Democrazia di prossimità e rappresentanza di territorio

Con prevedibile puntualità alcune delle questioni profonde del governo del territorio intermedio – di quello cioè ricompreso tra comune e regione –, si iniziano a discutere solo a valle della decisione recente di rivisitare l’ente provincia: soprattutto per quanto riguarda la dimensione della popolazione minima e l’estensione geografica minima, quindi il numero e il ridisegno della confinazione delle province.
Nella decisione di rivisitare l’assetto delle province è prevalsa la logica della riduzione della spesa pubblica, trascurando ogni altra considerazione e rinunciando, di fatto, ad una riforma complessiva del sistema delle autonomie locali, enti regione compresi.
Il ridisegno è anche conseguenza della soppressione delle province che includono una “città metropolitana”.
Nel mentre si registra già una sorta di nostalgia – accade sempre dopo una riforma – per l’ente provincia e si critica fortemente l’ente regione, i cui limiti erano ben noti – decentramento senza responsabilità e controlli e successivamente sovrapposizione di funzioni e competenze con quelle statali –, solo comportamenti molto criticabili di alcuni consigli regionali e di qualche consigliere in particolare in materia di uso delle risorse pubbliche, li hanno fatti emergere. Anche ciò è molto recente[1].
È così che si è sviluppata una improvvisa e forte critica al cosiddetto «federalismo all’italiana»: decentramento irresponsabile e senza controlli del 1971/2, quindi legge costituzionale n. 3/2001 che riforma il Titolo V della Costituzione e, successivamente, quello mai attuato se non in minima parte della l.n. 42 del 2008.
E, sempre all’improvviso, il Consiglio dei Ministri del 10 ottobre 2012 ha approvato un disegno legge di riforma costituzionale allo scopo di riequilibrare a favore dello stato centrale il sistema delle funzioni e delle competenze disegnato dal rinnovato Titolo V della Costituzione (L.c. n. 3/2001).
Tutto ciò in virtù della cosiddetta «clausola di supremazia».
Quali queste questioni?
Innanzitutto una che attiene alla democrazia. Quella di prossimità è una forma della democrazia. Non meno importante delle altre: essere “vicini” ai centri di rappresentanza istituzionale e decisionale non è cosa secondaria.
Sentirsi partecipi delle decisioni eleva il grado di corresponsabilizzazione nelle decisioni stesse. O, almeno, fa sentire le istituzioni meno lontane.
Il fenomeno del rapporto tra ente provincia e popolazione delle città capoluogo di provincia, in specie se si tratta di una grande città, è caratterizzato dalla lontananza, quasi dal fastidio per la presenza dell’ente. Ciò dimostra ad un tempo la crisi della democrazia di prossimità quando incarnata dall’ente provincia e la vitalità, l’importanza e la strategicità della stessa, se è incarnata all’ente comune.
La crisi di cui sopra è la conseguenza di uno degli errori fondamentali connessi dagli enti provincia nel corso della loro lunga storia, ma soprattutto da quando sono state istituite le regioni.
La seconda questione attiene alla rappresentatività dei territori intermedi. La regione da una parte e un insieme di (eventuali) unioni, consorzi, di comuni, etc., possono essere considerati capaci di rappresentare valori, istanze e problematiche dei territori intermedi?
Se si ritiene che la rappresentanza di questi territori sia importante per le politiche di crescita, sia come devoluzione verso l’alto di esigenze di politiche appropriate che di declinazione di politiche concepite dall’alto, l’esistenza di un ente intermedio rappresentativo è tutt’altro che secondaria. Ovviamente, ben costruito.
Tutto ciò di fronte ai processi di globalizzazione dell’economia ed alla crescita di centri di decisione lontani anche dagli stati. Questione che aggrava la crisi di sovranità che caratterizza le società contemporanee.
Certo, anche a questo riguardo si deve prendere atto che gli enti provincia non hanno adeguatamente operato in tal senso. Sono stati più attenti alla gestione dell’esistente che a progettare il futuro. È indubbio che sia loro mancata «vision» strategica.
Solo negli ultimi anni alcune province si sono cimentate con questo problema, redigendo piani strategici ed altri analoghi documenti di programmazione integrata, andando anche oltre il quadro delle competenze specifiche. Ma più per aderire a mode culturali o per impiegare risorse pubbliche ad hoc per la progettazione di questi documenti, che non per reale e profonda convinzione sullo strumento.
Certo la mancanza di un effettivo ruolo nel rappresentare gli interessi dei territori intermedi negli agoni nazionale ed europeo, ha inciso nel determinare questa criticità.
Ma più ancora ha inciso la scarsa attitudine del personale, politico e tecnico degli enti provincia a praticare questa dimensione «volontaria» di pianificazione / programmazione.
Queste due esigenze, alias funzioni essenziali del governo dei territori intermedi, chi le rappresenterà una volta ridisegnato l’assetto attuale delle province?
Tanto più che non si è operato adeguatamente ancora a ridisegnare compiutamente funzioni e competenze ripartite tra gli enti regione e gli enti provincia programmazione /attuazione/gestione.
Probabilmente il paradigma interpretativo del perché del fallimento delle province nell’esercitare le due funzioni strategiche di cui sopra, è rappresentato proprio dalla pianificazione che, in vario modo, le province hanno praticato. Debolmente e molto tardivamente, oltre che in forma incerta.
Nei settori di competenza – ambiente, sociale, viabilità, coordinamento territoriale, etc. –, questa attività è stata svolta senza respiro strategico, ciò anche prima delle ristrettezze della finanza pubblica che ha acutamente segnato l’ultimo decennio.
Era evidente da sempre una scarsa attitudine a pensare strategico. Criticità che si rivelava anche nel «management» dell’esistente. Ma certamente la dimensione nella quale questa criticità si è rivelata più rilevante è quella del coordinamento territoriale.

