Governo del territorio: riscriviamo le regole

1.    Riflettere sul profilo urbanistico della legge 1150/1942, può farci cadere, da una parte, nel rischio dell’ossimoro e, dall’altro, della ovvietà.
Il problema non è nuovo. Caratterizza da sempre la costruzione delle leggi urbanistiche e ciò per via della natura ibrida delle stesse: un po’ di contenuto – quindi espressione di politiche più o meno esplicite del territorio e della città -, un po’ di procedura, per quanto attiene il processo di regolazione della decisione pubblico /collettiva, influenzante quella dell’operatore privato, sull’uso del suolo, nelle forme e nei modi possibili sulla base della legge stessa oltre che di principi generali.
Non si può non considerare che la legge 1150/1942 è stata scritta antecedentemente alla nostra Carta Costituzionale. Né che molti principi da essa assunti derivano oltre che dalla tradizione culturale storica nazionale – dalla esperienza di governo della seconda metà dell’800 soprattutto -, anche da quella di altri paesi europei (sia in materia di trattamento della proprietà immobiliare che di pianificazione territoriale urbanistica).
Il carattere ibrido di cui sopra, rilevabile anche nei paesi che governano per «policies» e non solo per «atto amministrativo», deriva in larga misura dalla natura della disciplina dell’urbanistica e dal significato polisemico che si attribuisce alla parola «urbanistica»:

Come si vede molte definizioni, forse neanche tutte quelle che sono state date nel tempo. Da quelle più nobili, di elevato valore culturale e sociale, a quelle più mercatiste.
Altre certamente se ne possono dare in ordine all’ «imperativo ecologico» che da qualche anno domina il mondo, riassumibile nell’espressione «urbanistica per sostenibilità», dopo che per molto tempo l’urbanistica è stata accusata di essere «sviluppista» (per i suoi critici l’ambiente era soltanto risorsa da sfruttare, anche se è all’urbanistica igienista e sociale che si deve, ad esempio, l’invenzione del «parco» in città come misura di compensazione economica e sopratutto sociale).
Ritornando alla prima proposizione cerco di rispondere all’interrogativo implicito che la alimenta: la legge 1150/1942 è legge meramente di procedura o persegue anche finalità sociali e di assetto del territorio? Ciò senza dare giudizi su tali eventuali finalità.
Oltre la questione generale della conformazione della proprietà immobiliare al piano urbanistico – questione che comunque rileva nella determinazione della forma urbana e prima ancora della politica dell’assetto del territorio -, la legge persegue obiettivi urbanistico territoriali espliciti?
La risposta formale a tale interrogativo, solo parzialmente retorico, la si trova già nelle prime righe della legge. Si comprende che essa era parte di un disegno più generale. Sempre si sono ricordate la concomitanza con l’emanazione del «nuovo» Codice Civile e le precedenti leggi sulle bellezze artistiche, monumentali, naturali e paesaggistiche. Il disegno generale aveva al centro la «ruralizzazione» dell’Italia e con essa il contrasto all’inurbamento ( la legge voleva favorire il «disurbanamento»). Non è azzardato affermare che volesse essere il braccio operativo della legge, di poco antecedente, che vietava l’immigrazione nelle città.
Legge che rimase in vita fino alla metà degli anni ’50 (necessità di poter dimostrare di godere della disponibilità d’un alloggio e di aver un posto di lavoro stabile, previa garanzia del datore di lavoro).
Nell’ottica della ruralizzazione e dell’impedire la crescita delle città si può dire – paradossalmente – che l’obiettivo sia stato raggiunto: le città italiane sono infatti «piccole» (anche le maggiori) rispetto alla tendenza generale dell’urbanizzazione e la diffusione insediativa è oramai massima. La maggior parte delle popolazione abita infatti i territori della «dispersione insediativa» (bassa densità, periurbano, etc.)!
Ma sicuramente si tratta d’un effetto che va imputato ad «altro» (meglio, ad «altri fattori»).
L’obiettivo – quanto in realtà voluto è questione da definire -, non è stato certo perseguito dai piani che sono stati fatti in applicazione della legge, ad eccezione di quelli immediatamente successivi alla sua emanazione, che ancora risentivano dell’approccio della legge madre del 1865.
E’ indubbio però che il legislatore avesse tentato di inserire «contenuti» nella legge di procedura.
Per realizzare tale intento ci si affidava alla estensione del «dominio» del piano regolatore comunale all’intero territorio comunale.
