Brevi note sulla semplificazione

Una riflessione sulla semplificazione deve cominciare con una domanda. Che cosa si intende con questa espressione, riferita alla pubblica amministrazione ed ai suoi rapporti con i destinatari della sua azione, i cittadini? Penso che non ci siano dubbi: si tratta di far sì che i cittadini possano conseguire il risultato cui mirano – fondamentalmente, avviare un’attività o modificarla, estenderla etc. – nel rispetto degli interessi pubblici affidati alla cura delle p.a., ma nei tempi più brevi e con la certezza che i “permessi” conseguiti siano per così dire certi.
Il problema nasce da alcuni fattori su cui occorre portare l’attenzione.

A) La pluralità degli interessi pubblici.

a) È pacifico che qualunque iniziativa investa sempre una pluralità di interessi pubblici. Questo deriva dalla complessità della società, enormemente cresciuta nel corso degli ultimi decenni. Il paradosso è che mentre l’iniziativa fa capo ad un soggetto – individuo, società, gruppo etc. – gli interessi pubblici non sono affidati ad una sola amministrazione, ma ad una pluralità di amministrazioni. La loro competenza è determinata per materia e per territorio. Come è evidente, quanto più complesso è l’intervento, tanto più numerosi sono gli interessi pubblici coinvolti – e con essi le amministrazioni;
b) nella pratica, gli interessi pubblici vengono considerati come equiordinati tra loro, per il solo fatto che, in un modo o nell’altro, vengono investiti da una data iniziativa. L’esperienza concreta è univoca:se manca il n.o. o l’autorizzazione di una qualsivoglia amministrazione coinvolta, l’iniziativa non può essere avviata;
c) questo è un punto cruciale per il sorgere delle difficoltà. Ogni interesse pubblico fa capo ad una e talvolta a più amministrazioni. Ma tra questi interessi vi sono differenze strutturali così forti, da renderli addirittura antagonisti. Si pensi all’edilizia: il comune cura l’interesse pubblico ad un ordinato sfruttamento del suo territorio: guida e controlla quindi le iniziative dell’industria edile. Le amministrazioni che hanno in cura gli altri interessi rilevanti – ad es. la tutela dell’ambiente, della sicurezza, del patrimonio storico, artistico, paesaggistico etc. – tendono a frenare e condizionare le iniziative, affinché vengano rispettati e garantiti i singoli interessi pubblici loro affidati. Per paradossale che possa suonare, gli enti tutori dell’ambiente, della sicurezza, del paesaggio, etc. vedrebbero meglio curato e salvaguardato l’interesse pubblico loro affidato se non si facesse alcun intervento sul territorio;
d) la conferma di questo si ha nelle leggi di liberalizzazione e semplificazione di fine 2011 e del 2012. Esse innovano profondamente il quadro tradizionale del rapporto cittadino-pubblica amministrazione, perché appunto consentono il libero esercizio di un vastissimo spettro di attività; se però sono in gioco questioni di tutela ambientale, paesaggistica, culturale, di sicurezza etc. le subordinano sempre al rilascio di provvedimenti autorizzatori espressi. È di solare evidenza che in un territorio come quello italiano la libertà di iniziativa viene paralizzata in una percentuale altissima di casi.

B) L’arcaismo e l’inutilità di molte norme con i correlati interessi.
Come è ben noto, alcuni anni or sono dall’ordinamento italiano vennero espunte e cancellate migliaia di leggi non più attuali. L’opera fu ovviamente meritoria. Essa si limitava però a dare atto di una realtà, la morte già consumatasi, di molte leggi, cadute in disuso, per così dire, esauritesi nel corso degli anni.
Non furono viceversa toccate norme perfettamente inutili, ma ancora in vigore. Bastino due esempi. C’è una legge sull’agricoltura che consente al produttore agricolo di praticare la vendita itinerante dei suoi prodotti. Doveva comunicare al comune il veicolo utilizzato, il suo tipo di carico e attendere un mese per cominciare. La legge di semplificazione … ha cancellato questo stand still. Ma perché ha tenuto in vita una norma così perfettamente inutile? C’è un regolamento del comune di Roma che per gli immobili del centro storico fa riferimento al catasto del 1939. È fonte di un autentico caos. In 73 anni il mondo è cambiato. Perché non è stato mai abrogato o modificato?
Questo fenomeno si ripete continuamente. È inutile fonte di complessità, contrasti, ritardi, senza la più piccola giustificazione.

