Considerazioni minime in tema di semplificazione

1. Il tema
Vale la pena di svolgere alcune riflessioni sul tema della proposta di riforma dell’art. 41 della Costituzione, per quel che riguarda soprattutto le ricadute di sistema sulla configurazione stessa del diritto amministrativo nel nostro ordinamento. Un tema sul quale molto ha detto la politica, ma poco ha parlato la cultura giuridica, che pure dovrebbe e potrebbe fornire al riguardo contributi essenziali di pensiero e di approfondimento.
Sembra poi utile anticipare alcune considerazioni più specifiche sul piano applicativo, riferite alla incompatibilità delle idee sottese a questa proposta di riforma rispetto al sistema della tutela del patrimonio culturale proprio del nostro ordinamento giuridico.
Si impongono, infine, alcune considerazioni minime sulla intrinseca fallacia logica che menoma le misure di semplificazione sinora introdotte dal legislatore (d.i.a., s.c.i.a., silenzio-assenso).

1.2. Tesi e antitesi.
A sostegno della riforma si richiama lo spirito liberale dello “Stato minimo”[1], secondo cui lo Stato è il problema, non la soluzione[2], l’autorità deve cedere il posto alla libertà dell’individuo, la cui attività creatrice, in una visione irenico-ottimistica del mondo, merita fiducia e deve essere lasciata all’autoregolazione del mercato. Ogni imposizione di permessi e controlli preventivi – secondo questa visione del mondo – si traduce fatalmente in una causa di corruzione, con l’ulteriore costo sociale del blocco delle iniziative produttive.
Contro la riforma si profilano, a un primo esame, tre domande fondamentali, che si collocano a diversi livelli di generalità e di approfondimento: sul piano della filosofia del diritto, occorre domandarsi se questa riforma non sovverta l’ordine “giusto” delle cose, anteponendo la tecnica all’uomo, il mezzo al fine; sul piano della politica del diritto, si pone la questione se questa riforma sia poi davvero così liberale (quali libertà privilegiare e in che modo e con quale bilanciamento tra loro?); sul piano della teoria del diritto pubblico, ci si deve porre la domanda se il principio dell’autocertificazione e del controllo successivo non riducano il diritto amministrativo al diritto penale e il provvedimento da precetto a mera sanzione.

2. La riforma dell’articolo 41 della Costituzione.
Il programma liberista di “Stato minimo” rinviene indubbiamente il suo perno centrale nella proposta di riforma dell’art. 41 della Costituzione (la madre di tutte le liberalizzazioni), approvata dal Governo il 9 febbraio 2011, presentata alla Camera in data 7 marzo 2011 (AC 4144), attualmente in corso di esame presso la 1^ Commissione Affari costituzionali.
La proposta così recita. “1. L’articolo 41 della Costituzione è sostituito dal seguente: «Art. 41. – L’iniziativa e l’attività economica privata sono libere ed è permesso tutto ciò che non è espressamente vietato dalla legge (primo comma). Non possono svolgersi in contrasto con l’utilità sociale, con i principî fondamentali della Costituzione o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana (secondo comma). La legge si conforma ai principî di fiducia e di leale collaborazione tra le pubbliche amministrazioni e i cittadini prevedendo, di norma, controlli successivi» (terzo comma).
L’idea di fondo è che il cittadino sa badare a se stesso, ha una naturale propensione al bene e ad agire in modo lecito e corretto, occorre dargli fiducia, l’interferenza del controllo statale deve essere la minima indispensabile, gli apparati burocratici costano e sono ingestibili, i poteri di controllo preventivo generano inevitabile corruzione. Tutto questo, oltre che suggestivo, può anche essere in larga parte vero e condivisibile. Non si intende certo in questa sede svolgere valutazioni di merito su questi indirizzi politici. Né si vuole qui discutere l’assioma ottimistico delle magnifiche sorti e progressive della crescita.
Tuttavia, al di là delle ovvie domande sulla concreta portata di questa riforma[3], sarebbe bene avviare un dibattito franco e onesto, tra chi per lavoro si occupa, a vario titolo, di amministrazione, sull’incidenza di questi indirizzi riformatori sul sistema del diritto amministrativo.

2.1. Uomo e tecnica. Mezzi e fini.
La prima impressione che si trae, anche alla luce della discussione politica (di politica del diritto) che accompagna queste proposte, presentate come la più radicale e profonda delle trasformazioni liberalizzatici del rapporto tra cittadini e Stato, tra autorità e libertà, è che lo spirito, l’idea che le animano rischiano, se non correttamente intesi, di sovvertire l’ordine naturale delle cose, collocando l’uomo sotto la tecnica, che viene promossa da mezzo a fine, con una paradossale inversione delle polarità del vero liberalismo, imperniato sull’idea della centralità dell’uomo con il suo bagaglio di diritti innati.
L’assolutizzazione del diritto di fare impresa pone il modo di produzione capitalistico, basato sulla “dittatura del PIL” e sul mito della crescita, al di sopra dei diritti innati della persona (in primis il diritto di non intromissione nella propria sfera privata, il diritto a non essere disturbati nel godimento pacifico dei propri beni, e, quindi, salute, ambiente, cultura, diritti e interessi diffusi e collettivi, salvaguardia dei beni pubblici contro l’appropriazione e il consumo privati, diritti sociali e civili). Lo spirito di questa riforma sembra perciò porsi in contrasto con il migliore pensiero liberale e sociale più recente (ad esempio, con la lettera enciclica del 2010 di Papa Benedetto XVI Caritas in veritate, oltre che con importanti indicazioni della filosofia contemporanea: Hans Jonas, Amartya Sen, Hilary Putnam, Emanuele Severino, Axel Honneth, Umberto Galimberti)[4].

