Food Security e uso della terra nell’era della globalizzazione: prezzi e speculazione

Gli intrecci tra i mercati delle commodities, dei prodotti agricoli, dei prodotti alimentari e la speculazione finanziaria hanno, tra i molti loro effetti, quello di produrre e/o accrescere, la “volatilità” dei prezzi dei beni alimentari. Tale volatilità mette in pericolo la sicurezza alimentare di tutti i consumatori anche se quelli più poveri dei paesi ricchi e tutti quelli dei paesi poveri, sono evidentemente più colpiti. La campagna per la food security fu lanciata dalla FAO nel 1996 in occasione del World Food Summit di Roma e oggi, a distanza di 16 anni, l’attualità dei suoi contenuti assume nuovi e più preoccupanti contorni e non solo per i paesi meno sviluppati. Il Summit identificò la sicurezza alimentare con le condizioni che consentano a “… tutti di avere accesso fisico ed economico ad un quantitativo di cibo sano e nutriente sufficiente per i loro bisogni dietetici e le loro preferenze alimentari ai fini di una vita attiva e in salute”[1]. In questa definizione si individuano tre componenti. La prima riguarda la disponibilità quantitativa globale ovvero si ha in mente che la produzione globale debba essere quantitativamente adeguata alle necessità della popolazione mondiale, qualunque essa sia; la seconda riguarda l’accessibilità sia fisica che economica e mostra, con la specificazione e l’accento sull’accessibilità fisica, di avere a riferimento soprattutto i paesi meno sviluppati; mentre la terza, riguardando l’uso appropriato in relazione ai valori nutrizionali, richiama proprio le realtà dei paesi avanzati odierni, come accenneremo più avanti. Gli intrecci sono oggettivamente complessi e coinvolgono i problemi legati alla sostenibilità dello sviluppo economico, per la dimensione quantitativa; al commercio internazionale, per la disponibilità; alle condizioni dell’ambiente naturale, della salute umana e ai mercati finanziari, per tutte e tre le componenti. In sintesi, nel food security confluiscono tutti i principali problemi di interazione tra l’economia reale e quella finanziaria odierni. Selezioniamo, come uno dei punti centrali del nostro ragionamento, l’accessibilità economica richiamata nel summit del 1996 e osserviamo i prezzi del cibo negli ultimi 20/22 anni nei documenti FAO. Ciò che colpisce immediatamente, osservando la figura 1 nella quale è riportato l’indice dei prezzi degli alimenti dal 1990, è la relativa stabilità fino al 2007 a cui si contrappone la successiva grande variabilità degli ultimi 4/ 5 anni. Nel 2008 i prezzi salgono molto, ridiscendono nel 2009 tanto da tornare al livello del 2007 e quindi risalgono nuovamente. Si direbbe che qualcosa di nuovo sia avvenuto intorno al 2007/2008 e abbia inciso sulla dinamica dell’indice dei prezzi, trasformandola da (relativamente) stabile in volatile. E il fatto che il prezzo del cibo diventi volatile produce effetti negativi più ampi e di più difficile controllo, di quanto non faccia il loro aumento che pure riduce la sicurezza alimentare[2]. Dal punto di vista dell’economia reale infatti, la volatilità è senz’altro un male mentre dal punto di vista finanziario, essa è un’opportunità di guadagno e per questo i mercati finanziari contribuiscono a crearla. È quindi inevitabile indagare su ciò che è avvenuto in anni così recenti al fine di risalire alle cause di un fenomeno di grande pericolosità per la stabilità socio-politica del global village e tentare di