Dei fattori non-economici del progresso economico

1. La teoria economica della crescita.

Da Smith e Ricardo, i padri fondatori, la “ricchezza delle nazioni” è stata al cuore dell’economia politica. Non sorprendentemente, le determinanti sistemiche della crescita sono state sino a tempi recenti ravvisate dagli economisti in variabili d’ordine economico.
Dopo Keynes, gli sviluppi teorici sono legati agli eleganti modelli dovuti, indipendentemente, a Sir Roy Harrod e a Evsey Domar. L’idea chiave è che il progresso materiale dipende da tre forze, tutte economiche. Le chiamo (REI): il volume delle risorse (R) applicate alla produzione; il grado d’efficienza (E) con cui le risorse vengono utilizzate, date le tecniche conosciute; le innovazioni (I), che esogenamente innalzano la frontiera dell’efficienza e imprimono alla produttività un trend positivo. L’impostazione economicistica non poteva essere modificata dalle teorie della crescita che hanno cercato di “endogeneizzare” il progresso tecnico, secondo Solow riuscendovi solo in parte.
Dopo la Rivoluzione industriale inglese in soli duecento anni il capitalismo ha moltiplicato per oltre sessanta il prodotto mondiale. Di fronte a una popolazione lievitata di oltre sei volte il reddito pro capite medio dell’umanità, pressoché stazionario per millenni, si è incrementato di dieci volte. Lo stupefacente progresso risulta nell’insieme dei due secoli imputabile per poco più della metà al maggior volume delle risorse impiegate – beni capitali soprattutto – e per poco meno della metà all’innalzamento della produttività. Ma il capitale e gli altri input hanno contato tendenzialmente sempre meno. Fra le economie di oggi due terzi della varianza nei livelli del prodotto per addetto e una parte anche maggiore della varianza nei suoi ritmi di incremento sono imputabili alla qualità del produrre, non al volume delle risorse utilizzate.
Qualità: oltre a REI, dev’esservi dell’altro.
Gli economisti non hanno mai escluso che le variabili non economiche possono influire. Basti riandare allo Smith economista, giurista, maestro di retorica e belle lettere, filosofo. Nel 1951 lo stesso Domar – economista matematico – avvertiva che “lo sviluppo economico è determinato dalla struttura fondamentale della società. Una teoria completa dovrebbe includere l’ambiente fisico, l’assetto politico, gli incentivi, i metodi educativi, il quadro istituzionale, la propensione alla scienza, al cambiamento, all’accumulazione”.
Nondimeno, nel nome del rigore analitico i moderni teorici della crescita si sono a lungo astenuti dall’inoltrarsi lungo gli scivolosi terreni del “sociale”.