2.2. Libertà negative e libertà positive.
La logica del controllo successivo e del “supediritto” di fare impresa è solo apparentemente liberale: essa dichiara di voler “liberare” l’iniziativa e l’attività economica privata dal peso della burocrazia – liberare, dunque, la capacità creatrice dell’uomo – ma in realtà mira a (o, comunque, consegue il risultato di) privare gli interessi diffusi[5] – ossia le libertà e i diritti fondamentali di tutti i consociati, che devono subire i costi e i riflessi negativi della libertà di produzione – di ogni forma di tutela (pubblica) reale ed efficace. Libera in realtà lo strapotere della tecnica. Afferma, dunque, il primato del potere economico produttivo – che assurge ad unica priorità assoluta – sui diritti dell’uomo, sia inteso come singolo individuo, che difende la sua sfera privata dalle altrui intromissioni, nonché i suoi diritti di privata incolumità, salute e libertà, sia inteso come cittadino, che difende lo spazio civico e la qualità della vita comune e dei diritti collettivi e diffusi. Si afferma una prevalenza a priori dell’uomo-imprenditore, rispetto alle istanze dell’uomo-(mera) persona, che non ha più diritto a controlli preventivi sulla invasività dell’altrui iniziativa e attività economica, ma al più potrà chiedere l’attivazione di eventuali controlli successivi (peraltro nelle nebulose e incerte forme giuridiche di tutela avverso tali, varie figure di dichiarazione, denuncia, segnalazione certificata di inizio attività e/o autocertificazione: cfr. Cons. Stato, ad. plen., n. 15 del 2011, che aveva ammesso l’impugnativa del silenzio-diniego di controllo successivo, contraddetta dal decreto legge n. 138 del 2011, art. 6, comma 1, che ha previsto, invece, per tali casi, l’azione avverso il silenzio-inadempimento della p.a.).
Il (proclamato) liberalismo sotteso a questa proposta di riforma sembra dunque incappare in un grande fraintendimento dagli esiti paradossali: confonde (e scambia) il diritto dell’individuo imprenditore (libertà di fare) con tutti i diritti degli individui cittadini, esaltando oltre ogni modo il primo, collocato al vertice della scala gerarchica dei valori e della forza giuridica, e declassando e svalutando del tutto i secondi, che pure sono e restano i veri diritti individuali di marca liberale[6].

2.3. La riduzione del diritto amministrativo a diritto sanzionatorio.
La centralità del tema della tutela del terzo controinteressato leso dimostra come la riforma in corso operi un cambio di orizzonte, di campo focale, del modo di esplicazione del diritto amministrativo, con un passaggio dalla regola pubblicistica preventiva all’arbitraggio successivo del conflitto tra privati, con uno slittamento della linea della tutela dall’azione regolatrice preventiva dell’amministrazione (in funzione di cura dell’interesse generale) all’azione individuale di diritto soggettivo a tutela della proprietà privata (secondo lo schema dei limiti alla proprietà del codice civile, posti solo a tutela del vicino e rimessi alla sua attivazione). I limiti alla proprietà e all’iniziativa economica privata non sono più di pubblico interesse, non sono più posti nell’interesse generale e sorvegliati e curati dall’autorità della funzione pubblica, ma lasciati ai conflitti interprivati, che invocano l’intervento amministrativo in chiave sanzionatoria successiva di repressione di azioni lesive. La tutela dell’interesse generale – ambientale, di tutela del patrimonio culturale – è abbandonata alla reazione dei privati viciniori controinteressati, con abdicazione della funzione pubblica al suo compito di dettare regole preventive di azione compatibile. Il diritto amministrativo dismette la sua funzione precettiva di regola del caso concreto in funzione di prevenzione dei conflitti intersoggettivi e si riduce a sanzione attivabile su iniziativa del privato leso. Il diritto amministrativo rinuncia alla sua funzione “nobile” di integrazione sociale e si riduce a rimedio sanzionatorio di liti interprivate. Assume al più una connotazione arbitrale di conflitti tra privati. Il peso e la responsabilità della legalità (e della cura dell’interesse generale) vengono fatte ricadere e gravare esclusivamente sulle spalle del cittadino: l’abuso, l’attività illecita, contro le regole, avviata dall’impresa, sarà impedita solo per iniziativa e sotto la responsabilità del vicino che denuncia, ciò che rischia di alimentare l’acuirsi di conflitti gravi interpersonali, catalizzati dall’assenza dell’autorità costituita, che aspetta inerte la denuncia del privato per arbitrare quasi-giudizialmente il conflitto insorto.
E’ peraltro vero – e deve essere sottolineato – che l’attacco all’art. 41 Cost. sembra diretto soprattutto contro il “dirigismo” contenuto nel terzo comma, mentre il secondo comma, che pone i limiti conformativi all’iniziativa e all’attività privata a tutela della dignità dell’uomo, resta sostanzialmente immutato. Il nuovo terzo comma, tuttavia, invoca il ribaltamento del sistema dei controlli amministrativi: da preventivi e necessari (condizionanti) a successivi ed eventuali. Il rischio è la fine del diritto amministrativo, inteso come attività precettiva di disciplina in concreto delle attività interferenti con interessi generali meritevoli di tutela pubblicistica, che finisce per rifluire verso una sorta di diritto penale “minore”, consistente nella sola irrogazione di pene pecuniarie (più raramente ripristinatorie) per i trasgressori delle regole sostanziali che disciplinano l’attività economica. In quest’ottica l’atto amministrativo cessa di essere precetto, regola del caso concreto, per divenire mera sanzione.