arginarlo. Il fenomeno della volatilità dei prezzi nei mercati agricoli e alimentari ha, per così dire, una data di nascita, il 2007/2008 e ciò risulta non solo dai documenti FAO ma anche da quelli del Fondo Monetario Internazionale. Gli elementi che contribuiscono alla formazione di questi prezzi sono molti e di diversa natura e possono essere distinti in fattori di domanda e di offerta. Tra i fattori derivanti dal lato dell’offerta è chiaro che elementi che la limitino, come le cattive condizioni meteorologiche e la siccità, spingano i prezzi al rialzo e parimenti facciano gli aumenti del costo dell’energia o le barriere doganali ecc. Fattori di spinta al rialzo dal lato della domanda sono chiaramente l’incremento demografico globale, l’aumento del reddito pro-capite, il deprezzamento del dollaro, la produzione di biocarburanti, la finanziarizzazione delle commodities agricole. Evidenti i primi due motivi ed anche il deprezzamento del dollaro che funge da moneta per queste transazioni mentre più discutibile appare l’impatto dell’aumento della domanda di cereali per scopi non alimentari. Certamente l’impulso alla produzione di biocarburanti sembra abbia contribuito più a far aumentare il prezzo del food che a ridurre le emissioni di CO2 derivanti dai carburanti tradizionali tanto è vero che le aspettative di lenire il cambiamento climatico tramite i biocarburanti sono state deluse e che esso costituisce un green paradox[3]. Proprio nel 2007/2008 ben il 4,7% della produzione di cereali è andata in biocarburanti (dati World Bank e FAO) mentre si sono registrate nello stesso periodo spinte alla deforestazione e alla sostituzione di colture. Questi fatti possono spiegare l’aumento dei prezzi ma non la loro volatilità. Se però prendiamo atto della cosiddetta finanziarizzazione delle commodities agricole e ne analizziamo le implicazioni, il discorso cambia nella sostanza. Con tale fenomeno si intende la diffusione dell’uso dei prodotti finanziari derivati basati sulle commodities tipico degli ultimi cinque anni. Gli acquirenti delle commodities, incluse quelle agricole ma anche delle altre come oro e petrolio, sono di due tipi. Società che usano la commodity come materia prima e soggetti che pur domandandola non la usano; la fissazione del prezzo nei contratti a tempo (futuri) che riguardano società del primo tipo, chiamiamoli A, ha la sua logica nella riduzione del rischio di impresa mentre nei contratti che riguardano il secondo tipo di operatori, contratti B, la fissazione del prezzo è proprio ciò che consente di soddisfare lo scopo speculativo che è quello di lucrare sui cambiamenti dei prezzi, all’insu o all’ingiù. Il “fatto” non banale è che proprio le contrattazioni di questo secondo tipo sono raddoppiate negli ultimi cinque anni da quando hanno fatto il loro ingresso nei mercati delle commodities. L’ingresso in questi mercati non è casuale ma ha una sua logica i cui elementi si sono rafforzati proprio recentemente. Data la bassa correlazione tra le commodities e la ricchezza finanziaria, come azioni e obbligazioni, gli investitori sono stati attratti dalle prime proprio per ampliare la diversificazione dei loro portafogli. Inoltre, siccome gli investimenti in commodities hanno un rendimento positivamente correlato con l’inflazione anche motivi di protezione da questo rischio e dalla debolezza del dollaro, hanno spinto in questa direzione. Infine, “financial innovation provided an easy and cheap way …. to gain” [4].

