Il concetto di merito e l’economia

I concetti di merito e di meritocrazia sono molto usati nei discorsi di oggi. I quotidiani e le riviste usano questo termine ogni volta che si toccano i problemi del nostro Paese. L’enciclopedia Wikipedia definisce la meritocrazia come “una forma di governo dove le cariche amministrative, le cariche pubbliche e qualsiasi ruolo che richieda responsabilità nei confronti degli altri, è affidata secondo criteri di merito, e non di appartenenza lobbistica, familiare (nepotismo e in senso allargato clientelismo) o di casta economica[1].
La definizione coglie aspetti importanti del concetto di merito perché mette in evidenza il fatto che, se si premia il merito, un soggetto ha un riconoscimento per quello che riesce a fare e non per l’appartenenza ad una casta o ad una famiglia. Tuttavia tale definizione non dice ciò che l’individuo con le sue capacità debba riuscire a fare per avere dei meriti. Un problema che si può porre è quindi vedere se il concetto di merito ha un significato univoco oppure no. Forse nell’epoca preromana il comandante etrusco che catturava una nave greca o fenicia aveva il merito di aver razziato un ricco bottino. In questo caso il concetto di merito non si collegava affatto al concetto di “produttività” ma, al contrario, esso era ricollegato all’idea di appropriazione (inefficiente) delle ricchezze. Il tiranno siracusano che razziava il tempio etrusco aveva il merito di aver arricchito la propria città. Anche il principe rinascimentale che conquistava un principato aveva il merito di aver condotto in modo ottimale una guerra. Il concetto di merito come capacità di produrre non veniva considerato. Ciò è dimostrato anche dal fatto che nel basso medioevo avevano un certo ruolo sociale i mercanti, ma non i produttori di beni. Ancora, gli uomini dotati di una potente forza fisica avevano il merito, nei secoli trascorsi, di essere ottimi combattenti (e ricevevano anche una adeguata retribuzione). Oggi il merito non coincide per nulla con il concetto di abilità nel combattere e gli uomini dotati di notevole forza fisica (anche se appartengano al mondo criminale) molto spesso hanno finito per occupare ruoli marginali nella società. All’opposto, persone fisicamente molto deboli e poco coraggiose ma molto produttive hanno il merito di realizzare ricchezza.
Oggi il merito coincide quindi con la produttività, tuttavia con alcuni distinguo. L’esperienza mondiale di giovani ragazzi con capacità geniali che si sono dedicati alla finanza strutturata è stata l’esperienza di un’attività che ha premiato il merito? Hanno avuto questi operatori il merito (se usiamo il termine come produttività) di creare ricchezza? Probabilmente il loro impegno è stato finalizzato a giochi a somma zero se non a situazioni peggiori. Ma il merito come produttività si scontra anche con altri concetti della società moderna. Un insegnante che riesce a preparare tutta la classe, rinunciando ad insegnare il massimo ai migliori, ha il merito di aver fatto crescere tutti gli studenti o il demerito di aver tralasciato i migliori?
La risposta non può dirsi unanimemente condivisa.
Il termine merito, come l’assetto istituzionale in cui il merito deve essere guadagnato, assetto indicato con l’espressione “buone regole” (che non sono poche, se si tiene presente che le regolamentazioni dei mercati superano le decine di migliaia di pagine), vengono usati nei giornali senza che si spieghi il loro vero significato; tuttavia il merito coincide, si può dire senza dubbio, con il concetto di produttività. Gli Stati di oggi sentono il bisogno del merito come capacità produttiva perché la loro crescita economica è debole e il debito pubblico elevato.
Nella storia dello sviluppo del pensiero economico è possibile individuare alcuni momenti in cui il concetto di merito come produttività si è fatto chiaro. Tale idea ha alla sua base innanzitutto i due teoremi dell’economia del benessere, elaborati da Kenneth Arrow e Gerard Debrew[2], teoremi secondo cui una sistema di norme (le norme dei mercati) può occuparsi di massimizzare la ricchezza premiando il merito ed una parte del sistema normativo (il sistema fiscale) può preoccuparsi delle questioni redistributive. Sebbene in alcuni Stati, come gli Stati Uniti, si sia costruito un sistema per vari aspetti simile al modo di concepire la società espressa nei due teoremi dell’economia del benessere, molti altri Stati hanno seguito vie diverse. Vi sono Paesi che si sono preoccupati solo della redistribuzione, effettuata in modo inefficiente, causando gravi crisi economiche e, in questi mesi, Paesi che mirano principalmente alla massimizzazione della ricchezza dimenticando il secondo teorema dell’economia del benessere, cioè il problema della distribuzione di essa.
Si può ben dire che oggi la crescita economica e quindi il valore del merito inteso come produttività siano fondamentali, ma il progetto particolare di Arrow e Debrew[3] richiedeva anche la soluzione di problemi di redistribuzione. Il fatto che l’idea dei due teoremi dell’economia del benessere siano stati elaborati forse ha fatto ritenere che essi venissero messi in atto dai vari Paesi, quantomeno il secondo, ma la realtà non è questa. Sintetizzando si può affermare che in assenza di fallimenti del mercato, i quali possono consistere nelle esternalità, nelle asimmetrie informative, nel potere di mercato e in altre condizioni più complesse, i mercati lascati a se stessi, cioè lasciati alla conduzione di essi attraverso scelte decentrate, giungono ad una condizione di efficienza economica, cioè di ottimalità paretiana. Ciò significa che non è più possibile migliorare la condizione di un soggetto senza peggiorare quella di altri. Con Arrow e Debrew si arriva a questa fondamentale conclusione. I mercati devono preoccuparsi di garantire la massimizzazione della ricchezza mentre gli organi politici, attraverso tasse e trasferimenti adeguati, dovrebbero occuparsi della redistribuzione. Il secondo teorema dell’economia del benessere ci dice infatti che, in mancanza di fallimenti del merito, partendo da una qualunque distribuzione della ricchezza si arriva ad una allocazione efficiente delle risorse, ovviamente con beni e servizi prodotti diversi a seconda della distribuzione iniziale della ricchezza.
Da questo momento in poi “promuovere l’efficienza” significa attuare quei cambiamenti con cui la ricchezza globale aumenta, e ciò è desiderabile anche se vi sono dei perdenti. Infatti se la ricchezza globale è aumentata i perdenti, potenzialmente, possono essere indennizzati proprio perché tale ricchezza totale ha visto un aumento, realizzando in tal modo un miglioramento paretiano.

