Hyman Minsky e le crisi

Il mio ricordo di Hyman Minsky è nutrito di insegnamenti ricevuti dallo studioso e di manifestazioni di simpatia dispensate dall’amico, sin dalla vacanza con le nostre famiglie nel luglio del 1979 nella verde Val Pusteria: Tesido, Braies, Anterselva, il Mudlerhof. Anche in luoghi meno ameni – la Banca d’Italia, dove lavoravo, o convegni accademici – il tema delle conversazioni con lui era ovviamente l’instabilità del capitalismo moderno, della “Wall Street Economy”.

Quanto sono arrivato a pensare della instabilità come ex-banchiere centrale deve non poco al contributo da economista critico di Hyman. Un banchiere centrale, anche suo malgrado, non può essere mainstream. Altrimenti, farebbe un altro mestiere. Non può compiere l’atto di fede che i mercati siano efficienti e il sistema stabile sui tre fronti della produzione, dei prezzi, della finanza. La ragion d’essere della banca centrale è contenere l’instabilità, quantomeno limitare i guasti che l’instabilità provoca. Il banchiere centrale ha il dovere di non escludere mai che “possa accadere di nuovo”. Sulla scia di Minsky, proverò a dire perché, in che senso, ed entro quali limiti si può agire.

1. Il capitalismo è economicamente instabile. Questa sua caratteristica è inestirpabile. La ragione è stata chiarita da Keynes. Cito dalla General Theory: “L’efficienza marginale del capitale dipende dalle aspettative correnti sul rendimento futuro dei beni capitali. Ma la base di tali aspettative è molto precaria. Esse sono passibili di mutamenti improvvisi e violenti. L’efficienza marginale del capitale è determinata dalla psicologia incontrollabile, riottosa, del mondo degli affari in una economia di capitalismo individualistico”[1]. In una economia tanto anarchica l’instabilità ha un doppio volto, “reale” e “finanziario”: “Il volume degli investimenti è influenzato da rischi di due tipi. Il primo è il rischio dell’imprenditore, o del debitore, e deriva dai dubbi che sorgono nella sua mente riguardo alla probabilità di realizzare davvero il rendimento che spera di ottenere. Se si investe soltanto il danaro proprio, questo è l’unico rischio che conta. Ma allorché esiste un sistema di debito e credito diviene rilevante un secondo tipo di rischio, che possiamo dire rischio del creditore[2].

2. Dopo Keynes, l’alta teoria delle fluttuazioni economiche – da Samuelson a Hicks, a Goodwin, per non dire di Schumpeter – è stata essenzialmente “reale”. Si è incentrata su risparmio/investimento in termini reali, in modelli dinamici senza moneta. Sir Roy Harrod ha mostrato che il sistema non ha stabilizzatori endogeni, automatici: se il tasso di crescita effettivo è inferiore a quello “giustificato” il risparmio eccede l’investimento e la deflazione dei prezzi o l’accumularsi delle scorte limitano ulteriormente l’investimento, perpetuano lo squilibrio in una spirale recessiva[3]. L’idea che normalizzare la finanza, regolandola, renda il capitalismo stabile è ovviamente respinta dai moderni teorici del “real business cycle”. Patrick Minford lo fa in modo esplicito sulla base del più recente modello econometrico dell’Inghilterra da lui proposto[4]. In questi modelli, schumpeteriani, la finanza segue e amplifica la crisi da shocks non stazionari di natura reale, essenzialmente dovuti alle grandi innovazioni di prodotto e alle onde di produttività.

3. Minsky ha preso le mosse da Keynes per sviluppare sia la determinante “reale” sia, e soprattutto, la determinante “finanziaria” della instabilità. A suo parere Keynes non aveva approfondito quest’ultima: “Keynes non è entrato nel dettaglio dei modi in cui la finanza ha influito sul funzionamento del sistema. Non ha mai specificato un modello – o proposto una spiegazione – su come evolve la struttura delle passività di imprese, banche, altre istituzioni finanziarie”[5]. Le passività, i debiti, il passato pesano sul presente. L’altro gigante su cui Minsky ha costruito la sua teoria è Irving Fisher[6]. I debiti accumulati nel passato diventano troppi, strangolano l’economia, quando il tasso reale d’interesse è esaltato da una deflazione dei prezzi superiore alle attese. Nondimeno, a parere di Minsky, “anche Fisher ha mancato di offrirci una spiegazione, o una teoria, della crisi”; la sua era una – illuminante – “descrizione di ciò che accade dopo lo scoppio della crisi”[7].

