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L’istruttoria e il passato di una legge: i vecchi tribunali di commercio e le attuali sezioni d’impresa

di - 20 Ottobre 2012
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La pratica quotidiana mostrava uno stile di giudizio e una logica di rapporto tra le parti e i magistrati del tutto nuovi, almeno in certe latitudini. Le agili motivazioni, la stabilità interpretativa, il formarsi di una giurisprudenza consolidata, la stessa qualità dei componenti del collegio giudicante (erano eletti dall’assemblea dell’Ordine tra i “mercanti notabili”) contribuivano a conferire al nostro tribunale una connotazione singolare. Come si è detto, la giustizia mercantile, con i suoi caratteri di celerità, di comunanza d’interessi tra le parti e gli stessi giudici, aveva caratterizzato tutto l’antico regime, oltre al medioevo[42]. Il suo funzionamento, tuttavia, era il riflesso del particolarismo cetuale, la traduzione in termini giuridici di una situazione concreta capace di perpetuare la giurisdizione privilegiata. Ora, con il Supremo Magistrato del Commercio, conviene ribadirlo, cambiava radicalmente il fine dell’azione giudiziaria, privata, almeno in parte e di sicuro nelle intenzioni dei governi, di molte delle sue potestà arbitrarie.
È stato scritto, efficacemente, a questo proposito, che quelle magistrature, per la loro composizione mista, in prevalenza non togata, avrebbero determinato l’implosione del sistema dei privilegi, in questo modo destrutturati dall’interno[43]. Ciò sarebbe avvenuto in maniera indolore, come conseguenza di una situazione fissata dal tempo e perciò necessaria. E, in effetti, le corti della giustizia commerciale furono giudici speciali del tipo migliore. In questo senso: la loro procedura, sebbene extra-ordinem, richiamava più la specificità, la straordinarietà delle situazioni e degli interessi che l’arbitrio del giudicante. Un ibrido, rispetto alla tradizione, destinato in ogni caso a funzionare e che dappertutto aveva dato buona prova di sé in termini di produttività[44]. Peraltro, nelle stesse città italiane, i Tribunali delle Corporazioni erano stati il simbolo dell’Ordinamento pluralistico e, per la loro lunga durata, anche sotto la forma unica del giudice mercantile, la dimostrazione più piena di quanto fosse diretto e vitale il rapporto tra economia e giustizia. Un’eccezionalità necessaria, insomma, difesa da tutti i protagonisti del processo.

4. Giudici specializzati o eguali?
Esisteva dunque un giudizio tra pari[45]. Per appartenenza cetuale e, quindi, per competenza tecnica, non vi erano differenze sostanziali tra le parti di un processo mercantile e tra loro stessi e i giudici. Si era in presenza di una logica cetuale capace di sopravvivere anche alla fine dell’antico regime e ci si trovava di fronte ad una persistente volontà di mantenere in vita una giurisdizione efficace. Con queste consapevolezze le corti della giustizia mercantile riuscirono a resistere per quasi un secolo agli eventi del 1789 e al nuovo assetto delle relazioni politiche e sociali determinate dalla Grande Rivoluzione.
Aboliti nel 1888, per ragioni ideologiche (era invocato, il principio d’uguaglianza[46]) e tecniche, ossia tutte interne al rapporto tra le discipline privatistiche, quando ormai anche nei fatti si era affermata una logica di classe, i tribunali di commercio di fatto sono ricomparsi, di recente e con più forza rispetto al passato, nella forma delle (molte) sezioni specializzate. Più che insistere su di un tale dato (noto, confermato dalla riforma che ci occupa e suscettibile d’incremento), è opportuno riflettere sulle ragioni che portarono all’abolizione dei tribunali dei mercanti. Si è detto che la loro soppressione fu richiesta in nome dell’affermazione completa del valore dell’uguaglianza: «è un principio inconcusso di una buona organizzazione giudiziaria che l’amministrazione della giustizia debba essere uguale per tutti e che non debba farsi alcuna distinzione né tra diversa natura di affari, né tra diversa qualità di persone»[47]. Scriveva così nel 1881 l’autore di uno dei più chiari interventi sul problema del mantenimento del giudice mercantile. Il tema della parità di condizioni nel giudizio era contrapposto a quello della particolare cura da dedicare ad una situazione così delicata e ad un argomento tipico del diritto dei mercanti: l’opportunità di garantire lo stesso regime agli stranieri in rapporto d’affari con noi. Si sottolineava, infatti, il carattere sovranazionale della materia: «Pongasi mente, che le cause di commercio spesso interessano negozianti di altre nazioni, come quelle per lettere di cambio, biglietti ad ordine, cambi marittimi, noleggi, assicurazioni, avarie, fallimenti, ec. E gli Esteri usi a trattar le loro cause di commercio avanti tribunali di commercio, mal soffrirebbero di vedere in questo Regno d’Italia giudicar le cause, nelle quali sieno essi interessati, da tribunali civili. La giurisdizione di commercio mai potrebbe essere meglio esercitata, che da’ tribunali di commercio con quella semplicità e speditezza che esigono le cause di commercio, semplicità e speditezza, che mai si otterrebbe avanti i tribunali di circondario. Son questi gravati dalle cause civili e dalle correzionali»[48].
Fin dal 1863 il tema dell’abolizione delle corti mercantili divise i giuristi: alcuni richiamarono esperienze straniere. E così si lesse che: «E la Sezione del Consiglio di Stato di Francia, quando si agitava la quistione tra i due sistemi della conservazione, o della soppressione de’ tribunali di commercio diceva: “I commercianti reclamano unanimemente contro la promossa soppressione. Non fu promossa giammai alcuna querela ne’ circondari di questi tribunali contro la esistenza loro, e le loro sentenze. I soli Tribunali civili pretendono che essi siano inutili”»[49]. Anche in una prospettiva tutta interna si ripeteva la necessità di conservare le corti della giustizia mercantile: «Due gravissimi mali ad un tempo recava al Commercio ed alla Industria del già Ducato di Lucca il Motu proprio Granducale de’ 26 febbrajo 1848; l’uno con l’abolire il Tribunale di Commercio e deferire la cognizione delle cause commerciali ai Tribunali ordinari, l’altro sottoponendo i nostri giudizi a quelle forme procedurali che gli affari di commercio già regolavano nella Toscana»[50]. In quello stesso anno non mancavano, tuttavia, voci dissenzienti: «professai sempre io pure l’opinion di coloro che condannano questa istituzione come non più adatta all’ordine dei tempi, all’ampliezza e alla molteplice diversità delle combinazioni contrattuali cui ha dato luogo l’odierno progresso del commercio e dell’industria, come un vero anacronismo»[51].