2. Gli storici e la crescita.

Nell’estendere le possibili determinanti dello sviluppo alle variabili meta-economiche un apporto importante è stato offerto dagli storici.
Carlo Cipolla non si stancava di ripetere che “per spiegare il funzionamento e la performance di una data economia, lo storico economico deve prendere in considerazione tutte le variabili, tutti gli elementi, tutti i fattori in gioco. E non solo le variabili ed i fattori economici”.
Negli ultimi anni gli storici dell’economia hanno molto avvicinato fra loro la storia e la teoria della crescita. Hanno indotto gli economisti a rendere i loro schemi teorici meno semplificanti, meno astratti. Soprattutto, li hanno orientati a porsi di fronte ai fatti per spiegarli, senza limitarsi alla ricerca di leggi generali, a questioni quali steady state, dinamica in equilibrio ovvero in squilibrio, progresso tecnico neutrale o non-neutrale, golden rule.
Molti nomi di storici economici potrebbero farsi, non pochi di italiani, oltre a Cipolla. Fra i motori delle esperienze di crescita del passato, North ha esaltato il ruolo delle Istituzioni, riduttrici dei costi di transazione: legalità, proprietà, contratto, responsabilità civile. Landes e Mokyr hanno insistito sulla Cultura: non la weberiana cultura protestante, ma l’Illuminismo anglosassone, scientifico e pragmatico, volto alla soluzione dei problemi. McCloskey ha spinto il rilievo dell’ideologia sino a far dipendere il progresso economico da mercato, impresa, innovazione, ma soprattutto dalla svolta culturale degli ultimi due o tre secoli, allorché la “retorica” è giunta a pensare, e a parlare, in positivo della società borghese. Vi è, infine, la Politica. Essa promuove, ovvero ostacola, l’affermarsi delle istituzioni e il diffondersi della cultura, ma favorisce o frena la crescita anche in via diretta. Diversi storici, fra cui Eric Jones, hanno riguardato la politica come un impedimento, fonte di pratiche predatorie da cui l’iniziativa dei privati di rado riesce a svincolarsi.
Quindi Cultura, Istituzioni, Politica – CIP – sono state ampiamente e variamente evocate dagli storici nel reinterpretare la Rivoluzione Industriale, la primazia europea, i ritardi secolari e poi il fulmineo recupero dell’Asia e della Cina, il successo americano, la sconfitta socialista, il diverso benessere delle nazioni, financo i dislivelli di reddito interni ai singoli paesi. “È colpa dei Normanni”, diceva Cipolla del divario del Sud della penisola italiana rispetto al Centro-nord.
Problema sempre delicato è quello della direzione del nesso causale, ovvero della reciproca interazione fra REI e CIP, tra variabili economiche e variabili non economiche. È il problema che Marx pose, assegnando prevalente rilievo alla cosiddetta struttura rispetto alla cosiddetta sovrastruttura. Per lo più gli storici economici odierni tendono a rovesciare l’indicazione di Marx. I fili delle culture, gli assetti istituzionali, i modi della politica hanno spesso radici che preesistono al capitalismo moderno. Nel linguaggio econometrico si tende, da questa storiografia, a guardare a CIP come a un insieme di “variabili strumentali”, influenti da molto lontano sull’economia.