4. Al pari della eziologia, la manifestazione dell’instabilità del capitalismo può essere duplice, reale e finanziaria. Sia nelle determinanti sia nelle forme fenomeniche crisi reali, crisi finanziarie, crisi reali e insieme finanziarie hanno punteggiato i due secoli seguiti alla Rivoluzione Industriale inglese[8]. Le crisi reali e insieme finanziarie sono state le più frequenti perché la finanza, anche quando non le causa, aggrava le crisi. Nel secolo scorso, la crisi internazionale, e italiana, degli anni Settanta fu essenzialmente reale. La crisi internazionale, e italiana, degli anni Trenta fu a un tempo reale e finanziaria. La crisi internazionale, e italiana, del 1907 fu essenzialmente finanziaria. Essenzialmente finanziarie furono anche le crisi del 1987 (Wall Street), 1995 (Messico), 1998 (Ltcm). Vennero limitate alla sfera finanziaria dalla politica internazionalmente coordinata della Federal Reserve di Alan Greenspan.

5. L’accertamento del peso relativo delle due dimensioni della instabilità – la reale e la finanziaria – è tuttavia di rado agevole. L’ultima crisi, del 2008-2009, è più spesso riguardata come finanziaria nelle cause, ancorché reale e finanziaria nelle manifestazioni. Gli stessi sostenitori della matrice finanziaria della crisi hanno peraltro opinioni divergenti sulle sue specifiche cause. Negli Stati Uniti le determinanti sono state identificate da economisti, operatori di mercato, giornalisti finanziari, autorità invocando, e in varia guisa combinando, fattori inclusi in una lunga lista: carenza e asimmetria di informazioni; titoli potenzialmente “tossici”; passaggio negli affari bancari da “originate to hold” a “originate to distribute”; passaggio nella valutazione dei bilanci societari dal costo storico al “fair value”; comportamenti illegali e immorali da parte di finanzieri distorti dalle stock options; deregulation della separatezza fra attività commerciale e d’investimento delle banche e dei limiti all’indebitamento dei grandi broker-dealers; regolatori incapaci o corrivi; banche troppo grandi per fallire e loro consapevole moral hazard; garanzie statali implicite attribuite a istituzioni inefficienti, come Fannie Mae e Freddie Mac; diffondersi nei paesi anglosassoni della cultura neoclassica dei mercati finanziari perfetti[9]. Lo stesso accertamento dei fatti finanziari della crisi resta, a distanza di anni, incerto. Lo è in particolare riguardo al momento d’inizio della crisi, alla scintilla che l’ha innescata, alle sue sequenze temporali, ai suoi effetti distributivi, alle decisioni delle autorità e degli operatori coinvolti. Gli storici economici ne discuteranno per decenni, come è avvenuto per la crisi, peraltro ben più grave, del 1929.

6. Personalmente, suggerirei di non escludere che anche in questa crisi siano state molto influenti, se non decisive, le determinanti reali. Nelle sedi e nei fori della cooperazione internazionale – come il Financial Stability Forum – prima dello scoppio della bolla immobiliare degli Stati Uniti nel 2006 e prima del crac Lehman del 2008 la Banca d’Italia aveva per anni insistito sui fattori reali di instabilità: gli eccessi di investimento nell’edilizia in diversi paesi; le sperequazioni distributive nelle economie anglosassoni; i bassi salari dei lavoratori americani rispetto ai loro debiti ipotecari; i disavanzi di parte corrente degli USA e i copiosi afflussi netti di fondi dall’estero; il contrasto fra la dinamica della produttività da ICT e l’offerta rigida di fonti d’energia e di altri prodotti primari. Un paradosso della interpretazione finanziaria della crisi americana è che prima del 2007 i rischi dei CDO erano stati segnalati da rendimenti ben più elevati di quelli offerti dalle normali obbligazioni private di eguale rating; inoltre, le azioni e le opzioni detenute nella società da loro stessi amministrata tendono a rendere i manager più prudenti, non meno prudenti; infine, il leverage di Lehman, Merrill Lynch, Bear Stearns e Goldman Sachs – non quello di Morgan Stanley – era più alto nel 1998 che nel 2006 e non fu influenzato da attenuazione dei limiti d’indebitamento da parte della SEC nel 2004[10]. Un paradosso della interpretazione finanziaria della crisi internazionale è che Giappone e Italia hanno subìto la più forte caduta di produzione nel 2008-2009 (prossima al 7 per cento), sebbene avessero sperimentato difficoltà ben minori nelle banche e nella finanza. In entrambi i casi il Pil è crollato per le risalenti debolezze d’ordine reale dell’economia, non a causa della finanza.