Per comprendere tuttavia la posizione di Arrow e Debrew bisogna tener presente un passaggio nel percorso dello sviluppo del pensiero economico che ha aperto a strada agli sviluppi futuri.
Nel 1939 vennero pubblicati separatamente due lavori di due economisti, Nicolas Kaldor[4] e John Hicks[5] che possono ritenersi fondamentali per la comprensione dello sviluppo del pensiero economico, finanche della elaborazione dei due teoremi dell’economia del benessere. L’economista Lionel Robbins[6] aveva scritto una articolo in cui rifiutava l’utilitarismo, respingeva l’idea che si potessero confrontare le utilità delle persone concludeva che ben poco potevano consigliare gli economisti ai politici senza prendere una posizione politica. Rimaneva salvo il concetto di miglioramento paretiano, cioè di cambiamento in cui qualcuno guadagna e nessuno perde. In altre parole si salvava il cambiamento che avrebbe dovuto ricevere il consenso unanime dei membri di una comunità. Sulla base del criterio del miglioramento paretiano gli economisti avrebbero potuto dire ben poco ai politici. Ma Kaldor e Hicks propongono un nuovo criterio che a loro parere può essere considerato apolitico: essi affermano che è desiderabile, indipendentemente dalla politica che si vuole attuare, ogni cambiamento in cui chi guadagna ha un beneficio maggiore di chi perde.
È una elaborazione che anticipa le idee di Arrow e Debrew. Scelta politica diviene invece la scelta di indennizzare totalmente, in parte o per nulla, coloro che hanno visto peggiorare la loro posizione. Detto in altri termini, tale principio afferma che è desiderabile ogni cambiamento in cui, potenzialmente, chi ha guadagnato può indennizzare chi ha perso. Sulla base di questo criterio si poteva così, ad esempio, imporre al monopolista un prezzo uguale al costo marginale perché i consumatori avrebbero potuto, potenzialmente, indennizzare il monopolista stesso.
Questo semplice avverbio usato dagli economisti –potenzialmente – ha ridato slancio all’economia. Sulla base di esso si è elaborata la teoria della organizzazione industriale e l’analisi economica del diritto e si può ritenere che abbia facilitato l’elaborazione dei due teoremi dell’economia del benessere. Anche l’attenzione costante al PIL di una nazione ha trovato una giustificazione sulla base di questo criterio. Il Pil può aumentare ma ci possono essere dei perdenti. Tuttavia se il Pil è aumentato, chi ha guadagnato può potenzialmente indennizzare che ha perso. Sebbene tale criterio fosse e sia in realtà una mera finzione, perché ad esempio individuare chi ha guadagnato dalla correzione di una esternalità per indennizzare coloro che hanno perso risulta praticamente impossibile, come è impossibile individuare chi ha guadagnato dalla produzione di un bene pubblico per indennizzare gli svantaggiati, tale finzione ha dato la serenità filosofica-morale agli economisti. Un ulteriore passo avanti si ha, come si è detto, con i due teoremi dell’economia del benessere. Grazie ad essi si può affermare che è desiderabile correggere i fallimenti del mercato senza preoccuparsi di indennizzare i danneggiati perché, con un adeguato sistema redistributivo, si può ottenere la distribuzione della ricchezza che politicamente si vuole creare senza alcuna perdita di benessere. Il secondo teorema ci dice infatti che se i fallimenti del mercato sono corretti, allora partendo da una qualsiasi distribuzione delle risorse si arriva ad una allocazione efficiente delle stesse, con beni e servizi che saranno diversi a seconda della distribuzione che si è scelta inizialmente, ma con un risultato socialmente efficiente.
