poiché dichiarata inagibile, e dei dibattiti parlamentari che hanno dato vita alla legge istitutrice ne ho avuto piena cognizione solo anni dopo, quando ho cominciato ad entrare in queste problematiche ed ho acquisito, soprattutto, la consapevolezza di quanta distanza vi sia tra ciò che si fa nell’interesse dei cittadini e di quanto poco gli stessi riescano a venirne a conoscenza.
La percezione della Protezione Civile è profondamente mutata nel tempo (decenni), sebbene dal 1992, sino di fatto all’ultima modifica rappresentata dalla legge n. 100 del 2012, sia rimasta pressoché immutata nelle finalità. Nella percezione comune, ai tempi della mia adolescenza, la Protezione Civile rappresentava l’assessorato assegnato agli eletti più sfigati, successivamente era la Struttura che avrebbe voluto “rubare” spazio ai Vigili del Fuoco, sino a questi ultimi anni in cui, da “Istituzione” quasi perfetta dello Stato, è stata spesso associata ad un meccanismo rodato di malaffare.
L’amara constatazione è la seguente: sono trascorsi trent’anni dalla sua istituzione ed oggi, ancor più di ieri, si continua a parlare di Protezione Civile senza avere, spesso, consapevolezza di cosa sia, di come sia organizzata e, soprattutto, di cosa faccia. Riconosco che non sia semplice comprenderne il funzionamento soprattutto perché è “poco più” che una grande idea, e di immensa portata, che difficilmente può essere compresa se non viene opportunamente spiegata. È anche comprensibile, però, che se ciascun cittadino volesse conoscere approfonditamente le modalità operative degli apparati dello Stato di cui usufruisce quotidianamente, pur volendo limitare l’incombenza a quelli di utilità più immediata, dovrebbe approfondire la conoscenza di non poche cose, dalle norme che regolano il funzionamento degli Ospedali a quelle che hanno istituito il Corpo dei Vigili del Fuoco, tanto per fare due esempi di strutture vicine ai cittadini. Quanto detto evidenzia l’inattuabilità della strada indicata che, giocoforza, porta a conoscere i servizi di cui si usufruisce sulla scorta del passaparola, in relazione a ciò che in quel momento è più impellente.
Vi sono cose, come la carta costituzionale, che però, rappresentando dei principi, e necessitando di un’adeguata illustrazione, vengono spiegate a ciascuno cittadino sin dalla sua infanzia affinché risultino ben chiare le modalità con cui si dispiega l’apparato statale, sia in termini di attività garantite e che si possono svolgere sul territorio nazionale, sia di strutture mediante le quali lo Stato è organizzato per conseguire le finalità dette. Tale organizzazione, abbastanza articolata, evidenzia non di rado difficoltà di funzionamento, vissute dal cittadino come disservizi più o meno sistematici, a cui è difficile porre rimedio, data la complessità del sistema. E’ evidente che quanto detto si estremizza laddove accada una calamità. Il sistema ordinario, infatti, raggiunge livelli di stress elevatissimi a cui potrebbe conseguire, paradossalmente, la completa assenza di risultati per le popolazioni colpite. Per scongiurare un simile risultato, quindi, si è costruito un modello di risposta in cui, sfruttando anche la maggiore propensione individuale alla reciproca collaborazione, le risorse statali, quelle stesse che talvolta appaiono oltremodo inadeguate in ordinario, riescano a cooperare con livelli di compartecipazione ed efficacia ancora oggi ignoti nell’ordinario.
Affinché accada ciò, come in qualsiasi sport di squadra, è necessario che venga impartita l’indicazione di quale schema adottare così che nessun ruolo resti scoperto e non vi siano sovrapposizioni inutili, quando non pericolose. Occorre organizzare tutte le attività così che si abbia una risposta corale in grado di offrire un risultato rapido e tangibile. Evidentemente, anche nel gioco di squadra, quanto più numeroso è il personale altamente competente nel proprio settore, tanto più la risposta oltre che efficace risulterà particolarmente efficiente.
La nostra Costituzione, essendo figlia di periodi molto meno felici di quelli attuali, ha in dote l’obiettivo primario di costruire un sistema in cui, i reciproci veti, scongiurino l’eventualità di una “facile” decisione, per allontanare anche solo l’ipotesi di derive autoritarie. Sarebbe oltremodo immodesto ritenere errato tale approccio, sebbene la palese disparità tra l’efficienza “emergenziale” e la quotidianità, forse, dovrebbe indurre a qualche ulteriore riflessione in proposito. A volte, per colmare rapidamente questa disparità, si è cercata la via più facile tentando di “ridimensionare” il Sistema di Protezione Civile così che fosse più in linea con le inefficienze quotidiane. È evidente che tale strada sia molto gradita soprattutto a coloro che, in un confronto, appaiono tecnicamente meno all’altezza rispetto alle prestazioni offerte dai compagni di squadra.