3. Al di là delle variabili economiche.

Da ultimo gli economisti non sono stati sordi alla sollecitazione che proveniva dagli storici: teorizzare sì, ma anche misurarsi con i fatti dello sviluppo e del sottosviluppo; non fermarsi a REI ma avventurarsi nel metaeconomico, tradizionale pertinenza di altre scienze sociali.
Seleziono dalla migliore letteratura i contributi di Daron Acemoglu e di Ronald Coase, entrambi del 2012.
La tesi di Acemoglu è che la crescita dipende dagli incentivi: a risparmiare, investire, cercare l’efficienza, ideare, innovare. Gli incentivi dipendono dalle istituzioni economiche. Le istituzioni economiche dipendono dalle istituzioni politiche, dalla politica. La politica dipende dalla storia. Vi è crescita se dalla storia, anche casualmente, emergono istituzioni politiche ed economiche inclusive: pluralismo, sicurezza della proprietà privata e dei contratti, ordinamento giuridico imparziale, beni pubblici, libertà d’entrata e di scelta per i produttori. Le nazioni invece “falliscono” se dalla storia emergono istituzioni politiche ed economiche extractive. La concentrazione del potere consente allora ai gruppi che lo detengono di sottrarre risorse al resto della società. Anche quando le elites rivolgono quelle risorse allo sviluppo, lo impongono dall’alto e il successo non sarà durevole. La geografia e la cultura non sono per Acemoglu decisive. Decisive sono le istituzioni. Lo confermerebbe una casistica storica addirittura di millenni. La Rivoluzione Industriale in Inghilterra – cultura e geografia invariate – sarebbe figlia delle istituzioni democratiche scaturite dalla Gloriosa Rivoluzione Politica del 1688, dalla vittoria del Parlamento e di Guglielmo d’Orange su Giacomo II Stuart. In Cina l’economia sarebbe passata dall’arretratezza allo sviluppo dopo che Deng Xiaoping e i riformatori ebbero con saggezza trasformato in inclusive le extractive istituzioni politiche ed economiche maoiste.
La tesi di Coase è simile ma diversa. La Cina è divenuta, sì, capitalista quando le istituzioni sono mutate verso l’economia di mercato. Ma il cambiamento non sarebbe disceso da un disegno politico. Si sarebbe sprigionato dal basso, dal profondo della società. Il vertice politico lo avrebbe solo consentito, con il pragmatismo della antica cultura confuciana. Come l’istituzione-impresa secondo Coase sorge quando surroga un mercato affetto da costi di transazione, così lo spontaneo attivismo del popolo cinese, pressato dalla fame, avrebbe costretto la politica a conformare le istituzioni al modo di produzione capitalistico. Al ruolo della cultura Coase affida anche il futuro dell’economia cinese. Il sistema imploderà, se in Cina mancherà di affermarsi un “mercato delle idee”. Lo ostacola, secondo Coase, il burocratismo delle strutture scolastiche. Lo ostacola un ordinamento giuridico che non rende i cittadini eguali di fronte alla legge e non garantisce che nessuno sia al disopra della legge. Con argomenti diversi anche Ignazio Musu ha spiegato come il dilemma cinese consista ormai nell’affiancare l’apertura politico-culturale all’apertura economica.
Ricerche quali quelle di Acemoglu e Coase estendono i confini dell’indagine economica. Non sciolgono tutti i dubbi. Acemoglu sottovaluta la non-identità di mercato e capitalismo. Il primo esiste da millenni, il secondo solo da tre secoli. Nulla provano i riferimenti agli Aztechi o a Roma antica… Le istituzioni del passato, anche quando preludono alle attuali, si applicavano a modi di produzione dotati di mercato, ma non capitalistici: caccia-raccolta, neolitico, assiro-babilonese, schiavistico, feudale, mercantile. Si pensi al diritto romano. Il problema economico consisteva nel miglior utilizzo una tantum di risorse date, attraverso il comando, la cooperazione, lo scambio. Nel capitalismo sono invece cruciali l’accumulazione, i capitali fissi e il loro ammortamento, l’innovazione, l’allocazione dinamica delle risorse. Acemoglu sottovaluta l’intreccio delle sue predilette istituzioni, e della stessa politica, con la cultura. Trascura i casi – come quello Nord-Sud dell’Italia unita – in cui istituzioni identiche hanno coesistito con livelli e ritmi di sviluppo economico molto diversi, spiegabili solo su altre basi. Da parte sua, Coase tratta con finezza ben maggiore i legami fra istituzioni, politica e cultura nel contesto cinese. Ma non sfugge alla difficoltà di distinguere tra spinta dal basso e pressione dall’alto nella mutazione delle istituzioni.

4. Il caso italiano.

Un difetto comune a entrambi gli studi, di Acemoglu e Coase, è quello di limitare lo scavo ai due strati, REI e CIP, saltando un ulteriore strato, intermedio. È lo strato delle variabili, ancora principalmente economiche, attraverso cui risorse, efficienza e innovazione – le determinanti prossime della crescita – sono influenzate dalla cultura, dalle istituzioni, dalla politica. Queste variabili sono potenzialmente numerose e assumono configurazioni specifiche, storiche, in ciascun paese.
Faccio mia una indicazione di metodo di Luigi Pasinetti e provo ad argomentare con riferimento alla vicenda che ho più studiato, quella italiana. L’invito, di matrice ricardiana, di Pasinetti è a non confondere i piani, ad analizzarli separatamente per poi meglio connetterli: è consigliabile distinguere i profili economici “naturali e primari” della crescita dalla organizzazione della società.
Nell’Italia unita la crescita è stata particolarmente rapida nell’età giolittiana e nel miracolo economico, lenta nel 1887-1900, negli anni Trenta del secolo scorso, nel ventennio post 1992. Le determinanti economiche racchiuse nell’acronimo REI – il primo strato – hanno agito con segno positivo nelle prime due fasi, con segno negativo o incerto nelle altre. Ciò è particolarmente vero per l’Innovazione. Il progresso tecnico ha contribuito per circa due terzi alla crescita del Pil nel 1900-1913 e nel 1950-70, mentre il suo contributo è stato modesto o nullo nei periodi di stagnazione o di crescita rallentata.
Ma perché ciò è avvenuto?