La volatilità mette in difficoltà l’economia reale perché aumenta l’incertezza e il rischio di impresa; riduce gli incentivi agli investimenti in agricoltura e perciò la stessa produttività. Se dunque gli effetti della volatilità vanno ben al di là del discorso, scarsamente rilevante per le scelte dei paesi sviluppati se non a livello di dichiarazioni retorico/ populiste sui miliardi di persone che vivono con uno o due dollari al giorno, ed essa è la conseguenza della finanziarizzazione delle commodities agricole, ciò che va rivisto è la funzione di tale finanziarizzazione. Il fatto che nei mercati delle commodities agricole e del food siano entrati, e si stiano espandendo, i contratti futures e derivati, è evidentemente il frutto del professato liberismo economico consolidatosi a livello teorico (Friedman e scuola di Chicago) e politico/ pratico (Thatcher, Reagan) negli anni settanta e tuttora imperante. Il fondamento di tale liberismo è la sua capacità, vera o dichiarata o creduta tale, di migliorare l’efficienza del sistema economico globale. In effetti se ciò fosse vero esso andrebbe accettato proprio per pragmatismo e indipendemente da posizioni ideologiche ma così non è e dopo anni di esperienza pratica non è più possibile ritenere in buona fede le dichiarazioni di cieca fiducia nel liberismo sfrenato. Mentre un certo tipo di “speculazione” finanziaria ha dato il suo contributo positivo alla transizione dalle economie agricole arretrate o di sussistenza alle economie agricole capitaliste avanzate, per dirla alla Maddison[5], queste sue forme attuali risultano predatorie senza alcuna valenza positiva in termini di economia reale. Lo speculatore finanziario del passato (imprenditore finanziario), che acquistava grandi quantità di grano in corrispondenza del raccolto, lo conservava nei suoi magazzini e lo rivendeva durante l’anno, contribuiva a far lo smoothing del prezzo necessariamente basso al tempo del raccolto, data l’abbondanza della quantità e necessariamente altissimo con l’avvicinarsi del suo esaurimento. Questo imprenditore finanziario, pur agendo nel proprio interesse, rendeva il grano disponibile durante il ciclo annuale di produzione a prezzi non volatili ma rispondenti alla disponibilità quantitativa. In altri termini, l’acquisto e la conservazione del grano da parte di soggetti che non lo utilizzavano e cioè non lo trasformavano in farina o in pane e pasta e dunque esso non rappresentava la materia prima per la loro attività di produzione – contratti odierni di tipo B – contribuiva a rendere disponibile per tutto l’anno il grano e a prezzi senza picchi estremi legati all’abbondanza e alla scarsità del prodotto in corrispondenza del raccolto annuale e immediatamente prima di quello successivo. In queste circostanze l’efficienza del sistema economico migliora e dunque la “speculazione finanziaria” ha un effetto positivo. Ma la speculazione finanziaria nell’attuale veste di derivati nel mercato delle commodities non solo non migliora l’efficienza del sistema economico ma la “riduce”, impattando negativamente sugli investimenti in agricoltura, aumentando il rischio di impresa, inducendo alcuni paesi ad essere esportatori di cereali pur avendo una popolazione malnutrita (come accadde all’India nel 2000) e costringendo alcuni governi, in seguito a forti e non previste variazioni di prezzi (volatilità, appunto), a costosi interventi pubblici per un minimo di protezione dei consumatori. La speculazione finanziaria in queste circostanze non crea ricchezza ma semplicemente se ne appropria ed è in piena contraddizione con la dichiarazione di Roma del 1996: commercializzazione e monetizzazione in luogo di sicurezza alimentare.[6] Che la volatilità dei prezzi su questi mercati, coincidente con l’ingresso sempre più ampio dei derivati, sia un dato di fatto appare anche dalle ultime rilevazioni e studi del FMI del maggio 2012. Da questi studi emerge come, a guardar dentro il volatile indice dei prezzi delle commodities, si osservino ancor più ampie variazioni nei prezzi dei singoli prodotti. Che tali variazioni scompaiano nell’indice composito neutralizzandosi a vicenda è naturale ma la loro esistenza testimonia come i singoli beni, zucchero e olio per esempio, abbiano subito grandi variazioni da un mese all’altro difficilmente spiegabili con mutamenti nell’economia reale ovvero nelle condizioni dell’offerta e della domanda globali del bene fisico. Per questi organismi internazionali, e soprattutto per la FAO, nei cui obiettivi istituzionali rientra l’analisi dei mercati delle commodities, la speculazione e conseguente volatilità dei prezzi registrate negli ultimi cinque anni, sono destinate a restare.
Su questi incontestabili fatti è impossibile sostenere la ragione dello spinto liberismo economico del quale sembrano ormai affetti tutti i paesi. La difesa di tale liberismo non ha alcuna giustificazione economica se non quella degli interessi delle potenti lobby finanziarie che prosperano sui movimenti dei prezzi. Per il momento le reazioni dei governi sono limitate e del tutto inadeguate ad arginare il fenomeno. La FAO cerca di adottare contromisure per aiutare i paesi meno sviluppati attraverso gli High Food Price Contingengy Plans (HFPCP) del marzo 2011 muovendosi su due livelli. Nel breve periodo con aiuti ai consumatori e alle famiglie degli agricoltori mentre nel medio periodo con aiuti/incentivi agli aumenti di efficienza nella produzione agricola. Ma un Rapporto congiunto da parte dei più importanti organismi internazionali, FAO inclusa, chiede espressamente interventi pubblici regolamentari in assenza dei quali la stabilità socio-politica è minacciata[7]. Di positivo possiamo solo menzionare la notizia di recente acquisizione[8] secondo la quale alcune organizzazioni non governative sarebbero riuscite ad ottenere la rinuncia ai derivati sulle materie prime agroalimentari da parte delle quattro maggiori banche tedesche: Deutsche Bank, Commerzbank, Dekabank, banca regionale del Baden-Wuettenberg. Tutte avrebbero deciso di chiudere o ridimensionare i propri fondi di investimento che usano titoli derivati legati ai prezzi delle materie prime alimentari. Ben vengano azioni volontarie di questo tipo ma i governi non rinuncino al loro ruolo di garanti del benessere sociale.
Torniamo adesso alla prima componente della dichiarazione FAO per la food security e cioè alla disponibilità quantitativa di food. Quando consideriamo questo aspetto di economia reale, la popolazione globale e il suo tasso di crescita sono elementi importanti. Prendiamo atto di una popolazione odierna di 7 mld e 300 milioni destinata a raggiungere i 9/10 miliardi nel 2050 a seconda delle ipotesi sui tassi di fertilità[9].