Spesso, per frenare il sistema, si è additato il rischio di derive autoritarie che, ovviamente, risulterebbero contrarie ai principi della democrazia, ignorando quanto accorto sia stato il legislatore a questo proposito. La Protezione Civile, che si articola dai livelli nazionali sino a quelli territoriali (provinciali e comunali), non ha gerarchie, né rapporti di subordinazione tra i diversi livelli. Fonda la sua ragione d’essere nell’esigenza di procedere in modo organizzato, sfruttando tutte le risorse del paese, ed evitando accuratamente l’eventualità di costituire ulteriori strutture rispetto a quelle già presenti.
A capo vi è il Presidente del Consiglio dei Ministri che, quindi, rappresenta proprio la figura costituzionalmente preposta al governo del paese, sia nell’ordinario che nell’emergenza.
Significativo ed eclatante è constatare come, sebbene la normativa risulti essere sostanzialmente la stessa, vi siano realtà territoriali in cui il Sistema di Protezione Civile locale, sia esso regionale, provinciale o comunale, raggiunge vette di eccellenza ed altri dove è praticamente latitante. Se la Protezione Civile fosse un mero “esercizio” del potere, evidentemente, sarebbe oltremodo sviluppato ovunque.
Costruire una buona Protezione Civile, in grado di rispondere prontamente ed efficacemente, significa lavoro intenso volto alla crescita di tutte le strutture e le componenti che ne fanno parte, ovvero di tutto l’apparato statale, procedendo ad una sempre maggiore integrazione delle rispettive procedure e ad una programmazione delle attività.

Sempre più spesso, nelle emergenze, i cittadini invocano diritti che consentano loro un rapido ritorno alle condizioni di normalità. Come detto, la Protezione Civile trova il suo fondamento nella cooperazione delle istituzioni e dei cittadini. Non di rado ci si dimentica che i primi operatori di Protezione Civile, così come indicato dalla norma istitutrice, sono i cittadini. Analogamente al diritto/dovere di voto, spesso andrebbe ricordato ai cittadini che al diritto di essere assistiti si affianca il dovere che gli stessi abbiano conoscenza delle procedure da seguire per “essere assistiti”. Conoscere il piano di Protezione Civile comunale e, avendone la possibilità, svolgerne le attività previste, come ad esempio procedere al rapido ed ordinato raggiungimento dei punti di raccolta o, analogamente, adoperarsi per non rappresentare una defalcazione delle risorse da destinare a chi ne ha più bisogno, costituisce un dovere per tutta la municipalità.
È capitato di ascoltare lagnanze di cittadini che, pur essendo nelle condizioni di collaborare con i volontari giunti sul posto per portare assistenza, dallo spalare il fango al montare le tende, recriminavano sull’operato altrui senza adoperarsi in alcun modo a ripristinare le condizioni necessarie ad una propria migliore qualità della vita.
Qualsiasi attività, sia essa di volontariato o istituzionale, se non sottende ad una precisa programmazione ed organizzazione, soprattutto nelle immediate fasi post evento, può risultare inefficace, se non addirittura di impedimento, al raggiungimento degli obiettivi ed in questa ottica, ovviamente, deve inquadrarsi anche l’operato dei cittadini stessi.
Sperando di aver almeno parzialmente illustrato l’idea, seppure in maniera sintetica e certamente incompleta, di cosa sia e come sia organizzato il Servizio di Protezione Civile, è forse opportuno fare anche un piccolo accenno a quali siano le attività che svolge o, se non altro, quelle che non svolge.
In primo luogo è necessario evidenziare che in occasione di “calamità naturali, catastrofi o altri eventi che, per intensità ed estensione, debbono essere fronteggiati con mezzi e poteri straordinari”, il Governo, ai sensi dell’art. 5 della sopracitata legge 225/92, generalmente nomina un Commissario delegato per “l’attuazione degli interventi di emergenza conseguenti”. Sempre per fronteggiare tali eventi, il medesimo articolo consente l’attuazione degli interventi “a mezzo di ordinanze del Presidente del Consiglio in deroga ad ogni disposizione vigente, e nel rispetto dei principi generali dell’ordinamento giuridico”, ma con l’obbligo di indicare e motivare “le principali norme a cui si intende derogare”.