7. Minsky si era molto impegnato nel proporre strumenti e meccanismi istituzionali, come la piena occupazione assicurata dallo Stato con salario minimo garantito, volti alla stabilità “reale” del sistema. Allo stesso tempo aveva, con ragione, insistito nell’avvertire che la finanza “fragile” – con rilevanti posizioni “speculative” e “Ponzi” – è assimilabile a una Santa Barbara che attende solo l’accensione della miccia per esplodere. Minsky riconduce l’accumulo dell’esplosivo al legame fra espansione ciclica e indebolimento della struttura finanziaria: “Il procedere del boom vede mutare le passività finanziarie su tre piani. Le imprese si finanziano sempre più con debiti, le famiglie e le imprese riducono le disponibilità di moneta e di altre attività liquide in rapporto ai loro debiti, le “banche” espandono i prestiti a spese dei titoli che detengono, in particolare dei titoli di stato”[11]. La miscela costituita da una finanza fragile è poi fatta esplodere da una cattiva notizia, qualsivoglia, che giunga sulla scia di una sequela di buone notizie, ovvero dalle scommesse perse in un sistema economico la cui essenza è nell’alimentarsi di grandi scommesse sulla base della limitata informazione disponibile. Dobbiamo a Kindleberger la disamina storica delle scommesse andate male che, innestate nel modello di Minsky, hanno innescato le crisi finanziarie più gravi[12].

8. Discende da ciò la indicazione di prevenire debiti “eccessivi”, privati e statali, e una finanza “eccessivamente” fragile. La stabilità è un bene pubblico, non rivale, non esclusivo. Occorrono regolamentazione e supervisione. Da decenni la finanza è l’industria più regolamentata e superveduta. In Italia lo è dal 1926. Non è vero che prima del 2008 su scala mondiale vi sia stata generalizzata “deregulation” se si considera, come si deve, l’insieme di banche e mercati. A differenza degli intermediari, i mercati sono stati ovunque più intensamente regolamentati. Piuttosto, negli anni pre-2008 è stata resa meno incisiva la supervisione. Di diritto e di fatto è stata ridimensionata la discrezionalità delle banche centrali e degli altri organismi a cui è demandata la supervisione degli intermediari bancari e finanziari. Si è trattato di un errore. La fragilità finanziaria assume forme sempre diverse. Per loro natura le regole sono condannate a inseguire la innovazione finanziaria, che inevitabilmente sfugge al legislatore. Al tempo stesso non devono sopprimerla, perché essa è funzionale al sistema. Le regole possono limitare la propensione al rischio delle banche, ma non fino al punto di impedirla. Possono limitare il credito accordato attraverso i canali noti, ma esisterà sempre un sistema creditizio “ombra”. Possono accrescere l’informazione finanziaria dei risparmiatori/contribuenti, ma l’informazione e la capacità di usarla non saranno mai sufficienti. Un esercizio controfattuale che chi nutre esclusiva, a mio avviso eccessiva, fiducia nelle regole deve ancora effettuare è il seguente: quali, specifiche regole avrebbero prevenuto l’instabilità finanziaria del 2008-2009? La supervisione, se è attrezzata, può invece intervenire – più sugli intermediari, che sui mercati – con minori ritardi e con maggiore gradualità rispetto alle regole. Per questo, alla supervisione va riconosciuta discrezionalità. Ma la discrezionalità è sgradita agli operatori della finanza ed è riguardata con sospetto dagli ordinamenti giuridici, che temono l’arbitrario eccesso di potere dei supervisori. Minsky credeva più nella discrezionalità che nelle regole, in politica monetaria come nella vigilanza. In Italia abbiamo avuto stabilità finanziaria da quando la vigilanza, dopo il 1936, è stata rafforzata e affidata alla discrezionalità amministrativa della Banca d’Italia. Fino ad allora il sistema finanziario italiano era stato tra i più instabili, finanche nel confronto con quello, storicamente molto instabile, degli Stati Uniti. Alla efficacia della supervisione della Banca d’Italia – nonostante le improvvide modifiche introdotte con la cosiddetta legge sul risparmio del 2005 – si deve in buona misura anche la relativa solidità mostrata dalle banche italiane nell’ultima crisi, che tuttavia non è risolta.