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Il tema della semplificazione è stato affrontato un gran numero di volte. La prima sembra risalire al 1970. Il riferimento è stato sempre lo stesso. È il procedimento. Nel 1990 venne approvata la prima legge (la celebre “241”) che ne dettava una disciplina relativamente organica: oltre ad introdurre il contraddittorio e l’accesso agli atti, per finalità di semplificazione proponeva le prime ipotesi organiche di conferenza di servizi – cioè di accordi procedimentali.
Sul finire degli anni ’90, furono approvate le c.d. leggi Bassanini. Per quanto qui rileva esse prevedevano forme semplificate di procedimento, consentendo di sostituire con autodichiarazioni un gran numero di certificati ed attestazioni che si sarebbero dovuti chiedere alle amministrazioni competenti.
Nel 2005 questo tipo di semplificazione venne esteso. Vennero rese legge alcune idee eterodosse. La più macroscopica (e fallita) di tutte è quella del silenzio assenso: salve alcune pur rilevanti eccezioni per materia, il silenzio mantenuto per un certo periodo di tempo dalla pubblica amministrazione sarebbe valso quale provvedimento espresso. Questa norma coronava una serie di altre ipotesi legislative che consentivano di procedere in un’iniziativa sulla base di autocertificazioni. Prima facie straordinario, il sistema introdotto mal si prestava ad un funzionamento effettivo: all’amministrazione era sempre consentito verificare la verità delle autocertificazioni ed adottare provvedimenti repressivi, con correlate denunce penali.

Su questa via si è proceduto anche con la legislazione più recente. L’affermazione di principio più forte, ma destinata a rimanere in qualche misura astratta, è stata quella cui si accennava qui sopra, che liberalizzava qualunque tipo di attività, salvo che non fossero coinvolti interessi legati alla sicurezza, alla tutela dell’ambiente, della salute e del patrimonio storico, artistico, archeologico. Poiché problemi di ambiente, salute, sicurezza, patrimonio culturale sorgono pressoché per qualunque intervento di pur modesta entità, è evidente che queste riserve non consentono certezze e quindi vanificano la liberalizzazione di un gran numero di iniziative.

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È ragionevole pensare che l’approccio metodologico debba essere diverso e che occorra muovere da due premesse, una di ordine sostanziale ed una di ordine procedimentale.

A) Sul piano sostanziale, la premessa è che molto raramente gli interessi pubblici coinvolti in una iniziativa sono realmente equiordinati, o, se si vuole, molto raramente svolgono lo stesso ruolo relativamente ad una iniziativa che il cittadino vuole intraprendere. La regola è che l’interesse pubblico di riferimento è uno, e che gli altri completano il quadro. Se, ad es., si vuole realizzare un intervento di edilizia abitativa, l’interesse pubblico primario, capofila, è certamente quello del comune che in base alla legge deve autorizzare la costruzione: e, si noti, la deve autorizzare in conformità a tutte le regole tecniche, ambientali etc. Ma se si vuole realizzare un magazzino in area portuale o aeroportuale, o uno stabilimento di un’area di sviluppo industriale l’interesse pubblico primario non più del comune ma dell’autorità portuale e dell’ASI.
Molti altri interessi pubblici sono certamente compresenti, ma non concorrono con pari rango e con pari ruolo nella decisione.
La prova di questo sta nella legge sul procedimento, n. 241/1990, nel testo oggi vigente. Il suo art. 14 dispone che quando sia opportuno effettuare un esame contestuale di vari interessi pubblici, la pubblica amministrazione procedente può indire una conferenza di servizi con le altre amministrazioni. Ci sono casi in cui deve essere convocata; altri in cui può essere richiesta dall’interessato.
Merita osservare che l’equivoco sull’equiordinazione di interessi pubblici diversi ha un’origine banale. Fino alla conferenza di servizi, il parere o l’autorizzazione relativo ad un qualsiasi interesse pubblico veniva reso per iscritto, con un “atto” impugnabile. Questo poneva sullo stesso piano tutte le amministrazioni competenti per qualche profilo di interesse pubblico: non potevano non essere presenti. Di qui la complessità cresciuta ed appesantitasi con i decenni.
La confusione indotta dall’impropria equiordinazione degli interessi pubblici si manifesta con la massima chiarezza per gli interventi su edifici sottoposti a vincolo di interesse storico o artistico. Il comune, capofila per l’edilizia, viene affiancato – e dominato – dalla soprintendenza. Essa può dettare qualunque prescrizione e bloccare qualunque intervento. Questo è però giusto e doveroso solo per beni di straordinario pregio, monumentali. Non vi è dubbio che qui capofila deve essere la soprintendenza, e che il comune debba arretrare. Viceversa, nel caso di immobili più genericamente belli ed eleganti, deve rimanere capofila il comune, responsabile dell’edilizia, con il dovere di attenersi a regole generali di tutela, dettate dalla soprintendenza.