3. Il decreto legge n. 138 del 2011 (e le successive ripetizioni).
Intanto, nelle more dell’approvazione della proposta di modifica dell’art. 41 della Costituzione, il Governo, con il decreto legge 13 agosto 2011, n. 138, recante “Ulteriori misure urgenti per la stabilizzazione finanziaria e per lo sviluppo”, convertito, con modificazioni, nella legge 14 settembre 2011, n. 148, ha introdotto una sorta di “anticipazione” della preannunciata riforma della Costituzione, con una disposizione del seguente tenore (articolo 3 del decreto legge): “1. (In attesa della revisione dell’articolo 41 della Costituzione, – inciso poi cancellato dalla legge di conversione) Comuni, Province, Regioni e Stato, entro un anno dalla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto, adeguano i rispettivi ordinamenti al principio secondo cui l’iniziativa e l’attività economica privata sono libere ed è permesso tutto ciò che non è espressamente vietato dalla legge nei soli casi di: a) vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali; b) contrasto con i principi fondamentali della Costituzione; c) danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana e contrasto con l’utilità sociale; d) disposizioni indispensabili per la protezione della salute umana, la conservazione delle specie animali e vegetali, dell’ambiente, del paesaggio e del patrimonio culturale; e) disposizioni che comportano effetti sulla finanza pubblica”. Il comma 2 qualifica le disposizioni del comma 1 in termini di principio fondamentale per lo sviluppo economico e di piena tutela della concorrenza tra le imprese. Il comma 3 prevede, quindi, che “Sono in ogni caso soppresse, alla scadenza del termine di cui al comma 1, le disposizioni normative statali incompatibili con quanto disposto nel medesimo comma, con conseguente diretta applicazione degli istituti della segnalazione di inizio di attività e dell’autocertificazione con controlli successivi. Nelle more della decorrenza del predetto termine, l’adeguamento al principio di cui al comma 1 può avvenire anche attraverso gli strumenti vigenti di semplificazione normativa. Entro il 31 dicembre 2012 il Governo è autorizzato ad adottare uno o più regolamenti ai sensi dell’articolo 17, comma 2, della legge 23 agosto 1988, n. 400, con i quali vengono individuate le disposizioni abrogate per effetto di quanto disposto nel comma 3 ed è definita la disciplina regolamentare della materia ai fini dell’adeguamento al principio di cui al comma 1”.
Al di là della dubbia valenza precettiva (o solo programmatica?) di tale disposizione e del suo improprio riferimento all’adeguamento, da parte dello Stato e delle autonomie territoriali, dei rispettivi ordinamenti al principio secondo cui l’iniziativa e l’attività economica privata sono libere ed è permesso tutto ciò che non è espressamente vietato dalla legge, essa sembra postulare l’idea che, nell’ambito dei divieti posti dalla legge a tutela dei beni-interessi-valori ivi indicati, le singole amministrazioni debbano selezionare quelli indispensabili alla tutela rispetto a quelli non necessari, che saranno perciò da abolire (saranno abrogati ipso facto decorso il termine di un anno). Soprattutto, non è stabilito chi e con quali strumenti giuridici dovrà decidere ciò che è indispensabile – che resta in vigore – da ciò che non lo è – e che perciò è destinato ad essere abrogato decorso il termine di legge.
Queste proposte normative e questi nuovi enunciati normativi (di dubbia lettura) recano comunque in sé, soprattutto per la loro carica ideologica, il pericolo concreto di un rovesciamento della logica tradizionale secondo cui il diritto d’impresa è condizionato alla previa verifica di compatibilità rispetto ai diritti fondamentali dell’uomo (la dignità dell’uomo, nel testo del 1948, che oggi comprende salute, ambiente salubre, identità e storia culturale, qualità del paesaggio, sicurezza pubblica, etc.) e il diritto di fare impresa diventa (insieme al diritto di proprietà, esaltato di recente oltre ogni limite dalla CEDU) l’unico superdiritto assoluto, rispetto al quale i diritti dell’uomo (nella loro dimensione generale, diffusa) sono condizionati e subordinati.
La comprensione del senso della tutela del patrimonio culturale e della causa formale degli istituti vincolistici dimostrerà l’inapplicabilità dell’ordine di idee sotteso alla proposta di riforma dell’art. 41 Cost. agli istituti di tutela del patrimonio culturale.
Questo ictus normativo, già accennato con l’art. 38 del decreto legge n. 112 del 2008, convertito, con modificazioni, nella legge n. 122 del 2008 (sullo sportello unico per le attività produttive), ha avuto, successivamente, numerose iterazioni, fino a diventare un luogo comune in ogni decreto legge “crescita” o “sviluppo” o “competitività” (che dir si voglia). Il gene che ha attivato questa iterazione viene di regola individuato nella direttiva Bolkenstein sui servizi 2006/123/CE (art. 9 e considerando 49 e 59)[7]. L’articolo 1, comma 2 del decreto legge 24 gennaio 2012, n. 1, convertito, con modificazioni, dalla legge 24 marzo 2012, n. 27, stabilisce, a sua volta, che “le disposizioni recanti divieti, restrizioni, oneri o condizioni all’accesso ed all’esercizio delle attività economiche sono in ogni caso interpretate ed applicate in senso tassativo, restrittivo e ragionevolmente proporzionato alle perseguite finalità di interesse pubblico generale, alla stregua dei principi costituzionali per i quali l’iniziativa economica privata è libera secondo condizioni di piena concorrenza e pari opportunità tra tutti i soggetti, presenti e futuri, ed ammette solo i limiti, i programmi e i controlli necessari ad evitare possibili danni alla salute, all’ambiente, al paesaggio, al patrimonio artistico e culturale, alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana e possibili contrasti con l’utilità sociale, con l’ordine pubblico, con il sistema tributario e con gli obblighi comunitari ed internazionali della Repubblica”. Il comma 3 prevede, inoltre, che il Governo sia “autorizzato ad adottare entro il 31 dicembre 2012 uno o più regolamenti, ai sensi dell’articolo 17, comma 2, della legge 23 agosto 1988, n. 400, per individuare le attività per le quali permane l’atto preventivo di assenso dell’amministrazione, e disciplinare i requisiti per l’esercizio delle attività economiche, nonché i termini e le modalità per l’esercizio dei poteri di controllo dell’amministrazione, individuando le disposizioni di legge e regolamentari dello Stato che, ai sensi del comma 1, vengono abrogate a decorrere dalla data di entrata in vigore dei regolamenti stessi.” Questa norma richiama – come criteri direttivi cui dovranno attenersi i suddetti regolamenti di delegificazione – “i principi direttivi di cui all’articolo 34 del decreto-legge 6 dicembre 2011, n. 201, convertito, con modificazioni, dalla legge 22 dicembre 2011, n. 214”. Infine, a questo coacervo normativo si è aggiunto il successivo decreto legge 9 febbraio 2012, n. 5, recante “Disposizioni urgenti in materia di semplificazione e di sviluppo”, convertito, con modificazioni, dalla legge 4 aprile 2012, n. 35, il cui art. 12, concernente la semplificazione procedimentale per l’esercizio di attività economiche, dispone, tra l’altro, al comma 2, che “Nel rispetto del principio costituzionale di libertà dell’iniziativa economica privata in condizioni di piena concorrenza e pari opportunità tra tutti i soggetti, che ammette solo i limiti, i programmi e i controlli necessari ad evitare possibili danni alla salute, all’ambiente, al paesaggio, al patrimonio artistico e culturale, alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana e possibili contrasti con l’utilità sociale, con l’ordine pubblico, con il sistema tributario e con gli obblighi comunitari ed internazionali della Repubblica, il Governo adotta uno o più regolamenti di delegificazione, al fine di semplificare i procedimenti amministrativi concernenti l’attività di impresa”.