Per assicurare la quantità di cibo necessaria per una vita attiva e sana chiaramente la produzione deve crescere, il che può avvenire tramite l’espansione dei suoli destinati a coltivazioni agricole e tramite incrementi di efficienza nella produzione. Sebbene la Fao stessa dichiari che le prospettive per tali incrementi siano piuttosto buone, riteniamo che lo scenario non sia affatto di questo tipo quando si consideri l’uso della terra in una prospettiva globale. Gli usi della terra, (agricolo, forestale, per abitazioni, per infrastrutture, ecc.) e le connesse scelte per aumentarne la produttività, come il ricorso all’uso di fertilizzanti, di anticrittogamici, all’irrigazione ecc., hanno impatti di lungo periodo i cui costi sono ben superiori ai benefici immediati dati dall’espansione della produzione. Vi è qui un evidente trade-off tra gli effetti di breve periodo e quelli di medio-lungo sicchè l’intento apparentemente benefico di aumentare la produzione per assicurare una quantità di cibo sufficiente per una vita attiva confligge macroscopicamente con l’obiettivo di sostenibilità di medio lungo periodo in quanto riduce la quantità di risorse naturali disponibili e ne peggiora la qualità. I territori che cambiano destinazione sotto la pressione alimentare di origine demografica, e che per esempio da forestali diventano agricoli, perdono la loro funzione positiva di regolatori del clima così come di protezione dagli effetti di dilavamento, frane e alluvioni. Allo stesso modo i fertilizzanti chimici inquinano le falde acquifere tramite la penetrazione di sostanze non degradabili in modo naturale attraverso il filtraggio del terreno e gli anticrittogamici uccidendo i parassiti, la cui provata crescente resistenza richiede insostenibile dosi crescenti di prodotto, uccidono anche innocui insetti se non addirittura alcuni “utilissimi”, come le api[10].
La questione fondamentale è perciò quella di guardare all’uso della terra in una prospettiva globale perché è l’uso complessivo che risulta dalle decisioni dei singoli stati e al loro interno dei singoli individui o gruppi di individui, che impatta sulla quantità e qualità di risorse naturali disponibili. In ultima analisi, come ben sapevano gli economisti classici, è la terra che rappresenta la dotazione di capitale naturale o come più modernamente appare nell’impronta ecologica di Wackernagell-Rees[11], è la terra che supporta lo stile di vita di ciascun abitante. Con il crescere della popolazione e l’evolversi dei sistemi economici e degli stili di vita, sempre maggiori quantità di terra cambiano destinazione in risposta alla crescente domanda per usi commerciali e, non sorprendentemente, tali usi sono sempre quelli a prezzo più alto. Queste scelte possono evidentemente essere anche ottime per i soggetti direttamente coinvolti nella transazione commerciale ma non lo sono, in generale, per la collettività nel suo insieme. Così l’uso forestale cede sempre di fronte a quello agricolo e, quest’ultimo cede di fronte ai biocarburanti, mentre i parchi, il verde pubblico cede sempre di fronte all’edilizia: i prezzi della terra non riflettono il suo valore ma gli interessi di coloro che hanno maggiore voce nel meccanismo politico-istituzionale moderno. Volendo cercare di superare questa sconfortante realtà possiamo considerare il punto di vista della National Academy of Sciences[12]. Per la National Academy, a differenza della FAO, la sfida più grossa è quella di conservare le foreste e contemporaneamente espandere la produzione alimentare e dunque il cambio d’uso nella terra deve ispirarsi a questi due criteri e non solo al secondo. D’altra parte i maggiori tagli delle foreste per destinare la terra ad uso agricolo, avvengono principalmente nei paesi meno sviluppati anche perché in essi si trovano le maggiori estensioni di foreste e le maggiori quantità di popolazione sottonutrita. Il processo di globalizzazione potrebbe in questo caso “aiutare” a recuperare efficienza nell’uso della terra se e nella misura in cui riuscisse a frenare “l’incontrollata” espansione della terra coltivata. Gli usi della terra dovrebbero essere visti e modellati, secondo la National Academy of Sciences, come un sistema di grandi flussi di popolazioni, individui e capitale, che collegano l’uso locale dei singoli appezzamenti di terreno a fattori globali anche molto lontani. Fondamentalmente, la terra che l’uomo lascia alla natura ovvero agli usi naturali come foreste, paludi, habitat per animali selvatici, e simili, è il residuo tra l’area totale e quella a destinazione agricola e di costruzioni. Per massimizzare la terra lasciata agli usi naturali, occorre evidentemente che la produzione agricola avvenga minimizzando l’uso della terra. In altre parole, l’uso globale della terra dovrebbe rispondere alle caratteristiche ecologiche, qualitative dei singoli appezzamenti di terreno in modo tale da conseguire l’incremento nella produzione agricola necessario a soddisfare la crescente domanda tramite gli incrementi di produttività legati alle caratteristiche ecologiche dei terreni piuttosto che dall’incontrollata espansione delle terre coltivate secondo il prezzo corrente più alto del prodotto. Dunque, e in estrema sintesi, per tentare di conciliare il bisogno di produzione alimentare crescente e quello di conservazione ambientale, occorre rispettare due criteri. Il primo riguarda l’utilizzazione di metodi di produzione agricola più amici dell’ambiente, come sono quelli che richiedono meno fertilizzati ma anche meno irrigazione e il secondo che si abbia specializzazione regionale del terreno secondo le specifiche caratteristiche naturali locali. Questa posizione non deve essere considerata come meramente astratta perché gli autori già possono citare “storie di successo” di questo tipo sebbene circoscritte, ovvero transizione nell’uso della terra del tipo auspicato cioè con simultaneo aumento della produzione agricola alimentare e di copertura forestale. Cina, Costa Rica, El Salvador e Vietnam, sono i paesi citati, che hanno ottenuto tali risultati affidandosi al recupero di terre degradate e non all’espansione del terreno agricolo ai danni delle foreste. La lezione che l’Accademia trasmette ai decisori del mondo è del tipo “ottimistico” nel senso di indicare come il processo di globalizzazione in atto e che, dati i molteplici suoi effetti pesantemente negativi produce crescente ostilità, anche violenta, da parte di molte popolazioni, potrebbe invece servire a creare strumenti di “spatial management” ai fini di raggiungere obiettivi che avvantaggino tutti, come quello di eliminare il trade-off tra foreste e agricoltura. Tale trade-off, come altri simili, non può essere eliminato ed anzi si rafforza se le decisioni sull’uso della terra sono prese singolarmente in ogni paese. L’effetto complessivo è ben lontano dall’ottimo sociale (inesistenza della mano invisibile) perché gli impatti globali sono negativi e superiori al beneficio specifico locale e di breve periodo.