Note

42.  La giurisdizione commerciale, come si sa, fu capace di sopravvivere per quasi un secolo alla Grande Rivoluzione che aprì l’età moderna e alla fine conseguente della società fondata sugli ordini e l’appartenenza cetuale. Si veda perciò il paragrafo 4 e le questioni sull’abolizione dei tribunali mercantili, avvertiti alla fine dell’Ottocento come giudici di settore e dunque incompatibili con le trionfanti dinamiche statualistiche.

43.  Tra legislatori e interpreti nella Napoli di antico regime, Istituto Italiano per gli Studi Filosofici, Napoli 1991, (cur. Sergio Bagnulo, Aurelio Cernigliaro, Maria Rosaria Fortezza, Maria Gabriella Zinno), p. 154.

44.  Oltre ai dati relativi ai tribunali di Firenze, Napoli, Roma e Venezia e che conto di pubblicare a breve, rinvio a Giuseppe Zanardelli, Discorsi parlamentari (Discorso del 13 dic. 1887), vol. II, Tipografia della Camera dei Deputati, Roma 1905, p. 497.

45.  Utilizzo quest’espressione, facendola comparire nel titolo di una monografia (“Il giudizio dei pari. I Tribunali di commercio italiani tra antico e nuovo regime”) di prossima pubblicazione, nella convinzione che il tratto distintivo di quella corte di giustizia fosse il legame esistente fra giudici e amministrati. A conferire un’identità e un ruolo, anche politico, al giudice mercantile fu proprio quella comunanza: essa qualificò la magistratura commerciale più del carattere immutabile della sua giurisdizione, indifferente ai mutamenti determinati da eventi legislativi d’assoluta importanza, quali il dispaccio di Bernardo Tanucci del 1774 che istituiva a Napoli l’obbligo di motivare le sentenze o lo stesso Code Napoléon. In presenza di cambiamenti così importanti, i tribunali di commercio mantennero il loro stylus judicandi. Ciò fu possibile perché era piena la coesione sociale tra giudici e amministrati e tra le stesse parti del processo. Sul tema Marco Nicola Miletti, stylus judicandi. Le raccolte di «Decisiones» del regno di Napoli in età moderna, Jovene, Napoli 1998, spec. pp. 195-203, dedicate ai modelli decisori e alle procedure delle corti inferiori.

46.  Si veda Giuseppe Zanardelli, Discorsi parlamentari (Discorso del 13 dic. 1887), vol. II, Tipografia della Camera dei Deputati, Roma 1905, p. 497-8; cfr. la nt. succ.

47.  Tito Cacace, Del progetto di legge per l’abolizione dei Tribunali di Commercio. Osservazioni, Tipografia De Angelis, Napoli 1881, passim e in part. p. 6.

48.  Ivi, p. 11 s.

49.  Giuseppe Calvino, Ragioni per la conservazione dei Tribunali di Commercio del Regno d’Italia, Tipografia di Giovanni Modica Romano, Trapani, 1863, p. 10. Fondamentale è la comparazione operata da Gian Savino Pene Vidari con La jurisdiction commercelle en France et en Italie aux XVII.e et XIX.e siécle, in Le droit commercel dans la société suisse du XIX.e siécle, s. la dir. de Pio Caroni, Èditions Universitaires, Fribourg, 1997, pp. 169-185; cfr. Antonio Padoa Schioppa, Saggi di storia del diritto commerciale, Edizioni Universitarie di Lettere Economia Diritto, Milano 1992, pp. 98-106.

50.  Rapporto della Commissione della Camera di Commercio ed Arti di Lucca sulla necessità della istituzione dei Tribunali di Commercio nella provincia lucchese, Tipografia Benedini Guidotti, Lucca, 1863, p. 3.

51.  Tito Masi, Lettera a Giovanni de Foresta, senatore del Regno, primo Presidente della R Corte d’Appello, Regia Tipografia, Bologna, 1863, p. 5.

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