Sulla base di questi presupposti si è implicitamente arrivati alla conclusione che l’economista si deve occupare di correggere i mercati quando vi è un fallimento del mercato (come il monopolio o l’esternalità per esempio) mentre gli organi politici devono occuparsi della redistribuzione della ricchezza. La redistribuzione della ricchezza comporta conflitti di interesse e quindi è faccenda politica, su cui l’economista non può dir nulla senza prendere una posizione di parte.
Sebbene l’idea fosse chiara nei lavori di Kaldor-Hicks -Arrow e Debrew e già nel famoso volume di Arthur Pigou sull’economia del benessere, sia pur pensatore utilitarista[7], tale distinzione era presente, bisogna aspettare Ronald Coase[8] con il suo articolo del 1960 per vedere all’opera, senza alcuna titubanza, tale distinzione.
Coase, esaminando talune sentenze inglesi su vari casi, fa riflessioni circa i modi per massimizzare la produzione (secondo l’espressione da lui usata, che equivale a quella di “massimizzazione della ricchezza” oppure di “massimizzazione del benessere sociale”) senza aver alcun riguardo alcuno alla distribuzione della ricchezza. D’altronde la redistribuzione della ricchezza è una decisione politica e quindi non tocca agli economisti dare consigli, se non per scegliere le tasse i trasferimenti meno inefficienti. Nella redistribuzione vi è chi perde e chi guadagna e quindi vi è un conflitto di interessi su cui l’economista nulla può dire. Con Coase la distinzione è netta. Il diritto dei mercati, cioè il diritto privato, si occupa di massimizzare la ricchezza, senza aver riguardo ai perdenti; il diritto tributario invece serve per distribuirla.
Coase applica con totale convinzione il principio della massimizzazione della ricchezza alla Kaldor -Hicks. Se la ricchezza globale viene aumentata il danneggiato potrebbe – potenzialmente – essere indennizzato. L’avverbio “potenzialmente” tranquillizza gli economisti anche quando appare chiaro che è una semplice illusione trovare gli avvantaggiati da un intervento regolativo per indennizzare i perdenti. Con Coase nasce l’analisi economica del diritto che vuole individuare un diritto privato finalizzato a massimizzare la ricchezza senza preoccuparsi della distribuzione. Con Coase si ha la prima convinta applicazione del criterio della massimizzazione della ricchezza.
Richard Posner, consapevole che le indicazioni degli economisti non potessero essere spesso attuate, ha cercato una giustificazione filosofico-morale, alla Rawls, per il criterio di Kaldor-Hicks. Egli ha affermato che gli individui posti dietro un velo di ignoranza sceglierebbero il criterio della massimizzazione della ricchezza come criterio per la conduzione della loro società[9]. Nel 1976 Mishan pubblicò un libro sull’analisi costi-benefici in cui spiegava in modo molto semplice il concetto di compensazione potenziale. Era come se gli economisti usassero il criterio senza avere una piena consapevolezza di esso[10].