Per esempio, la regolamentazione locale europea, peraltro desiderabile, finalizzata a raggiungere entro il 2020 un utilizzo di biocarburanti pari almeno al 10% del totale dei carburanti impiegati per mitigare il cambiamento climatico, può invece aumentarlo (di nuovo green paradox) nella misura in cui provoca un cambio di uso di terre in zone molto lontane. Per questo non c’è che da ideare gli strumenti appunto per un management spaziale globale. In fondo, come tutti i paesi devono vedersela con la “global food equation”, così dovrebbero considerare l’esistenza dell’equazione, altrettanto globale, della terra e identificare le più efficienti condizioni per la transizione dalle foreste all’uso agricolo. Ogni decisione dovrebbe perciò essere valutata per la sua capacità di “risparmio” di terra, che è ciò che supporta l’attività dell’uomo. L’elemento totalmente assente nei flussi commerciali globali liberalizzati, riguarda gli effetti che essi hanno sull’ambiente. I flussi commerciali dovrebbero invero essere legati e valutati in base al loro impatto sull’ambiente, in termini per esempio di quantità di terra necessaria che, insieme alla disponibilità di acqua, è la questione di fondo in termini di condizioni di sostenibilità della crescita della popolazione e del suo tenore di vita. Non si deve perciò perseguire “l’incremento della produzione” ad ogni costo, ma il “risparmio di terra” ad ogni costo. Purtroppo stiamo ancora accettando che l’allocazione della terra segua gli errati prezzi dei prodotti e nè si ha la consapevolezza che il vincolo vero siano le risorse naturali e non il contrario. Di questo disastroso atteggiamento si hanno continue conferme, non ultime quelle derivanti dalla crisi economica attuale; invece di cogliere l’occasione per riconvertire l’insostenibile modello di produzione e consumo attuale, i pochi programmi concreti posti in essere nella direzione della protezione ambientale sono stati addirittura tagliati o sospesi, così come non vi sono stati progressi ma regressi negli accordi internazionali (e pensiamo per esempio a Rio+20), sulla giustificazione che la priorità è la crescita del PIL… il resto può aspettare. Ma può veramente aspettare?