È utile sottolineare tale aspetto per comprendere che il cosiddetto “potere” della Protezione Civile non era in capo al Dipartimento della Protezione Civile (così come creduto dall’immaginario collettivo) ma, bensì, al Presidente del Consiglio dei Ministri che, ai sensi della costituzione, rappresenta colui a cui il paese ha demandato il compito di governare.
Il fatto che molto spesso, i vari Governi succedutisi, abbiano inteso nominare quale Commissario di Governo il Capo del Dipartimento della Protezione Civile (potendo così contare su una struttura che garantiva un sistematico conseguimento del risultato), ha ingenerato la fuorviante convinzione che la Protezione Civile rappresentasse un centro di potere “autonomo” ed estraneo alle leggi del paese, ignorando che tale mandato venisse conferito direttamente dal governo, di volta in volta, ritenendo questa la strada più idonea per fare fronte all’esigenza che nel frattempo si era manifestata.
In questa disinformazione di fondo, pertanto, si è dato luogo a numerosi fraintendimenti su quali fossero i compiti del Dipartimento della Protezione Civile e sulle modalità con cui ha operato nelle ultime emergenze accadute nel paese. Le battaglie politiche, di conseguenza, hanno finito per trasformarsi in attacchi al sistema di Protezione Civile la cui colpa è stata quella di adempiere, con efficienza, al mandato ricevuto. Tra gli esempi più eclatanti, ad esempio, vi è senza dubbio la diffusa convinzione che, nell’evento sismico che ha colpito l’Abruzzo nel 2009, il Dipartimento della Protezione Civile abbia provveduto non solo alla gestione dell’emergenza e del post-emergenza ma, anche, alla gestione della ricostruzione.
Il fraintendimento è sorto, presumibilmente, a seguito dell’iniziativa di modificare, nella fase successiva alla prima emergenza (quella che punta ad offrire il primo soccorso estraendo le persone dalle macerie, garantendo cure ed assistenza ai feriti ed un ricovero di fortuna ai senzatetto), l’approccio che generalmente era stato utilizzato nella fase post-emergenza. La realizzazione degli edifici del Progetto CASE, con i quali si è inteso soppiantare le classiche soluzioni con roulotte e container, in un paese estremamente lento a recepire le innovazioni, ha finito con l’apparire non già come una moderna soluzione a problemi ampiamente conosciuti, che consentiva di riportare i cittadini ospitati in una prima fase nelle tende e negli alberghi direttamente in abitazioni molto confortevoli nell’attesa del completo ripristino degli edifici gravemente danneggiati o distrutti (attraverso la loro riparazione o ricostruzione), ma addirittura è stata confusa con la ricostruzione stessa, o quanto meno è stata considerata una pesante “ingerenza” nella ricostruzione del territorio.
La cattiva interpretazione, presumibilmente, è da ricercarsi nella scarsa conoscenza dei processi e nel fatto che nel passato le tre fasi (emergenza, post-emergenza e ricostruzione) sono risultate temporalmente separate e, quindi, facilmente distinguibili. In Abruzzo, essendo stati particolarmente rapidi nell’emanazione delle regole e dei criteri per l’avvio della terza fase, probabilmente, le attività post-emergenziali sono state confuse, anche per la loro atipicità, con quelle della ricostruzione.
Avendo trattato il tema del Progetto CASE, inoltre, è forse opportuno evidenziare anche quanto il sistema si adoperi molto nel cercare di mettere a frutto le esperienze già testate sul campo in precedenti esperienze. Il Progetto C.A.S.E., infatti, si può dire che rappresenti proprio l’evoluzione di approccio scaturita dagli insegnamenti passati. Una cosciente osservazione di quanto accaduto in passato, infatti, mostra che l’impatto sul territorio delle soluzioni temporanee non è mai stato pienamente reversibile e la realizzazione di insediamenti con costruzioni durature, moderne, sicure, nonché compatibili con un paesaggio comunque devastato dall’evento, ha cercato di minimizzare e rendere, per quanto possibile, positivo l’impatto sul territorio. Va ricordato che gli effetti del terremoto si palesano, oltre che in termini di vittime e di danni sui fabbricati, anche con un impatto sull’assetto urbano conseguente ai crolli e all’inaccessibilità dei luoghi.