B) Sempre sul piano sostanziale, il primo passo verso una vera semplificazione dovrebbe quindi investire le norme e mirare ai seguenti risultati:
– identificare tutti gli interessi irrilevanti e quindi eliminare le norme superflue, di qualunque ordine;
– nella stessa logica, razionalizzare le norme, al fine di risolvere il problema della impropria equiordinazione degli interessi pubblici, per porre in evidenza e responsabilizzare il ruolo dell’amministrazione capofila.
Con ogni probabilità il criterio da seguire è quello della prevalenza, della generalità e della specialità degli interessi pubblici presenti nelle varie fattispecie. Prevalente e generale è ad es. l’interesse pubblico legato all’edilizia: dunque, capofila deve essere il comune. Rispetto ad un’Area di Sviluppo Industriale o ad un’area portuale, la prevalenza si lega alla specialità degli interessi (di cui si potrebbe però anche predicare la generalità relativamente al territorio di competenza): capofila deve essere l’Asi o l’autorità portuale. Rispetto ad un palazzo monumentale prevalente nella specialità è l’interesse pubblico alla miglior conservazione del bene: dunque, capofila deve essere la soprintendenza (che non può esserlo per palazzi belli, ma non monumentali).
Come è ovvio, e subito si vedrà, il ruolo di capofila deve comportare il dovere dell’amministrazione di assumere la gestione del procedimento e di condurlo a termine nei tempi più brevi;
– il coronamento di questo sforzo dovrebbe stare nel mettere a punto norme tecniche, digitalizzate al massimo livello di precisione, a disposizione di tutti. Là dove è oggi necessario un atto espresso dell’amministrazione, ovviamente non discrezionale, o la relazione di un tecnico, che accompagna la richiesta di autorizzazione dell’interessato, dovrà essere possibile presentare il progetto di intervento totalmente digitalizzato, quindi immediatamente confrontabile con le norme tecniche (anch’esse totalmente digitalizzate).
Merita qui un ulteriore richiamo alle leggi che in questi ultimi anni consentono libertà di iniziativa, salva però la tutela dell’ambiente, del patrimonio storico e artistico, della salute, della sicurezza e simili. È intuitivo che queste norme siano inaccettabili perché di fatto le esigenze di tutela or dette paralizzano qualunque iniziativa. Ma è un problema che si può risolvere con il supporto informatico di cui si diceva qui sopra: le esigenze di tutela sul territorio, di carattere non discrezionale, sono tutte rappresentabili in forma digitale. Digit PA è perfettamente attrezzata per costruire le architetture ed i programmi necessari. Non occorre la comunità montana per sapere che cosa si può o non si può tagliare in un bosco. Solo il quasi monopolio informativo delle amministrazioni consente loro di comportarsi da autorità in materie puramente tecniche.

C) Da quanto precede, sul piano procedurale si possono disegnare i seguenti passaggi:
– innanzitutto, bisogna prendere le mosse dall’interesse capofila. L’amministrazione investita della sua cura deve essere il punto di riferimento per la gestione del procedimento, acquisendo tutti i pareri, i consensi, i n.o. necessari. In essa insomma si deve concentrare il coordinamento di tutte le competenze collaterali. Se si ragiona in termini cartacei, questo sembra impossibile. Ma se la digitalizzazione si attua, si tratta semplicemente di un controllo che computer debitamente attrezzati possono fare in un attimo;
– la conferenza di servizi deve diventare lo strumento ordinario di azione dell’amministrazione capofila. È ragionevole pensare che la normativa in vigore meriti di essere alleggerita;
– l’amministrazione capofila dovrà naturalmente essere responsabile della pubblicità e quindi del contraddittorio con possibili controinteressati;
– la conferenza di servizi sarà anche la sede per affrontare temi non risolvibili sul piano puramente tecnico.
– per consentire il rapido svolgimento di questo compito di coordinamento è necessario predisporre una modulistica digitale generale nella quale siano inseriti tutti i parametri ed i riferimenti necessari per progettare l’intervento.