Note

1.  FAO, Rome Declaration on World Food Security and World Food Summit Plan of Action, 13-17 novembre 1996

2.  Per riferirsi alla volatilità con una certa precisione si definisca il rendimento sul prezzo di un prodotto agricolo o di una qualsiasi altra commodity, come  Rt = (Pt – Pt-1) / Pt-1.    Consistenti variazioni di Rt da un periodo all’altro, in aumento o in diminuzione, danno la misura della volatilità. Per quanto riguarda invece il termine commodity esso sta ad indicare un bene per il quale la domanda viene soddisfatta da un’offerta globale qualitativamente  indifferenziata e da ciò originano i prezzi internazionali. Sono commodities risorse e prodotti agricoli di base: carbone, petrolio grezzo, sale, alluminio, oro, caffè, zucchero, riso, semi di soya, grano ed altri.

3.  Sinn Hans-Werner, “The Green Paradox. A Supply Side Approach to Global Warming”, MIT press, 2012.

4.  “Speculation and oil price formation”, in Review of Environment, Energy and Economics, 29 febbraio 2012.

5.  Angus Maddison, Phases of Capitalism Development, Oxford University Press, 1982.

6.  In fatto di incoerenza con il contenuto della dichiarazione per la sicurezza alimentare va sottolineato ciò che accade nei paesi avanzati, inclusi quelli europei. In questi, la disponibilità e accessibilità al cibo non sta affatto  assicurando una vita attiva e in salute ma procura obesità tra i giovani, oltre ad  accresce molte malattie nella popolazione adulta, tanto da aver portato l’Unione Europea a destinare fondi per la educazione alimentare nelle scuole.  Come dicevamo i nuovi contorni della sicurezza alimentare sono più preoccupanti di 16 anni fa.

7.  Policy Report, “Price Volatility in Food and Agricultural Markets: Policy Responses”, FAO,IFAD, IMF, OECD,UNCTAD, WFP, WTO, WB, IFRI, UNHLTF, giugno 2011.

8.  Federico Rampini, La Repubblica, 20 agosto 2012.

9.  Population Division of the Department of Economic and Social Affairs of the United Nations Secretariat (2011). World Population Prospects: The 2010 Revision. New York: United Nations.

10.  Per inciso il tema delle api è affascinante. Già da diversi anni si sono registrate drastiche riduzioni nella quantità di api nel nord America, in Cina, in Europa, Italia compresa, per motivi apparentemente sconosciuti.  Al fenomeno fu dato il termine Colony Collapse Disorder e se ne studiarono le cause. Sembra adesso accertato che la riduzione di questi insetti sia legata all’uso di pesticidi in agricoltura. È appena il caso di ricordare che la scomparsa delle api significherebbe la catastrofe per l’umanità data la loro insostituibile funzione di impollinazione di frutta e verdura e non a caso in Cina sono ricorsi alla impollinazione manuale dei frutti.  Sembra inoltre che lo stesso Einstein avesse detto che se le api fossero scomparse anche l’umanità sarebbe scomparsa nel giro di pochi anni.

11.  Wackernagell Mathis- Rees William, “Our Ecological Footprint”, New Society Publishers, 1996

12.  Eric Lambin-Patrick Meyfroidt, “Global Land use Change, Economic Globalization and the Looming Land scarcity”, 2011, National Academy of Sciences.