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Governo del territorio: riscriviamo le regole

di - 21 Dicembre 2012
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6. E’ questa la spiegazione dell’approccio «razional comprensivo» della pianificazione privilegiato dalla legge.
Probabilmente scelto con consapevolezza. Già all’epoca erano conosciuti altri approcci. Ad esempio, quello «incrementalista» e «strategico» che si sono, seppure con alterne vicende, affermati in seguito.
Soprattutto come mutazione dalla pianificazione militare ed aziendale.
Solo qualche anno dopo quello che era definito «integrale» verrà detto «organico».
L’idea era quella di una pianificazione totale. Anche se la Repubblica, solo qualche anno dopo il 1942, quasi abbandonò la parola (e quindi la nozione) pianificazione a vantaggio di programmazione.
Considerata più «neutra», meno accusabile di un’impostazione culturale «dirigista».
Solo l’urbanistica manterrà l’uso delle espressioni pianificazione e piano. La parola programma (integrato) fa ingresso con la legge 179/1992.
Presto equiparato – direi erroneamente – al piano particolareggiato esecutivo.
Fino ad allora, con programmazione e programma si intendeva la dimensione operativa della pianificazione.
Non a caso, gli urbanisti teorizzarono la necessità di una attuazione programmata del piano urbanistico. Per tutte altre esigenze, con la legge 10/1978 si cercò di introdurre la programmazione pluriennale di attuazione del piano (PPA): soprattutto la decadenza da differire nel tempo dei cosiddetti vicoli urbanistici preordinati all’esproprio.

7. Un aspetto interessante è rappresentato dal ruolo che il piano regolatore generale ha avuto nella decisione sulla spesa pubblica.
Rilevante era la sua funzione. Le opere pubbliche da esso dipendevano, nella tipologia e nelle quantità.
A garanzia di ciò era posta la procedura di approvazione.
In quanto opera pubblica, il piano urbanistico era obbligatoriamente sottoposto al parere del Consiglio Superiore dei Lavori Pubblici.
Il suo parere riguardava ovviamente il merito di ogni singolo piano. Ma anche comparativamente i piani tra loro e le «spese» che avrebbero comportato. Contemporaneamente la rispondenza a piani più generali e con questi alla ripartizione programmata della spesa pubblica.
E’ indubbio che questa impostazione guidò la stesura anche del famoso Decreto interministeriale 1444/1968 in attuazione della «legge ponte» del 1967. Per mezzo dei cosiddetti «standard urbanistici» si voleva realizzare l’uguaglianza dell’accesso alle dotazioni territoriali in materia di attrezzature di servizio.
La critica che oggi facciamo all’approccio quantitativo e non qualitativo (livelli essenziali delle prestazioni, gamma dei servizi, qualità delle erogazioni, etc.) non può dimenticare questo obiettivo: le disparità che si potevano rilevare – anche per via delle debolezze insite nella legge e per l’assenza di politica della città -, erano tanto forti da giustificare l’impostazione prevalentemente quantitativa del decreto.
Che poi le Regioni, in nome della ricerca di maggiore qualità per il proprio territorio, abbiano concorso ad accentuarla è storia che giustifica ulteriormente la critica.
La impostazione «centrale», o addirittura «centralista» della legge, non ha retto al regionalismo, benché le Regioni per molto tempo abbiano confermato la legge del 1942.
Ed oggi, anzi, da più parti si lamenta che non lo abbiano fatto ancora più convintamente.
I problemi lasciati insoluti dalla legge del 1942 sono stati risolti – per quanto risolti -, più che per via delle leggi urbanistiche regionali da altro: le pratiche soprattutto e gli obblighi derivanti dalle interpretazioni della giurisprudenza, e non solo nazionale.
In conclusione (se si può concludere): ho provato a fare un piccolo affresco della architettura della pianificazione nella legge del 1942.
Ho cercato di svelare o ricordare qualche «retroscena», qualche motivazione nascosta dei suoi insuccessi come dei suoi successi. Anche quelli non voluti.
Spero che questa riflessione stimoli la ripresa di un percorso di riforma mettendo a frutto la storia.
Cosa che richiede di saper dire – come era scritto sul Palazzo reale a Napoli ai tempi del referendum monarchia /repubblica – che è vero che “la monarchia è continuità , che la continuità è storia … ma che sta storia ha da finì”.
La legislazione urbanistica italiana ha bisogno di una vera nuova fondazione. Negli statuti e negli strumenti.
Ritroviamoci presto per dire le poche cose essenziali che sono necessarie: nuovo statuto della proprietà; riduzione del numero dei piani – (quasi) ad uno e ad un solo piano -, facendo rientrare in questo quelli preordinati, previa definizione certa della loro effettività / efficacia; eliminazione della doppia legislazione (statale e regionale), rivisitazione sistematica del codice dell’edilizia. Per misurarsi davvero con la nuova «mission» dell’urbanistica: la sostenibilità ambientale, la sicurezza del territorio, il rinnovo urbano, l’integrazione tra «costruzioni» ed urbanistica; la riorganizzazione del rapporto della pianificazione urbanistica con la tassazione immobiliare e la cosiddetta fiscalità di scopo.
Senza ideologismi tipo «consumo di suolo zero». Anche solo frizionalmente nuovo suolo servirà sempre.
Ma il nuovo suolo dovrà essere generato prevalentemente dalla trasformazione stessa dell’esistente. Da qui rivisitazione di nozioni quale quella di consumo di risorse, vita nominale delle costruzioni, etc. E soprattutto nuova disciplina delle destinazioni d’uso. Ingegnerizzando il tutto nel piano urbanistico.
Per quanto riguarda le destinazioni d’uso, avendo coscienza che non solo cambiano di continuo, ma che sono da innovare in continuo. Non c’è bisogno di scomodare Marx e il suo «valore d’uso» per comprendere le conseguenze di ciò.
Il D.L. n. 70/2011 ha iniziato lodevolmente a farlo. Riprendiamo il lavoro interrotto lì. Quella che serve – e non solo sulla problematica delle destinazioni d’uso -, è una semplificazione di sistema e non per frammenti di procedure.
La nuova urbanistica si dovrà misurare anche con il principio di (vera) concorrenza.
Anche solo il vantaggio informativo – come noto – lede questo principio. Se si è convinti che questo è il destino, attrezziamoci a governarlo. Nella trasparenza, non solo delle procedure ma anche, e soprattutto, degli intenti che vogliamo perseguire.

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