Le mie ricerche mi hanno portato a individuare quattro fasci di forze che hanno, in modo alterno, influito su REI, cioè sulle determinanti economiche di primissima approssimazione della crescita italiana. Finanza pubblica, infrastrutture fisiche e immateriali, grado e forme della concorrenza, dinamismo d’impresa sono quattro variabili ancora economiche, se non “naturali e primarie”: un secondo strato, appunto, a valle di REI e a monte di CIP. Nelle due fasi di crescita rapida la finanza pubblica è stata in equilibrio, le infrastrutture adeguate, la concorrenza intensa, il dinamismo d’impresa vivace. Il contrario è avvenuto nei tempi della crescita lenta. Il contrario avviene oggi. Quanto al terzo strato, cultura, istituzioni e politica hanno a propria volta influito sui quattro fasci di forze economiche “intermedie”, orientandole in senso positivo nei periodi di crescita rapida, in senso negativo negli altri.
Esemplifico con l’età giolittiana. Allora, la cultura degli italiani avanzò, in quantità e qualità. In numero crescente usufruirono di scuole, università, altre opportunità d’apprendimento, come le cattedre ambulanti in agricoltura. Vi fu vivace dialettica tra positivismo, idealismo, marxismo, come pure fra impostazione scientifica e impostazione umanistica. Sul piano istituzionale si realizzò una più larga partecipazione delle masse alla vita comune mentre lo Stato, se doveva garantire l’ordine pubblico, si dichiarava finalmente neutrale di fronte al conflitto di classe. I carabinieri di Giolitti smisero di sparare agli operai e ai contadini in sciopero. In politica economica, Giolitti equilibrò i conti pubblici, potenziò le infrastrutture, riaprì ai rapporti con l’estero, lasciò apprezzare il cambio, promosse la concorrenza fra le grandi imprese. Qualcosa di analogo, mutatis mutandis, avvenne nel secondo dopoguerra.

5. Economia e diritto.

Nelle infrastrutture immateriali – la social infrastructure di Robert Hall – rileva in modo particolare il diritto.
Sulla scia di Hall una mole crescente di ricerche, financo statistiche, è venuta confermando che il diritto ha un forte impatto, positivo o negativo a seconda delle sue forme, su produzione e produttività. Una rilevanza speciale assume, in queste analisi, la cornice istituzionale della industria finanziaria. Banca, Borsa, Assicurazione, se meglio conformate e più efficienti, possono aggiungere anche un punto percentuale al tasso di crescita del Pil pro capite. Secondo i miei calcoli il nuovo assetto istituzionale e strutturale a cui il sistema finanziario italiano è pervenuto tra il 1980 e il 2000 ha avuto un effetto positivo d’impatto dello 0,3 per cento l’anno all’incremento del prodotto pro capite, che in quel ventennio scivolava ben al disotto del 2 per cento l’anno. Alla vera e propria metamorfosi degli intermediari e dei mercati finanziari di quegli anni la Banca d’Italia governata da Carlo Ciampi dal 1979 al 1993 e da Antonio Fazio successivamente dedicò le sue migliori energie, economiche, giuridiche, amministrative, politiche.
L’effetto esercitato da quella che Giuseppe Capograssi e Francesco Orestano denominavano “esperienza giuridica” – le norme, ma anche la giurisprudenza e la dottrina – è variamente quantificato. Risulta nondimeno sistematicamente significativo nello spiegare gli scarti dalla media della “ricchezza” fra le nazioni. Alcune stime hanno registrato un effetto di diversi punti percentuali sui livelli del Pil pro capite e di oltre un punto sui suoi ritmi d’incremento.
È viva la discussione su quale sia “l’ottimo diritto” per l’economia. Prevale l’idea che il common law, nelle sue articolazioni, sia più funzionale del civil law, nelle sue articolazioni. Sono generalizzazioni, che possono non convincere. Forse più saggio, nelle scelte di politica del diritto, è riconoscere il rischio del rigetto nel trapianto degli istituti giuridici fra paesi e ispirare le riforme a un criterio di conformità delle soluzioni agli specifici tratti strutturali di ciascuna economia. Più che l’ottimo diritto per qualsivoglia economia, va ricercato “il diritto acconcio”, adeguato alle esigenze di quella determinata economia.