Ciò, peraltro, è tanto più significativo quanto più l’area colpita è urbanizzata. La devastazione che il sisma produce nei luoghi antropizzati ha indotto gli esperti del settore ad approfondite riflessioni, che lasciano tutt’ora aperto il dibattito in relazione alle modalità, più o meno conservative, che si possono adottare nel processo di ricostruzione degli immobili crollati, ovvero di riparazione degli edifici più o meno danneggiati. In ogni caso, sia per motivi meramente tecnici, sia per la scelta che in Italia predilige nel post-terremoto, generalmente, la conservazione dei centri storici, il processo di ricostruzione è molto lungo.
All’impatto provocato da quanto appena detto, quindi, va ad aggiungersi quello inerente le sistemazioni provvisorie dei senzatetto. Le esperienze passate hanno mostrato con forza che la completa reversibilità degli interventi provvisori è una visione quasi utopica. Tale constatazione, peraltro, può essere basata sui soli aspetti prettamente urbani senza tenere conto di altri fattori che, in modo altrettanto significativo, impattano sull’ambiente, ed anche su altri territori, in conseguenza delle parziali rimozioni, o delle dismissioni, delle strutture temporanee. Riprova di quanto siano definitive, spesso, le soluzioni provvisorie sono i villaggi temporanei che negli anni passati sono stati costruiti a valle di eventi sismici e che, tutt’ora, permangono in esercizio, con utenti spesso diversi dagli aventi diritto della fase post-emergenziale. Casi del genere se ne posso citare tanti e tra questi, sicuramente, il villaggio temporaneo di Bucaletto a Potenza (tutt’ora presente a distanza di oltre 30 anni dalla sua costruzione). Volendo passare a casi più recenti, il villaggio temporaneo costruito a San Giuliano di Puglia in conseguenza del sisma che colpì il paese nel 2002 è tutt’ora alla ricerca di un possibile futuro utilizzo (non dismissione!!). Non diversa è la situazione laddove si sia intervenuto utilizzando container anche per permanenze di lungo termine, come dopo il terremoto umbro-marchigiano del 26 settembre 1997. Frequentemente, dopo lo smantellamento dei container, le aree ormai urbanizzate sono state soppiantate da villette al posto dei container, in sfregio alla temporaneità dell’occupazione di quei suoli.
Auspicando, se non altro, di aver acceso una luce sulla complessità delle operazioni e su quanto effettivamente viene fatto dalla Protezione Civile, è doveroso ricordare che anche nel sisma abruzzese, come in quelli passati ed in quelli più recenti, il Governo ha generalmente individuato nei referenti delle Amministrazioni territoriali, vedi Presidenti delle Regioni, i Commissari a cui ha affidato il compito della ricostruzione, e non già alla Protezione Civile.
Se mai, invece, è opportuno evidenziare che, con l’ultima riorganizzazione del Sistema di Protezione Civile (legge 100/2012), il legislatore ha inteso ridurre non tanto il potere della Protezione Civile, quanto quello del Presidente del Consiglio, trasferendo, direttamente ad un Dirigente Generale dello Stato (nello specifico il Capo Dipartimento della Protezione Civile), il compito di definire ed attuare gli interventi volti a fronteggiare l’emergenza affidando ad esso il potere di ordinanza che in precedenza era una prerogativa del Presidente del Consiglio dei Ministri e, quindi, del potere politico. Per completezza, però, è utile meditare anche sulle possibili conseguenze che una simile scelta può avere sull’incisività dell’azione, anche in relazione all’esposizione cui viene assoggettato il decisore che è chiamato ad intervenire nel modo ritenuto più opportuno e che, per contro, non dispone delle risorse finanziarie la cui gestione, ovviamente, resta invece nell’esclusiva competenza politica.
Infine un piccolo cenno alle potenziali deroghe utilizzabili in emergenza. Spesso si immagina che il potere derogatorio che la norma consente nelle situazioni conseguenti la dichiarazione dello stato di emergenza rappresenti l’elemento che permette il raggiungimento degli obiettivi. Troppo spesso, invece, si trascura l’immane lavoro ed il carico di potenziali responsabilità che, in situazioni di emergenza, si assumono i decisori ad ogni livello quando, in condizioni ordinarie, per le stesse attività ed in assenza di stress e concomitanti urgenze, si adottano innumerevoli cautele che allungano oltremodo i tempi di ogni procedimento amministrativo, senza nulla aggiungere o togliere alla soluzione individuata.