4. Profili applicativi: la logica formale della tutela e i limiti alle libertà individuali.
E’ necessario in primo luogo capire che cos’è la tutela. Da oltre un secolo la genesi e la logica interna del regime di tutela delle cose d’arte (legge Nasi n. 185 del 1902, legge Rosadi n. 364 del 1909, legge Bottai n. 1089 del 1939) e dei beni paesaggistici (legge n. 411 del 1905 di tutela della pineta di Ravenna, legge Croce n. 778 del 1922, legge Bottai n. 1497 del 1939, legge “Galasso” del 1985), è sempre stata imperniata sulla eccezione del patrimonio culturale[8] (deroga al regime di libertà di diritto privato di uti – frui del bene in funzione di protezione del valore di interesse generale in esso intrinseco, mediante l’esercizio di una sorta di dominio eminente pubblico, il tutto mediato da un atto d’autorità di riconoscimento del valore e di imposizione del connesso titolo pubblico sul bene). La migliore dottrina[9] ha sempre configurato l’atto di tutela (in primis, il provvedimento di vincolo) quale atto restrittivo della sfera giuridica del destinatario, nel quadro della figura generale delle limitazioni amministrative alla proprietà privata. In base a questa ricostruzione l’effetto tipico del vincolo risiede nella costituzione, in capo al titolare dei diritti sul bene, di doveri preordinati a garantire la conservazione dello stato attuale del bene vincolato.
La tutela, dunque, non è libertà, ma è limite alla libertà. Pensare che l’utifrui del bene tutelato, ossia l’esercizio del diritto di proprietà privata e del diritto di iniziativa e di attività economica privata su di esso siano espressioni di primigenia libertà (ancorché condizionata) e possano senz’altro essere esercitati con una mera autocertificazione di compatibilità, equivale a ritenere che la tutela (intesa in senso proprio) debba essere abolita. Il vincolo esprime in realtà una sorta di “condominio” pubblico sul bene[10] che, in un certo senso, è di tutti, poiché è di tutti non solo, da un lato, il diritto di tipo fedecommissario alla conservazione e alla trasmissione alle future generazioni dell’acquisto culturale ereditato dal passato (e giudicato meritevole di tutela, per il suo valore culturale, dall’autorità competente), ma è di tutti, dall’altro lato (anche) quel particolare diritto di uso (pubblico) che consiste nella fruizione e nel godimento del bene culturale e paesaggistico come elemento della identità culturale propria e collettiva (l’unico uso che non “consuma” il bene, ma la conserva e lo valorizza). Perciò l’autorizzazione, in questa materia, non è una mera rimozione di un limite legale all’esercizio di un diritto condizionato[11], ma è co-decisione (condominiale) sull’uso e sulla sorte del bene. L’autorizzazione edilizia o quella ambientale, da un lato, e quella storico-artistica o paesaggistica, dall’altro, sono solo nominalmente e apparentemente simili, ma costituiscono, nella sostanza logica, due istituti radicalmente diversi: le prime sono mere rimozioni (vincolate) di limiti legali a diritti condizionati (in funzione di controllo preventivo di compatibilità con i valori e gli interessi generali protetti); le seconde sono qualcosa di molto di più: sono atti (discrezionali) di esercizio del dominio eminente pubblico o della servitù di fruizione pubblica, tramite l’autorità preposta (delegata degli stakeholders, ossia di tutti i cittadini), finalizzato ad assicurare che il titolo pubblico non sia diminuito e depauperato dall’atto di gestione del privato, ossia a che la fruizione pubblica e la conservazione-protezione in chiave fedecommissaria del valore culturale/paesaggistico del bene siano adeguatamente garantite. E’ ovvio, dunque, che questa autorizzazione, affatto particolare, logicamente, prima ancora che giuridicamente, non è autocertificabile. Il proprietario privato non ha affatto la disponibilità del bene, ma la condivide con la collettività (che esercita il proprio condominio tramite l’amministrazione). Tant’è vero che – come è ormai pacifica acquisizione[12] – tali vincoli sono puramente dichiarativi di una qualità intrinseca della res e non sono considerati espropriativi (non sono, dunque, indennizzabili), e ciò proprio perché al privato non tolgono nulla che questi già avesse prima, ma si limitano a esplicitare e a rendere palese il naturale con-dominio di godimento pubblico su quei beni, la loro intrinseca valenza di interesse pubblico.
La logica interna che fonda il regime giuridico della tutela risponde al fine di assicurare la salvaguardia del bene, come patrimonio identitario (“patrum munus”) da conservare e proteggere e da trasmettere alle future generazioni. L’idea stessa di tutela del bene culturale e del paesaggio è implicata – ed è perciò pragmaticamente spiegata – dall’esigenza pratica di sottrarre alla libera disponibilità e fruibilità individuale talune cose, mobili o immobili, e talune porzioni di territorio (più vulnerabili o più importanti), riconosciute meritevoli di particolare protezione in aggiunta al normale regime giuridico generale. E’ questo il gene caratterizzante il regime speciale degli istituti preordinati alla tutela del patrimonio culturale e del paesaggio, che non può essere soppresso senza sopprimere l’intero organismo giuridico che da esso è connotato.
Non senza considerare poi che la logica dell’autocertificazione è legata intimamente a quella dell’accertamento interamente vincolato a presupposti di fatto non opinabili (l’art. 19 della legge n. 241 del 1990, tuttora vigente, ribadisce, correttamente, il concetto per cui la d.i.a. – oggi s.c.i.a. – vale solo per gli atti di autorizzazione, licenza, concessione non costitutiva, permesso o nulla osta comunque denominato, il cui rilascio dipenda esclusivamente dall’accertamento di requisiti e presupposti richiesti dalla legge o da atti amministrativi a contenuto generale), ma non è rapportabile ai casi, quali tipicamente sono quelli di esercizio del potere autorizzativo di tutela del bene culturale e paesaggistico, naturalmente e inevitabilmente discrezionali (tecnico-discrezionali o connotati da discrezionalità interpretativa in relazione all’uso, nelle norme d’azione, di termini generici ed elastici introduttivi di concetti giuridici indeterminati)[13]. Se, dunque, l’autocertificazione e la logica del controllo successivo possono essere in parte applicabili alla materia della tutela dell’ambiente-ecosfera[14], che si occupa di grandezze fisiche, chimiche, biologiche misurabili, e si esprime di regola tramite accertamenti e autorizzazioni in senso proprio (di regola vincolate), esse sembrano, anche da questo angolo di visuale, del tutto incongrue rispetto alla materia della tutela del patrimonio culturale, dove si tratta prevalentemente di atti di esercizio di discrezionalità, amministrativa, mista, tecnica ed interpretativa.
La nuova disposizione normativa introdotta dal citato art. 3, comma 1, del decreto legge n. 138 del 2011 può tuttavia ricevere una lettura costituzionalmente orientata e conforme (all’art. 9 Cost.) se si interpreta la nozione di indispensabilità (dei divieti) non già nel senso (probabilmente ritenuto dall’estensore della disposizione) della selezione, all’interno delle norme di tutela vigenti, del solo nucleo minimo “indispensabile” ad assicurare la tutela (con conseguente eliminazione di tutto il resto), ma nel senso dell’implicita e intrinseca indispensabilità dell’intero sistema normativo di tutela (oggi essenzialmente racchiuso nel Codice di settore del 2004). Le considerazioni sopra svolte sulla logica interna della tutela e sulla sua ragion d’essere forniscono una spiegazione e una dimostrazione adeguate della validità di quest’ultima linea interpretativa: il sistema dei vincoli di tutela sedimentatosi negli ultimi cent’anni di storia è un tutt’uno inscindibile e costituisce la soglia minima incomprimibile di protezione e conservazione del patrimonio culturale, come tale integralmente “indispensabile”. E’ un sistema che fa perno sul controllo preventivo affidato a una magistratura tecnica altamente specializzata dipendente dallo Stato e sull’immodificabilità del bene – che è di tutti, oggetto di un dominio eminente pubblico – fino alla pronuncia favorevole dell’autorità competente. Non c’è niente da “liberalizzare”. Liberalizzare l’inizio dell’attività equivale semplicemente ad abolire la tutela. Non sono ammesse d.i.a. e s.c.i.a. Neppure è compatibile la logica “ordalica” del silenzio-assenso, che si fonda esattamente sulla logica contraria della normale “dispensabilità” del controllo, in materie disponibili, ma che non è ammissibile quando è in gioco un bene che è non solo di tutti noi, ma anche delle generazioni future.
Diversamente opinando, nel senso della necessità o della possibilità di una selezione riduttiva, entro le norme di tutela contenute nel codice di settore e nella disciplina regolamentare attuativa, delle previsioni di divieto, la nuova disposizione del decreto legge n. 138 del 2011 conterrebbe un incostituzionale attacco alla sopravvivenza della figura stessa del vincolo di tutela, ritenuto, evidentemente, in quella logica, incompatibile con la regola del controllo successivo-penale e della piena e incondizionata esplicazione della proprietà e dell’iniziativa/attività economica privata.