Di fatto però, per molto tempo, i piani regolatori comunali riproposero i vecchi piani, cioè i piani regolatori e di ampliamento (dell’urbano), che non erano altro che l’applicazione della logica della progettazione dell’opera pubblica: la città era opera pubblica a tutti gli effetti; da ciò lo strumento dell’esproprio. Il quale, si ricorda, nello spirito della legge fondamentale del 1865, doveva essere applicato in modo equitativo e sobrio.
Si doveva quasi chiedere scusa alla proprietà da espropriare.
La «violenza» dello strumento (e poi quasi l’impotenza) dell’esproprio, si manifesta molto tempo dopo, con gli anni ’70 e ‘80, per poi lasciare il posto, di fatto, a strumenti altri. Ed anche prima delle censure della giurisprudenza europea e della Corte dei diritti dell’uomo alla nostra legislazione sugli espropri.
E’ indubbio che è al contenuto indistinto della forma urbana disegnata dal piano regolatore che si deve la perdita del senso della ricerca morfologica sulla città. L’uso poco critico della tecnica dell’azzonamento di derivazione protofunzionalista (specializzazione dell’uso del suolo, separatezza delle funzioni, etc.) farà il resto: tanto che oggi della condizione di «mixité» sociale, funzionale e morfologica della città ne facciamo uno degli obiettivi fondamentali della pianificazione della città, che deve essere anche sostenibile, equa e «giusta».
In questo modo si è perduta la cultura della città, che tanto aveva segnato la storia nazionale. Si è diseducato alla città, se ne è legittimato il dispregio e lo stesso oltraggio. Ci si è dimenticati della città, bene pubblico, perché sociale.
Oggi la stessa cosa si dice, con molta enfasi e poca concretezza, con l’espressione «bene comune».

2.   Non è azzardato quindi sostenere che, nel mentre la legge del 1942 codifica la pianificazione del territorio e della città, di fatto venga sancita la morte della politica della città, che il fascismo praticò, anche se nella versione «antiurbana». Con l’eccezione delle città di fondazione.
La Repubblica non farà mai politica della città. Si è ritenuto che la pianificazione – meglio la produzione di piani – potesse supplire l’assenza di specifiche politiche del territorio e della città!
Così non è stato. Ogni piano locale si è trovato a combattere una battaglia persa in partenza. Nella solitudine. Cercando di supplire all’assenza di obiettivi di politica della città. La “politica della casa” in luogo di quella della città. Da ciò sono derivati equivoci che hanno portato ad evidenti errori; ad esempio, la confusione tra il «quartiere» e la città: siamo riusciti a costruire quartieri di 60.000 abitanti ed oltre (anche di 100.00 e più abitanti)! Quindi realtà urbane senza base economica propria, semplicemente «aggiungendo», nella speranza che fosse sufficiente il solo aumento della popolazione a sviluppare la città.

3.   Tra le altre confusioni vi è quella della funzione della legge nella politica fondiaria. Si è «raccontato» – e qualcuno lo racconta ancora così – che una sua «buona» applicazione avrebbe taumargicamente contenuto (se non addirittura combattuto con successo) la rendita immobiliare e con essa contrastato la cosiddetta speculazione!
E’ mia profonda convinzione che la validità a-temporale del piano urbanistico e la modalità autoritativa dell’allocazione dei diritti di costruzione, abbiano rafforzato la proprietà e con essa le conseguenze negative che non solo si riteneva di poter contenere, ma addirittura di poter impedire.
Sia che la proprietà fosse privata che pubblica: questa considerazione è oggi facile farla. L’esigenza di valorizzare i demani ed i patrimoni pubblici, seppure maturata abbastanza di recente, mostra come, di fatto, non vi è quasi differenza.
A-temporalità e assenza di vera competizione nell’assegnazione dei diritti edificatori hanno fatto sì che i mali che si vorrebbero prevenire con il piano urbanistico è proprio da questo che sono determinati.
E’ quel piano che ha creato la «lotteria fondiaria» che per molto tempo è stata la pianificazione urbanistica. Con vincitori sicuri di poter sfruttare quando lo ritenevano più opportuno i diritti edificatori conquistati nella lotteria.
Diritti, per di più a lungo confusi nelle previsioni edificatorie, che creavano valore neanche soggetto a tassazione. Se non all’atto di un passaggio di proprietà.
Questo modo di considerare gli interessi – espressi solo in quanto potere fondiario – non ha consentito l’emergere della domanda di città dei soggetti / attori finali della città: le famiglie, i «ménage», i singoli, gli operatori economici diversi da quelli immobiliari. Ha fatto divenire marginale la pianificazione della gestione della città, previo il piano urbanistico. O, per lo meno, ha impedito di includere nel piano urbanistico anche il «management» urbano.