È sintomatico che molti economisti, ancora oggi, credano che i loro consigli rispettino il principio di Pareto o, per dir meglio, di miglioramento paretiano, secondo il quale solo i cambiamenti in cui nessuno perde e qualcuno guadagna sono desiderabili. Si consideri ad esempio il manuale di Cesare Cosciani, Scienza delle finanze, nella edizione completamente rinnovata del 1991[11]. Nella parte dedicata ai due teoremi dell’economia del benessere si afferma che i cambiamenti in cui qualcuno guadagna e nessuno perde sono desiderabili – sono i cambiamenti paretiani. Alla pagina 63 si affrontano i criteri di compensazione potenziale – in altre parole il criterio di Kaldor-Hicks – e il paragrafo contiene principalmente critiche a tale principio. Si evidenzia con precisione il cosiddetto paradosso di Scitovsky. Si considera il criterio di Kaldor-Hicks come non ottimale per stabilire cosa bisogna compiere allo scopo di correggere i fallimenti del mercato. Ma nel capitolo successivo, il capitolo 5, alla pagina 75 si individuano i fallimenti del mercato e si correggono tutti con il criterio di Kaldor-Hicks. Così, si considera – sono esempi del testo di Cosciani – la produzione dei beni pubblici come la difesa nazionale, l’illuminazione stradale e così via, senza che si richieda che ciascun cittadino paghi una somma per coprire le spese che non sia superiore al suo beneficio, di tal ché egli risulti avvantaggiato. Si immagina implicitamente che lo stato produca i beni pubblici con le imposte senza aver riguardo all’ipotesi di un cittadino che possa ottenere un beneficio inferiore al costo che sopporta. Si applica il criterio di Kaldor – Hicks. In questi casi, si ripete, risulta addirittura impossibile che gli organi politici possano decidere di indennizzare tutti i cittadini che hanno subito una perdita con la produzione del bene pubblico.
Anche l’economista David Friedman[12], figlio del Premio nobel Milton, ha più volte sostenuto che nelle sue conversazioni con gli economisti emerge l’affermazione secondo cui essi applicherebbero solo il criterio di Pareto, quando a David Friedman appare inconcepibile non vedere che essi stanno applicando il criterio di Kaldor-Hicks.
Quando si tassa la produzione di un bene perché vi è una esternalità negativa non si danneggiano il produttore e i consumatori di quel bene?
Possiamo quindi dire con una certa serenità che gli economisti fanno totale applicazione del criterio di Kaldor–Hicks, supportato dai due teoremi dell’economia del benessere, concentrandosi sulla massimizzazione della ricchezza. Questa idea, cioè che la redistribuzione è un fatto politico mentre la massimizzazione della ricchezza è un fatto tecnico, ha in parte distolto l’attenzione degli studiosi dai problemi redistributivi. D’altronde il secondo teorema dell’economia del benessere afferma che, partendo da qualsiasi distribuzione delle risorse, se i fallimenti del mercato sono stati corretti, si arriva ad uno stato del mondo efficiente. Se un diritto è valutato “3” da John ed è valutato “10” da Anne è bene che il diritto vada ad Anne, senza nessun indennizzo. Un eventuale indennizzo è questione politica su cui il tecnico non entra.
Si sono allora in questi anni sviluppati nel tempo due fenomeni, nel mondo del pensiero economico, legati fra loro: da una parte, vi è l’ossessione per l’efficienza da parte degli economisti, per cui anche una grossa redistribuzione è giustificabile se aumenta di poco la ricchezza globale; dall’altro, si è sviluppato un forte disinteresse da parte degli economisti per i problemi redistributivi che vengono ritenuti oggetto di questioni politiche e quindi di competenza degli organi politici. La situazione economico-politica che vede oggi gli economisti principali partecipi dei dibattiti sul futuro dei nostri Paesi, fa sì che essi si occupino di ciò in cui sono preparati e cioè della massimizzazione della ricchezza. La redistribuzione è dimenticata (anche per le grossolane inefficienze – è dovere dirlo – prodotte negli anni precedenti con sbagliate forme di redistribuzione).
Ma è come se ciascun economista dicesse: “io devo perseguire un fine che tutti i miei colleghi vogliono perseguire. Parliamo tutti una precisa lingua: l’efficienza. Vogliamo la massimizzazione della ricchezza, chiamata anche massimizzazione della produzione, secondo il linguaggio di Coase, o massimizzazione del benessere sociale. La redistribuzione della ricchezza può avvenire in migliaia di modi e non vi è nulla di scientifico nel dire che gli individui della classe A, per esempio, debbano avere ricchezza X invece di una ricchezza Y”.
Tuttavia ciò che bisogna qui sottolineare e non stancarsi di sottolineare, è che il secondo teorema dell’economia del benessere rappresenta la giustificazione teorica del primo. Grazie ad esso, infatti, l’economia si può preoccupare delle regole che massimizzano la ricchezza globale perché il secondo teorema ci dice che si può redistribuire la ricchezza secondo le preferenze degli organi politici nel rispetto di certe tecniche (perché dovrebbero essere in teoria trasferimenti a somma fissa, come, ad esempio, il testatico), senza che ciò comprometta l’efficienza dei mercati.
In mancanza del secondo teorema dell’economia del benessere anche la ricerca mirata ad attuare il primo teorema sarebbe pura attività politica.
Vi sono sussidi che distorcono il mercato e casi di redistribuzione male attuata. Una nuova riflessione sui due teoremi dell’economia del benessere, dovrebbe essere necessaria per evitare che condizioni estreme di povertà o la diffusione di ideologie contro il mercato portino di nuovo a condizioni di governi totalitari e illiberali. È bene conservare l’ossessione per l’efficienza ma forse si deve chiedere ad ogni Paese di attuare le riforme in un periodo di tempo ragionevole, senza rischiare che la situazione economica sia tale per cui pochi accumulano grosse ricchezze e la massa si impoverisce fino al punto di giungere ad una condizione di impossibilità di mantenersi. A quel punto la massa si rivolta.