5. Proceduralismo e semplificazione.
L’idea di base della semplificazione è quella del diritto come pura forma, come procedura neutra. Un’idea impossibile per la tutela del patrimonio culturale, che si fonda, invece, su un impegno sostantivo sui valori e si pone in contraddizione naturale e insanabile con il puro formalismo giuridico.
Dietro le posizioni della linea “proceduralista” si intravede l’idea per cui la tutela deve risolversi e ridursi tutt’al più in qualche suggerimento per mitigare l’impatto dell’intervento realizzativo, che assurge al rango di bene in sé, di valore assoluto, in quanto espressione del “fare”, fattore, dunque, di crescita del PIL. Su queste basi la semplificazione amministrativa diviene l’occasione – o lo strumento – per una vera e propria “tassidermia” della funzione pubblica (svuotata dei suoi contenuti di effettiva regolazione provvedimentale dei fatti e ridotta a pura forma fine a se stessa)[15].
Sarebbe peraltro molto utile e attuale una riconsiderazione critica dei luoghi comuni su cui poggia la logica del doing business, o una certa visione “mercatista”[16], anche di origine comunitaria (il programma della Commissione europea di riduzione, entro il 2012, del 25% degli oneri amministrativi, la direttiva cd. “Bolkenstein”[17], etc.), tutta spostata sull’asse sviluppo-competitività-crescita[18].