Ha favorito che non si determinasse la diversificazione anche solo funzionale tra le figure degli operatori urbani – il promotore ed il realizzatore -, di fatto  schiacciando il ruolo del promoter / developer. Soprattutto per quanto riguarda la relazione «virtuosa» tra l’ideazione della trasformazione – ritrasformazione e la disponibilità del suolo, che ha finito con il giocare il ruolo di presupposto / pre-condizione per l’operazione di trasformazione.
Da ciò anche la scarsa dinamicità ed innovatività della città italiana (soprattutto nel sistema delle attività / funzioni). E, di conseguenza, la scarsa diversificazione dei «prodotti urbani». Dalla città alle sue componenti.
Malgrado l’obiettivo dichiarato del contrasto dell’inurbamento, quindi della espansione della città, le cose – come è evidente – sono andate ben diversamente.
La stessa cosa è accaduta con la legge 10/1978. Ritenuta la legge concepita per la grande proprietà ed i grandi operatori, di fatto ha segnato l’affermarsi della diffusione insediativa e dell’investimento di taglia ridotta. Quasi del modulo a disposizione della singola famiglia media. Altro che i «sistemi urbani» tanto paventati dagli allarmati ortodossi della «religione della pianificazione». Astratta, ovviamente!
E’ prevalsa la essenza di legge di procedura, sul solco della tradizione pre-colbertiana. Ricordo che per via della esigenza di tassare le “cose” – cioè la proprietà immobiliare -, con Colbert l’urbanistica diventa urbanistica delle “cose”. Antecedentemente, l’urbanistica era disciplina dei comportamenti. Sociali, ma soprattutto di quelli della pubblica amministrazione nei confronti della proprietà.
Nell’essere legge quasi esclusivamente di procedura, in essa si ritrovano principi profondamente liberali. Del resto già presenti nella legislazione urbanistica dello Stato unitario.
La procedura è garanzia del rispetto della proprietà nei confronti dello stato autoritativo (non dimentichiamo che la legge è concepita e formata quando lo stato era autoritario).
E’ così che si spiega l’impianto della pianificazione territoriale – urbanistica costruito dalla legge.
I piani – strutturati su tre livelli –, sono una sorta di «by product». Il loro scopo essenziale era quello di dare certezza alla proprietà, che si realizza con il rilascio della (allora) «licenza edilizia».
In una logica di conformazione dall’alto verso il basso, dal generale al particolare, dal grande (territorio) al piccolo (particella).
Questa impostazione – tutto pianificato non solo il territorio, ma anche i comportamenti degli attori/soggetti del territorio (singoli, famiglie, imprese pubbliche, private e miste) – , ha giustificato la critica di visione «panurbanistica» del mondo che ha caratterizzato gli anni ’70 e parte degli anni ’80.
In realtà si trattava più di retorica della pianificazione che non di (reale) pianificazione concreta, operazionabile.
Alla panurbanistica corrispondeva un pianificatore demiurgo. Una sorta di Faust alla fine delle sue trasformazioni!
Se quella visione era eccessiva, lo è altrettanto la “riduzione” dell’urbanistica odierna. Di fatto, “settore” ed anche piuttosto debole rispetto agli altri!
La conformazione della proprietà (e della forma del territorio e degli insediamenti), avveniva (e avviene) per via mediata dall’assetto del territorio e via, via dall’uso del suolo.
Sarà il DPR n. 616/1977 a definire la distinzione tra assetto ed uso.
L’urbanizzazione moderna, prima che la definizione giuridica, spazzerà via la distinzione tra assetto ed uso. Soprattutto la «gerarchia». Oggi gli usi del suolo sono spesso «più» strutturanti degli assetti. Questione che rileva soprattutto per quanto riguarda le infrastrutture.
L’impostazione dell’architettura della pianificazione, obbligata dall’esigenza di «giustificare» (“motivare”) le scelte di assetto del territorio ed uso del suolo, ha reso scarsamente operativa l’urbanistica.
Tentativi di renderla più operativa, avvicinando decisione e realizzazione ce ne sono stati. Ma all’ «urbanistica per operazioni» non si è mai giunti. Anche se si è attenuato l’obbligo della conformità del piano esecutivo a quello generale.
Uno statuto di garanzia oltre che operativo per l’urbanistica per operazioni non siamo stati ancora in grado di costruirlo.
L’obbligo e la tirannia della provvedimentazione estesa – quella del piano regolatore, atto unitario a contenuto diseguale -, non sono mai stati superati.