6. Una politica per l’economia italiana.

L’economia italiana, oltre ai problemi di finanza pubblica e alla difficoltà di fuoruscire dalla più profonda depressione di domanda effettiva della sua storia, vive da anni una deriva nella produttività. Nel 1992 la produttività delle imprese manifatturiere italiane era pari all’85 per cento di quella tedesca; nel 2013 a malapena raggiunge il 60 per cento.
Uno degli ostacoli con cui le non molte imprese medio-grandi italiane in grado di innovare si scontrano è il diritto dell’economia. Nelle graduatorie della Banca Mondiale gli assetti giuridico istituzionali rilevanti per la produttività pongono l’Italia all’87esimo posto nel globo. Queste graduatorie sono semplificanti, ma non devono sottovalutarsi, al di là della loro stessa fondatezza. Fanno opinione nei mercati, orientano i capitali.
Il riflettore andrebbe acceso su sei blocchi dell’attuale ordinamento dell’economia: societario; risparmio; crisi d’impresa; processo civile; concorrenza; opere pubbliche.
Per ciascuno di questi blocchi, naturalmente nel rispetto della disciplina comunitaria, andrebbe identificata la finalità economica essenziale a cui esso è chiamato. Su questa base andrebbe indicata la direttrice da seguire nel riformarlo. Fondamentale è la visione d’assieme: la cura delle coerenze e delle sinergie fra i diversi blocchi secondo un’analisi integrata, non racchiusa nei confini delle tradizionali partizioni della cultura giuridica.
La normativa dell’impresa dovrebbe ricercare un bilanciamento nuovo fra tutela degli amministratori e tutela dei partecipanti al capitale e degli stakeholders. Le imprese italiane sono piccole, poco inclini alla espansione dimensionale. Va quindi riconosciuta l’autonomia di chi le dirige. Agli altri interessi coinvolti, compresi quelli di azionisti e finanziatori, è da riconoscere exit, più che voice.