6. L’errore logico insito nell’idea di liberalizzazione non dell’attività, ma del solo inizio dell’attività.
Il modello della semplificazione “in ingresso” non funziona. Non funziona perché reca in sé un buco logico evidente: liberalizza l’avvio dell’attività, ma non l’attività. Se un determinata attività è ritenuta dal legislatore meritevole di cura e trattamento pubblicistici – perché, evidentemente, implicante beni-interessi-valori giudicati di interesse generale, non adeguatamente garantiti e protetti dal mercato e dal diritto privato – essa, per definizione, se esiste ancora un principio di non contraddizione, non può essere liberalizzata. Liberalizzarla “a metà”, ossia solo per la fase iniziale di avvio, è una presa in giro, un non senso, che crea solo pasticci, incertezza e contenziosi[19]. Spesso ci si domanda come mai il cittadino preferisca, in certi casi, attendere il “pezzo di carta”, ossia il provvedimento formale di autorizzazione. La risposta è ovvia. Se l’attività non è “libera”, ma condizionata al rispetto degli interessi generali che con essa possono venire in conflitto, ed è per questo sottoposta dalla legge a un regime di controllo pubblicistico, nessuna garanzia potrà avere il cittadino che la inizia sulla base di una mera autocertificazione che, un domani, quella attività non gli sarà inibita e vietata dall’autorità, quando dovesse emergere la sua non conformità alla legge e la sua potenziale lesività di quegli interessi di terzi e generali che ne giustificano e impongono la sottoposizione a controlli pubblicistici.
Per capirsi: se la realizzazione di un edificio a uso residenziale abitativo – secondo una scelta politica del Parlamento, in base alla legge – non è soltanto un libero esercizio di un diritto di proprietà privata, ma include (o interferisce con) interessi generali (di corretto assetto urbanistico ed edilizio del territorio, di tutela del paesaggio e dei beni culturali, di igienicità e salubrità delle abitazioni, di efficienza energetica, di sicurezza antisismica e idrogeologica, di prevenzione degli incendi), allora questi interessi generali (pubblici, se e nella misura in cui la cura di essi è intestata alla competenza funzionale di un’amministrazione) esigono di essere rispettati sempre e comunque, perché non è sensato pensare che la tutela di un’area archeologica possa cessare dopo un mese o un anno o tre anni dall’ultimazione di una costruzione, che l’igienicità o l’antisismicità di un locale si acquisti con il tempo o con l’uso – sembra che i terremoti non capiscano e non rispettino la s.ci.a. o la d.i.a. -, il rischio idrogeologico non viene meno dopo due mesi dall’avvio della costruzione o dalla sua ultimazione, etc.). Da questa persistenza nel tempo dell’interesse generale e della sua necessità di garanzia e cura nasce la così detta continuità e indefettibilità – e la conseguente imprescrittibilità – dei poteri pubblicistici a tali garanzia e cura preordinati. Consegue da queste semplici constatazioni che è iscritto nella dura realtà delle cose il fatto che la semplificazione e la liberalizzazione dell’avvio delle attività non potrà mai dare certezza nei diritti acquisiti e lascerà sempre esposti ai provvedimenti repressivi e ripristinatori dell’amministrazione. E’ dunque inevitabile e non può destare meraviglia il fatto che, pur dopo elasso il termine breve di inibizione amministrativa dell’attività oggetto di denuncia o di segnalazione certificata, l’amministrazione debba inevitabilmente conservare i suoi poteri – poco importa come li si vogliano configurare, di autotutela o di ripristino della legalità – diretti a far rispettare la legge per garantire la cura indefettibile e continua dei beni-interessi-valori generali che siano pregiudicati dall’attività (liberamente) iniziata (ma non libera nel modo del suo svolgimento ed esercizio). Questo discorso vale, naturalmente, anche per l’esercizio di attività commerciali e professionali e non solo per l’inizio di attività di trasformazione del territorio: se il Parlamento, con scelta politica, ritiene che sia interesse generale garantire una determinata soglia minima di professionalità per svolgere determinate attività professionali o commerciali, o che debbano essere assicurate determinate condizioni materiali, di mezzi e di attrezzature, per il loro esercizio, la mancanza di questi requisiti soggettivi e presupposti oggettivi non potrà mai essere “sanata” o acquisita con il tempo, per il solo fatto che è inutilmente decorso un termine predeterminato per l’intervento repressivo o correttivo dell’amministrazione.
Viene in rilievo, d’altra parte, e anche questo è un aspetto di solito trascurato, un problema di parità di trattamento: ritenere e consentire che l’inizio di un’attività, ancorché contra legem, si “sani” e si consolidi in un legittimo diritto, decorso un certo tempo, sol perché chi la esercita l’ha fatta franca, ossia ha evitato in qualche modo il controllo successivo dell’amministrazione, avvantaggiandosi dell’inerzia degli organi preposti, significa consentire che l’assetto degli interessi generali sia governato dal caso e dalla fortuna (e, forse, comunque e sempre, dalla corruzione che, cacciata dalla porta – con l’abolizione delle autorizzazioni preventive – rientrerebbe, ancor più facilitata, anch’essa, per certi versi, “semplificata”, dalla finestra, nella nuova-antica forma del “chiudere un occhio”, del fingere di non vedere, dell’omettere il controllo successivo). In questo modo la parità di trattamento e il mito dell’esser tutti uguali di fronte alla legge saranno definitivamente infranti e superati. Avremo edifici, capannoni, attività commerciali e quant’altro leciti e legittimi ed edifici, capannoni, attività commerciali e quant’altro sedicenti leciti e legittimi per silentium, ma sostanzialmente contrari alla legge e agli interessi generali.
Né vale obiettare in senso contrario che esistono istituti amministrativi che pongono espressamente limiti temporali all’esercizio del potere di revisione o riesame o di repressione di un abuso (dalla prescrizione dei reati al limite di ragionevolezza del tempo di esercizio della revoca e dell’autoannullamento, fino alle leggi condonistiche). Si tratta, nell’un caso, di sanzioni penali afflittive (e non solo e non sempre ripristinatorie), nell’altro caso di ipotesi nelle quali, comunque, vi è stato un controllo autorizzativo preventivo positivo (nel caso della revoca, infatti, o dell’annullamento d’ufficio, vi è alla base, pur sempre, un provvedimento che ha ritenuto quell’attività, sia pure erroneamente, conforme a diritto); nel terzo caso (i condoni) si tratta di un’eccezione che dovrebbe confermare la regola. In ogni caso, delle due, l’una: o c’è rilevanza pubblicistica dell’attività, e allora non potrà non esserci un correlativo potere-dovere funzionale di ripristino della legalità, sia pure da esercitarsi con le garanzie e nei limiti propri dell’ordinamento generale della funzione; o l’attività è del tutto priva di interesse generale e di rilievo pubblicistico, e allora di essa non dovrà in alcun modo interessarsi la funzione pubblica (se non al livello penale e di prevenzione generale/speciale degli abusi): tertium non datur; ogni commistione e confusione tra queste due aree genera solo conflitti e incertezze; tale è il caso della d.i.a., s.c.i.a., silenzio-assenso.
Il punto è che con la finzione giuridica non si può (per fortuna) cambiare il mondo[20].
Qual è, dunque, la conclusione? La risposta è semplice: occorre che il legislatore faccia scelte chiare e coraggiose, bene distinguendo – nel coacervo dei beni, degli interessi e dei valori implicati dai conflitti intersoggettivi – ciò che richiede l’intervento e il controllo pubblico da ciò che non richiede questo impegno della funzione amministrativa e ben può essere lasciato – integralmente, dall’inizio alla fine – al mercato e alle libertà dei privati.
Servono, dunque, liberalizzazioni “vere”, fatte dalla restituzione di intere aree di attività alla libertà dei privati, con esclusione di ogni ingerenza pubblicistica (che non sia quella giurisdizionale contenziosa o di repressione penale). Le liberalizzazioni “finte” fanno solo confusione e peggiorano le cose, con danni per tutti, per i privati “richiedenti”, che, in realtà, finiscono per complicarsi la vita, per i terzi lesi dall’attività (in realtà illecita) del richiedente, così come per tutti gli altri, ossia per l’interesse generale-pubblico che, se davvero è interferito dall’attività “semplificata”, rischia di rimanerne pregiudicato.