L’urbanistica per operazioni comporta inevitabilmente un confronto diretto, anche duro, con la proprietà. Ed allo scoperto. Difficile da riportare alla logica del tradizionale piano urbanistico italiano.
Interessi e portatori degli stessi sono infatti evidenti (come accade nel rinnovo urbano in genere).
L’operazionabilità dell’urbanistica era maggiore nella legge del 1951 sui piani di ricostruzione che non in tante leggi successive, comprese quelle regionali.
La legge del 1951 è stata condannata da un «eccesso di successo», ma la sua impostazione era tutt’altro che disprezzabile. Anche se ne fu fatto (forse) un abuso nella applicazione.

4.   Da tutto ciò la definizione della urbanistica disegnata dalla legge del 1942 come di una urbanistica per piani e non per prodotti. Di processo e non di prodotto.
E, soprattutto, di prodotti non voluti. E cioè di una città contenuta nella crescita a vantaggio di uno spazio rurale ben urbanizzato.
A risentirne sono stati sia la città che lo spazio rurale.
L’impresa era ardua, mancando una cultura dello «spazio rurale» (l’«éspace rural» della tradizione francese). E soprattutto una resistente economia dello spazio rurale.
Il grave è che si è persa anche la cultura della città, che era, al contrario, nel nostro patrimonio.
Lo spazio rurale è stato trattato come deposito dei rifiuti della città. Al massimo come riserva fondiaria. Non è stata fatta alcuna costruzione sociale di esso.
La città è stata a lungo vista come nemica dalle forze politiche maggiori; lo spazio rurale solo come bacino elettorale docile e sicuro per quella che è stata a lungo la maggiore forza politica del paese.

5. Oltre al già ricordato piano regolatore e di ampliamento della legge del 1865, di fatto reinterpretato come «particolareggiato», «attuativo» o «esecutivo» – i tre aggettivi sono molti significativi! – dove trova origine l’impianto pianificatorio della legge?
Senz’altro nella pianificazione territoriale dell’epoca delle bonifiche: dapprima delle leggi Baccarini, ministro di Cavour e poi da quella del Serpieri con la bonifica integrale. Vera e propria «invenzione» del territorio. La terra sottratta alle acque, le infrastrutture tutte, le città di fondazione, la rete delle attrezzature di servizio all’uomo ed alle attività produttive.
Soprattutto le infrastrutture che, come nell’ingegneria idraulica settecentesca, costruiscono il territorio. Ce ne è ancora bisogno: la dimostrazione, nelle frequenti emergenze idrogeologiche.
La visione di Serpieri era colta ed informata, brillante sintesi dell’esperienza pianificatoria sovietica e del «new deal» roosveltiano. Mediata dalle conoscenze profonde del territorio oltre che della tecnica della pianificazione, di molti intellettuali che lavorano alla costruzione della legge tutt’altro che provinciali.

6. E’ questa la spiegazione dell’approccio «razional comprensivo» della pianificazione privilegiato dalla legge.
Probabilmente scelto con consapevolezza. Già all’epoca erano conosciuti altri approcci. Ad esempio, quello «incrementalista» e «strategico» che si sono, seppure con alterne vicende, affermati in seguito.
Soprattutto come mutazione dalla pianificazione militare ed aziendale.
Solo qualche anno dopo quello che era definito «integrale» verrà detto «organico».
L’idea era quella di una pianificazione totale. Anche se la Repubblica, solo qualche anno dopo il 1942, quasi abbandonò la parola (e quindi la nozione) pianificazione a vantaggio di programmazione.
Considerata più «neutra», meno accusabile di un’impostazione culturale «dirigista».
Solo l’urbanistica manterrà l’uso delle espressioni pianificazione e piano. La parola programma (integrato) fa ingresso con la legge 179/1992.
Presto equiparato – direi erroneamente – al piano particolareggiato esecutivo.
Fino ad allora, con programmazione e programma si intendeva la dimensione operativa della pianificazione.
Non a caso, gli urbanisti teorizzarono la necessità di una attuazione programmata del piano urbanistico. Per tutte altre esigenze, con la legge 10/1978 si cercò di introdurre la programmazione pluriennale di attuazione del piano (PPA): soprattutto la decadenza da differire nel tempo dei cosiddetti vicoli urbanistici preordinati all’esproprio.

7. Un aspetto interessante è rappresentato dal ruolo che il piano regolatore generale ha avuto nella decisione sulla spesa pubblica.
Rilevante era la sua funzione. Le opere pubbliche da esso dipendevano, nella tipologia e nelle quantità.
A garanzia di ciò era posta la procedura di approvazione.