Note

1. Voce “Meritocrazia” di Wikipedia, disponibile al sito: http://it.wikipedia.org/wiki/Meritocrazia

2. La spiegazione dei due teoremi dell’economia del benessere si trova nella gran maggioranza dei manuali di Scienze delle Finanze.

3. K. J. Arrow and G. Debreu (1954), Existence of an equilibrium for a competitive economy, Econometrica 22:265-290

4. N. Kaldor, 1939, Welfare propositions of economics and interpersonal comparisons of utility, Economic Journal 49:549–52, ora,tradotto, in Saggi sulla nuova economia del benessere, a cura di F. Caffè, 1956

5. Hicks, 1939. The Foundations of Welfare Economics, Economic Journal, December 1939, ora tradotto in Saggi sull’economia del benessere cit.

6. L.  Robbins, Interpersonal Comparison of Utility, A Comment, in Economic Journal, December 1938.

7. A. Pigou, The Economics of Welfare , fourth edition, 1932.

8. R. H. Coase, The Problem of Social Cost, 3 J. Law Econ. 1, 1960

9. R. Posner, Utilitarism, Economics, and Legal Theory, 8 J. of Legal Stud. 103, 1979.

10. E. J. Mishan, Cost-Benefit – Analysis, prima edizione del 1976. Ora il volume è alla quinta edizione e il numero elevatissimo di citazioni mette in evidenza come sul tema gli economisti sembra che  abbiano bisogno di un testo a cui far riferimento. Sul concetto di miglioramento paretiano, ad esempio non si cita nessuno.

11. C. Cosciani, Scienza delle finanze, edizione completamente rinnovata, Torino, 1991.

12. D. D. Friedman, Hidden Order, p.25, Princeton, 2000.