*Il testo costituisce una rielaborazione aggiornata del contributo dal titolo La riforma dell’art. 41 della Costituzione e la tutela del patrimonio culturale pubblicato sulla rivista di diritto pubblico on line GiustAmm.it, al sito http://www.giustamm.it/, 26 ottobre 2011.

Note

1.  R. Nozick, Anarchia, stato, utopia, Firenze, 1981 (su cui cfr. per una chiara sintesi, S. Petrucciani, Modelli di filosofia politica, Torino, 2003, 177, nonché 214 ss.).

2.  Ronald Reagan, discorso inaugurale di insediamento alla Casa Bianca, 20 gennaio 1981.

3.  L’osservazione che sorge spontanea è: ma cosa cambia realmente? Non è già così? Il principio per cui tutto è libero tranne ciò che è espressamente vietato non è uno dei tratti tipici degli ordinamenti liberali degli Stati di diritto fondati sul moderno costituzionalismo? Già nel 1928 Carl Schmitt – Lo Stato di diritto borghese, trad. it. a cura di D. Nocilla, in Diritto e Cultura, n. 2/1998, 12 – osservava: “Questo Stato borghese di diritto è generalmente caratterizzato dal fatto di fondarsi sui diritti fondamentali degli individui e sul principio della distinzione dei poteri. Con il che, mentre la libertà dei singoli si pone in linea di principio come illimitata, lo Stato e il suo potere si pongono, invece, come limitati. Allo Stato è permesso solo ciò che gli è precisamente prescritto … illimitata è al contrario la libertà personale dei singoli”. Ma l’idea è già insita nei Bills of Rights della Rivoluzione americana del XVIII sec. (G. Jellinek, La dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino, trad. it. di D. Nocilla, Milano, 2002). Che bisogno c’è, dunque, di cambiare la Costituzione? Sull’art. 41 Cost., in generale, A. Baldassarre, voce Iniziativa economica privata, in Enc. Dir., XXI, 1971, 582 ss.

4.  Papa Benedetto XVI, Lettera enciclica Caritas in veritate, Libreria Editrice Vaticana, Roma, 2009 (sul contributo del pensiero cattolico nell’elaborazione dell’art. 41 Cost. cfr. D. Nocilla, I cattolici e la Costituzione, ed. Studium, Roma, 2009); A. Sen, L’idea di giustizia, Milano, 2009; H. Jonas, Il principio responsabilità, 1979, ed. it. a cura di P.P. Portinaro, Torino, 2009; H. Putnam, Fatto/valore; fine di una dicotomia, trad. it. di G. Pellegrino, Roma, 2004, con un ampio richiamo alle teorie di Amartya Sen, 77 ss.; N. Irti, E. Severino, Dialogo su diritto e tecnica, Roma-Bari, 2001; A. Honneth, La stoffa della giustizia e i limiti del proceduralismo, a cura di C. Caiano, Torino, 2010; U. Galimberti, Psiche e techne – L’uomo nell’età della tecnica, Milano, 1999; Id., I miti del nostro tempo, Milano, 2009, 279 ss.

5.  Per un’informazione di sintesi sul vastissimo dibattito giurisprudenziale e dottrinario sul tema degli interessi diffusi cfr. V. Caianiello, Diritto processuale amministrativo, Torino, 1988, 156 ss., nonché F. Caringella, Corso di diritto amministrativo, I, Milano, 2001, 483 ss. (ove si richiamano i fondamentali contributi di M.S. Giannini, La tutela degli interessi collettivi nei procedimenti amministrativi, in Le azioni a tutela degli interessi collettivi, Padova, 1976 – ove si propone la teoria dell’interesse diffuso “adespota” che diviene interesse collettivo se si struttura in forme associative – e di M. Nigro, Le due facce dell’interesse diffuso: ambiguità di una formula, in Foro It., 1987, V, 7 ss.).