Il piano territoriale di coordinamento è stato sempre strumento debole perché non dotato di una finanza propria. Non a caso, se si può parlare di successo di questa forma di pianificazione, è all’esperienza dei “ Consorzi per le aree ed i Nuclei di industrializzazione del Mezzogiorno” che dobbiamo risalire.
Quei piani disponevano di una finanza autonoma, per espropriare, urbanizzare, etc.
Ma anche un coordinamento senza finanza propria poteva avere successo. Sarebbe stato però indispensabile valorizzare il potere di coordinamento, ad iniziare da quello interno all’ente provincia. Per riportare alla unità, seppure parziale, le diverse pianificazioni e programmazioni di settore.
Da questa unità si sarebbe potuto dialogare con gli altri soggetti pianificanti. Per realizzare un livello superiore di coordinamento, semplificando la filiera pianificatoria ed esaltandone così l’effettività e l’efficacia. Rinunciando alla perversa volontà di pianificare in dettaglio, sovrapponendosi spesso così alle competenze urbanistiche degli enti comune.
Una visione strategica avrebbe dovuto guidare quella attività: quella che vede assegnare ad una comunità ed al suo territorio, un piano ed uno solamente. Per realizzare cioè quell’obiettivo fondamentale che ad una comunità cioè ad un territorio, corrisponda un solo piano.
La dimensione intermedia è quella nella quale questo ambizioso obiettivo può meglio essere perseguito, con il dialogo verso l’alto e il basso. Devolvendo in forma attiva e declinando ugualmente in forma attiva e cooperando con quei piani preordinati che disciplinano i cosiddetti interessi primari, come tali preordinati.
Operando sia nell’ottica della cooperazione gerarchica che in quella della «governance» tra interessi / soggetti rappresentativi degli stessi.
La convivenza con le inevitabili difficoltà dei due approcci caratterizzerà probabilmente per molto tempo ancora il nostro assetto istituzionale e organizzativo.
Le province, sia quelle «confermate» che quelle frutto della rivisitazione in corso, sono un utile terreno di costruzione di capacità di operare nella convivenza degli approcci pianificatori e programmatori che il quadro istituzionale ed organizzativo determina.
Non perdere questa nuova occasione è un «must» per il paese: solo così l’espressione da tutti condivisa che per la crescita si debba “ripartire dai territori”, può essere realizzata con concrete azioni di pianificazione della crescita con a base «i» territori. Una volta avremmo detto «il» territorio.

Contributo pubblicato anche sulla Rivista “TRIA” n.04/2013, editore ESI.

Note

1. Impossibile citare gli articoli, interventi, etc., che sono seguiti all’emergere degli scandali recenti causati da «disinvolti» comportamenti di alcuni consiglieri regionali, tanto sono numerosi. Per tutti rinvio a “Le inchieste, gli sprechi e il disastro della riforma del Titolo V”, lucido e sintetico articolo apparso su «Il foglio» del 29 settembre 2012.