In quanto opera pubblica, il piano urbanistico era obbligatoriamente sottoposto al parere del Consiglio Superiore dei Lavori Pubblici.
Il suo parere riguardava ovviamente il merito di ogni singolo piano. Ma anche comparativamente i piani tra loro e le «spese» che avrebbero comportato. Contemporaneamente la rispondenza a piani più generali e con questi alla ripartizione programmata della spesa pubblica.
E’ indubbio che questa impostazione guidò la stesura anche del famoso Decreto interministeriale 1444/1968 in attuazione della «legge ponte» del 1967. Per mezzo dei cosiddetti «standard urbanistici» si voleva realizzare l’uguaglianza dell’accesso alle dotazioni territoriali in materia di attrezzature di servizio.
La critica che oggi facciamo all’approccio quantitativo e non qualitativo (livelli essenziali delle prestazioni, gamma dei servizi, qualità delle erogazioni, etc.) non può dimenticare questo obiettivo: le disparità che si potevano rilevare – anche per via delle debolezze insite nella legge e per l’assenza di politica della città -, erano tanto forti da giustificare l’impostazione prevalentemente quantitativa del decreto.
Che poi le Regioni, in nome della ricerca di maggiore qualità per il proprio territorio, abbiano concorso ad accentuarla è storia che giustifica ulteriormente la critica.
La impostazione «centrale», o addirittura «centralista» della legge, non ha retto al regionalismo, benché le Regioni per molto tempo abbiano confermato la legge del 1942.
Ed oggi, anzi, da più parti si lamenta che non lo abbiano fatto ancora più convintamente.
I problemi lasciati insoluti dalla legge del 1942 sono stati risolti – per quanto risolti -, più che per via delle leggi urbanistiche regionali da altro: le pratiche soprattutto e gli obblighi derivanti dalle interpretazioni della giurisprudenza, e non solo nazionale.
In conclusione (se si può concludere): ho provato a fare un piccolo affresco della architettura della pianificazione nella legge del 1942.
Ho cercato di svelare o ricordare qualche «retroscena», qualche motivazione nascosta dei suoi insuccessi come dei suoi successi. Anche quelli non voluti.
Spero che questa riflessione stimoli la ripresa di un percorso di riforma mettendo a frutto la storia.
Cosa che richiede di saper dire – come era scritto sul Palazzo reale a Napoli ai tempi del referendum monarchia /repubblica – che è vero che “la monarchia è continuità , che la continuità è storia … ma che sta storia ha da finì”.
La legislazione urbanistica italiana ha bisogno di una vera nuova fondazione. Negli statuti e negli strumenti.
Ritroviamoci presto per dire le poche cose essenziali che sono necessarie: nuovo statuto della proprietà; riduzione del numero dei piani – (quasi) ad uno e ad un solo piano -, facendo rientrare in questo quelli preordinati, previa definizione certa della loro effettività / efficacia; eliminazione della doppia legislazione (statale e regionale), rivisitazione sistematica del codice dell’edilizia. Per misurarsi davvero con la nuova «mission» dell’urbanistica: la sostenibilità ambientale, la sicurezza del territorio, il rinnovo urbano, l’integrazione tra «costruzioni» ed urbanistica; la riorganizzazione del rapporto della pianificazione urbanistica con la tassazione immobiliare e la cosiddetta fiscalità di scopo.
Senza ideologismi tipo «consumo di suolo zero». Anche solo frizionalmente nuovo suolo servirà sempre.
Ma il nuovo suolo dovrà essere generato prevalentemente dalla trasformazione stessa dell’esistente. Da qui rivisitazione di nozioni quale quella di consumo di risorse, vita nominale delle costruzioni, etc. E soprattutto nuova disciplina delle destinazioni d’uso. Ingegnerizzando il tutto nel piano urbanistico.
Per quanto riguarda le destinazioni d’uso, avendo coscienza che non solo cambiano di continuo, ma che sono da innovare in continuo. Non c’è bisogno di scomodare Marx e il suo «valore d’uso» per comprendere le conseguenze di ciò.
Il D.L. n. 70/2011 ha iniziato lodevolmente a farlo. Riprendiamo il lavoro interrotto lì. Quella che serve – e non solo sulla problematica delle destinazioni d’uso -, è una semplificazione di sistema e non per frammenti di procedure.
La nuova urbanistica si dovrà misurare anche con il principio di (vera) concorrenza.
Anche solo il vantaggio informativo – come noto – lede questo principio. Se si è convinti che questo è il destino, attrezziamoci a governarlo. Nella trasparenza, non solo delle procedure ma anche, e soprattutto, degli intenti che vogliamo perseguire.