9. Prevedere se, quando, come avverrà una crisi finanziaria è arduo, data la natura del fenomeno. E’ arduo, quindi, prevenirla. Estirpare l’instabilità dalle economie di mercato capitalistiche, eliminare strutturalmente le crisi, è impossibile. Regole e supervisione possono essere rese più efficaci, lungo linee che lo stesso Minsky ha indicato. Dopo la crisi 2008-2009 nuove regole per la finanza, non particolarmenre severe, sono state configurate, negli Stati Uniti (Dodd-Frank Act)[13], nel Regno Unito (sulla base del rapporto Vickers)[14], nell’Unione Europea. Ma l’anarchica spinta speculativa del capitalismo e l’endogeneità della dimensione monetaria del sistema non consentiranno il raggiungimento di una “fragilità zero” della finanza. Anche qualora ciò avvenisse resterebbe la matrice ultima della instabilità: quella reale, che la finanza non sempre provoca, più spesso esalta. Quindi, fatto ogni sforzo per contenere le crisi finanziarie, alla politica economica non resta che cercare di lenire le conseguenze delle crisi, reali e/o finanziarie, che avranno inevitabilmente luogo.

10. Le leve rimangono le due ben note: sostegno alla finanza, col credito di ultima istanza, sostegno all’economia, con lo stimolo della domanda globale. Vanno, tuttavia, entrambe affinate.

La prima leva, concepita da Thornton, banchiere, nel 1802, è stata definita nei canoni da Bagehot, brilliant amateur, nel 1873. In seguito si è evoluta in politica monetaria. Il canone essenziale è, oggi ancor più di ieri, che il finanziamento diretto della banca centrale alle banche in difficoltà non generi moral hazard, non renda irresponsabile il comportamento dei banchieri. Ciò è possibile se, oltre a essere non automatico e costoso, il credito viene gestito con massima discrezionalità. E’ soprattutto al fine di distinguere illiquidità da insolvenza e valutare i rischi di contagio che alla banca centrale vanno affidati ampi poteri di intervento sugli intermediari. Nondimeno, è inopportuno estendere l’impegno della banca centrale dalla stabilizzazione dei prezzi dei beni di consumo alla stabilizzazione dei prezzi delle attività finanziarie e reali, con l’improbabile finalità di prevenire gli eccessi di borsa.

La seconda leva è quella concepita da Keynes nel 1936: una politica monetaria e fiscale espansiva. In una recessione profonda, tuttavia, il pessimismo delle aspettative di vendita e di profitto fa sì che la politica monetaria incontri il suo limite nella elevata elasticità della domanda di moneta al tasso d’interesse e nella bassa elasticità degli investimenti al minor costo e alla più larga disponibilità del credito. La politica fiscale deve quindi potersi spingere sino a quella che Keynes chiamava “socializzazione” degli investimenti. La variazione degli investimenti pubblici ha un effetto sulla domanda di circa tre volte superiore a quello determinato dalla variazione delle spese correnti. A seconda della sua composizione anche un bilancio in equilibrio può avere un notevole effetto moltiplicativo. Tenuto conto dell’impatto unitario restrittivo – illustrato da Haavelmo[15] – nel caso di un bilancio in equilibrio che diminuisca di dimensione, ha effetti espansivi potenzialmente rilevanti un bilancio più piccolo e in pareggio in cui tuttavia alle minori spese correnti si uniscano la detassazione e soprattutto l’aumento della spesa per investimenti.