Azionisti, creditori, altri finanziatori vanno tutelati dal diritto del risparmio. Devono essere in primo luogo meglio informati, non da bilanci falsi. Affinché non incorrano in rischi eccessivi e in impropri comportamenti dei soggetti finanziati occorrono migliori regole. Ma queste, da sole, non possono bastare. Devono integrarsi con la discrezionalità amministrativa dei supervisori, a cominciare dalle banche centrali. Fino alla crisi Lehman la discrezionalità si era ristretta, anche in Italia. Invece, va ammessa, ampliata, presidiata.
Nelle crisi aziendali andrebbe ulteriormente promossa la tempestività nella riallocazione contrattuale, e non concorsuale, delle risorse. È opportuno potenziare ulteriormente gli incentivi ad attivare le modalità del risanamento – concordati, piani, accordi di ristrutturazione dei debiti – quando il profitto scema, ma ben prima delle perdite, dell’insolvenza, del fallimento.
Nel processo civile la brevità e la certezza dei tempi nella soluzione delle liti che coinvolgono le imprese sono non meno importanti della ricerca della “giusta” sentenza finale.
Il diritto antitrust, l’art. 41 della Costituzione, dovrebbero responsabilizzare l’impresa, affinché faccia conto solo su se stessa. Le imprese inefficienti non debbono trovare protezione, in qualsivoglia forma. Occorre promuovere la concorrenza dinamica, a colpi di innovazione, ancor più della concorrenza statica, di prezzo.
Il diritto pubblico è chiamato a ridurre i costi, ad accorciare i tempi, ad assicurare la qualità delle grandi opere infrastrutturali. Occorre tornare, sin dalla Costituzione, a centralizzare la scala di priorità dei progetti. Si dovrà semplificare la giungla dei momenti in cui si articola il procedimento amministrativo.
La riforma organica del quadro giuridico rappresenta, credo, una delle tre linee d’azione che i governi per un ventennio hanno mancato di seguire. Dovrebbero seguirle, per contribuire al ritorno alla crescita di una economia ristagnante dal 1992 e che nel 2013 produrrà l’8 per cento in meno di quanto produceva nel 2007, con un milione di senza lavoro in più e 500 miliardi di Pil potenziale dissipati da allora. Le altre due linee d’azione, complementari al ridisegno del diritto dell’economia, sono riassumibili nell’orientare le imprese a ricercare il profitto attraverso la produttività e in un consolidamento dell’equilibrio di bilancio che sia imperniato sul freno della spesa corrente non-sociale (consumi intermedi, numero dei dipendenti, trasferimenti vari), così da fare spazio agli investimenti in opere infrastrutturali e alla graduale riduzione di una pressione tributaria divenuta soffocante, anche perché sperequata, resa iniqua da elusione ed evasione di imposte e contributi. Tra il 2001 e il 2011 la spesa corrente non sociale è salita dal 20,8 al 23,3 per cento del Pil e dal 44 al 46 per cento delle uscite complessive della PA.
Equilibrio di bilancio, adeguate infrastrutture materiali e immateriali, un contesto concorrenziale rientrano nel dominio della politica. Perché l’economia italiana torni a crescere dovrà tuttavia porsi anche una quarta condizione, non appartenente a quel dominio: la capacità/propensione delle aziende di esprimere in autonomia imprenditoriale il dinamismo, dimensionale e qualitativo, che nell’ultimo ventennio ha clamorosamente latitato.
Sul piano del metodo la “law and economics” anglosassone può essere di utilità, ma entro limiti. Il problema italiano è di efficienza dinamica, non statica. L’economia neoclassica – comune base teorica dei diversi ceppi della cosiddetta analisi economica del diritto, dal Posner prima maniera a Calabresi – è più a suo agio col tempo logico che non col tempo cronologico dell’economia, con la sua dinamica. La cultura economica italiana può dare molto. È tra le più ricche e varie. Non si esaurisce nelle sue pur nobili origini neoclassiche.
Le terre di confine, le intersezioni, fra economia e diritto sono potenzialmente fertilissime: per l’analisi, ma anche per la politica del diritto, per la politica economica. In Italia, il rapporto fra le due discipline fu molto stretto in passato. Deve tornare a stringersi, a cominciare dalle università: nelle facoltà di giurisprudenza, scienze politiche, economia, nella cultura delle classi dirigenti, della classe politica.
L’Università di Macerata – che ebbe l’insegnamento di Maffeo Pantaleoni, come sancì Piero Sraffa “il principe” degli economisti neoclassici italiani – saprà recare, ne sono certo, un contributo prezioso, secondo la sua migliore, secolare tradizione.

*Lectio doctoralis tenuta in occasione del conferimento della Laurea Honoris Causa in “Mercati e Intermediari Finanziari”, Università degli Studi di Macerata, 20 febbraio 2013.

 

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