Una indiscriminata dilatazione di bilanci in disavanzo, invece, ha effetti antirecessivi limitati e temporanei. Generando debito pubblico, essa pone le premesse di nuovi fenomeni di instabilità. È quanto sta avvenendo in Europa e i Italia. L’instabilità assume forme prima facie finanziarie: premi al rischio elevati sul debito sovrano, difficoltà di collocamento dei titoli pubblici, caduta dei loro corsi, perdite patrimoniali delle banche che li detengono. Le tensioni finanziarie hanno a propria volta ricadute negative sui consumi e sugli investimenti privati, comprimendo l’attività produttiva. Ma la radice della crisi non muta. Resta di natura “reale”. Resterebbe tale anche se la banca centrale europea, contravvenendo al suo statuto, comprasse tutti i titoli pubblici che il mercato non assorbe. Un classico della stessa teoria della politica monetaria[16], troppo spesso dimenticato, è che la stabilizzazione del tasso d’interesse si giustifica solo di fronte a shocks di natura monetaria. Molto più complesso è il governo della moneta allorché gli squilibri hanno anche, e prevalentemente, una radice reale.

In particolare in Italia la radice della crisi risiede nella improduttività delle imprese. Risiede nella profondità della recessione, con il Pil nel 2012 in caduta del 3 per cento, sette punti al disotto del livello del 2007. Risiede nella incapacità di chi risponde del pubblico bilancio di modificarne la composizione nelle direzioni, a cui ho alluso, che favorirebbero la ripresa dell’economia e un suo credibile attestarsi su un sentiero di crescita di lungo periodo.

Note

1. J. M. Keynes, The General Theory of Employment Interest and Money, Macmillan, London 1936, p. 315 e p. 317.

2. Ibidem, p. 144.

3. Cfr., da ultimo, R. Harrod, Economic Dynamics, Macmillan, London 1973.

4. D. Meenagh e P. Minford, Non Stationary Shocks, Crises and Policy, in “Rivista Italiana degli Economisti”, 2012, pp. 191-224.

5. H. P. Minsky, John Maynard Keynes, Columbia University Press, New York 1975, p. 106.

6. I. Fisher, Booms and Depression: Some First Principles, Adelphi, New York 1932 e The Debt Deflation Theory of Great Depressions, in “Econometrica”, 1933, pp. 337-357.

7. Minsky, op. cit., p. 64.

8. Una sintetica “mappa” delle crisi nella storia del capitalismo industriale imperniata su tale triplice distinzione è in P. Ciocca, Crisi, economica e finanziaria, in Enciclopedia delle Scienze Sociali, Vol. II, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, Roma 1992 (ristampato in Id. Il tempo dell’economia. Strutture, fatti, interpreti del Novecento, Bollati Boringhieri, Torino 2004). Limitato alle crisi finanziarie, ma abbastanza confusamente e con varie imprecisioni esteso a quelle monetarie e valutarie e soprattutto a economie per loro natura totalmente diverse dal capitalismo post-rivoluzione industriale, è C.M. Reinhart e K. S. Rogoff, This Time Is Different. Eight Centuries of Financial Folly, Princeton University Press, Princeton 2009.

9.  Per una sintetica rassegna cfr. A.W. Lo, Reading About the Financial Crisis: A Twenty-One-Book Review, in Journal of Economic Literature, 2012, pp.151-178.

10. Lo, op. cit. e A.W. Lo e M.T. Mueller, Warning: Physics Envy May Be Hazardous to Your Wealth!, in “Journal of Investment Management”, 2010, pp.13-63.

11. Minsky, op. cit., p. 123.

12. C.P. Kindleberger, Manias, Panics, and Crashes. A History of Financial Crises, Macmillan, London 1978. La versione dello schema di Minsky a cui Kindleberger si è soprattutto riferito è H.P. Minsky, Financial Stability Revisited: The Economics of Disaster, in Board of Governors of the Federal Reserve System, Reappraisal of the Federal Reserve Discount Mechanism, Washington, D.C., June 1972.

13. Sulla complessità, e sui limiti, della legge Dodd-Frank cfr. D. Skeel, Making Sense of the New Financial Deal, ILE, Research Paper No. 11-21, Philadelphia, 2011.

14. Una sintesi è in A. de Petris e L. Esposito, Il nuovo approccio alla regolamentazione bancaria nel Regno Unito: che cosa indica sul futuro della vigilanza, in “Bancaria”, 2012, pp. 92-102.

15. T. Haavelmo, Multiplier Effects of a Balanced Budget, in “Econometrica”, 1945, pp.311-318.

16. W. Poole, Optimal Choice of  Monetary Policy Instruments in a Simple Stochastic Macromodel, in “Quarterly Journal of Economics”, May 1970.