6.  Le libertà negative (libertà da), piuttosto che quelle positive (libertà di). La distinzione risale a Isaiah Berlin, nel noto saggio “Due concetti di libertà“, risalente al 1958 (Isaiah Berlin, Libertà, trad. it. di G. Rigamonti, Milano, 2005). In tema cfr. D. Nocilla, Libertà, in S. Cassese (diretto da), Dizionario di diritto pubblico, vol. IV, Milano, 2006, 3496 ss., ed ivi ampi richiami bibliografici. Spunti interessanti in questa direzione sono ricavabili dalla recente pronuncia della Corte di cassazione del 2011 (Cass., ss.uu. civ., 16 febbraio 2011, n. 3811) che ha deciso le annose controversie sulla titolarità (pubblica) delle valli da pesca della laguna di Venezia. In questa importante sentenza la Cassazione, muovendo dalla diretta applicabilità degli artt. 2, 9 e 42 Cost., ha affermato il principio secondo cui anche la modulazione del regime dei beni pubblici deve essere incentrata intorno alla “tutela della umana personalità e del suo corretto svolgimento nell’ambito dello Stato sociale”, da “rendere effettiva” in “tale quadro normativo – costituzionale, e fermo restando il dato “essenziale” della centralità della persona (e dei relativi interessi), , oltre che con il riconoscimento di diritti inviolabili, anche mediante “adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale” (su tale pronuncia cfr. F. Cortese, Dalle valli da pesca ai beni comuni: la Cassazione rilegge lo statuto dei beni pubblici, in Giorn dir. amm., 11/2011, 1170 ss., ed ivi, note 12, 16 e 18, importanti richiami di dottrina: U. Mattei, E. Reviglio, S. Rodotà, Invertire la rotta. Idee per una riforma della proprietà pubblica, Bologna, 2007; contributi vari raccolti in Annuario AIPDA 2003, Milano, 2004, P. Perlingieri, Introduzione alla problematica della “proprietà”, Camerino-Napoli, 1970). Sulla nozione di beni comuni cfr. anche Corte cost. 25 novembre 2011, n. 320, che ha annullato la legislazione della Regione Lombardia che aveva previsto l’istituzione di una società patrimoniale d’ambito per l’organizzazione dei servizi pubblici locali, ritenuta in contrasto con la normativa statale (comma 5 dell’art. 23-bis del decreto-legge n. 112 del 2008 abrogato con il referendum del 12 e 13 giugno 2011) che sancisce il principio della proprietà pubblica delle reti, evidentemente inconciliabile con l’istituzione di una società di diritto comune cui trasferire la titolarità di reti, impianti e le altre dotazioni del servizio idrico integrato (cfr. art. 49, co. 2, l.r. Lombardia n. 26 del 2003), attesa l’autonomia soggettiva (e patrimoniale) di una tale società rispetto agli enti pubblici che ne sono soci (annotazione di L. Longhi, Le reti idriche: beni patrimoniali, beni demaniali o… beni comuni? Note minime su C. Cost., sent. n. 320/2011, al sito Giust.Amm.it, 18 gennaio 2012). Il tema è di recente approfondito e sviluppato da P. Maddalena, I beni comuni nel codice civile, nella tradizione romanistica e nella Costituzione della Repubblica italiana, in Federalismi.it, al sito http://www.federalismi.it/ApplMostraDoc.cfm?Artid=18948, n. 19 del 2011, 4 ottobre 2011, ove si ricerca acutamente la radice primigenia di questi valori giuridici nel diritto romano (nella summa divisio tra res in commercio e res extra commercium, o, secondo la terminologia di Gaio, tra res in patrimonio e res extra patrimonium, soprattutto per la stretta connessione esistente tra le res extra commercium e le res communes o publicae). L’A. ricorda la proposta di legge delega di riordino della proprietà presentata il 15 febbraio 2008, volta a introdurre la nuova categoria dei beni comuni tra i beni pubblici e i beni privati, includendovi tra l’altro i beni ambientali e paesaggistici.

7.  Un riepilogo, naturalmente “elogiativo” di questo nuovo corso delle libertà, in P. Lazzara, Principio di semplificazione e situazioni giuridico-soggettive, in Dir. amm., n. 4 del 2011, 680 ss. Una disamina più criticamente attenta, invece, in F. Martines, Considerazioni in tema di liberalizzazioni e ruolo della P.A. E’ tempo di svolte epocali?, sulla rivista di diritto pubblico on line GiustAmm.it, al sito http/www.giust.ammit/, 18 luglio 2012.

8.  Il concetto è bene elaborato da G. Severini, sub artt. 1-2, in M.A. Sandulli (a cura di), Il codice dei beni culturali e del paesaggio, Milano, 2007, 8 ss. e, ivi, completi richiami di bibliografia. L’Illustre A. coerentemente evidenzia – ivi, 10 – come “Implicazione normativa dell’eccezione è ad es. la non applicabilità alla materia in oggetto di alcuni principi generali di semplificazione dell’azione amministrativa”.

9.  A.M. Sandulli, Natura ed effetti dell’imposizione dei vincoli paesistici, in Riv trim. dir. pubbl., 1961, 809 ss.

10.  Per questa linea di idee cfr. il noto contributo di M.S. Giannini, I beni pubblici, Roma, 1963 (nonché Id., I beni culturali, in Riv. trim. dir. pubbl., 1976, 20 ss.), che prospettò la costruzione del bene culturale come bene soggetto a una sorta di proprietà distinta, con concorso del dominio utile del proprietario con il dominio eminente pubblico sul valore culturale della cosa, destinata alla conservazione e alla fruizione pubbliche, donde l’idea dell’illustre A. dei beni culturali come beni funzionalmente “immateriali”. Tesi che costituisce uno sviluppo dell’idea (P. Calamandrei, Immobili per destinazione, in Foro It., 1933, 1722) del bene culturale come bene pubblico. In base a tale linea di pensiero il bene culturale, quale testimonianza di civiltà, diviene una sorta di bene immateriale, in senso ampio, intrinsecamente destinato alla fruizione pubblica. Una ripresa del tema – sempre più centrale e strategico – della tutela del patrimonio dei beni collettivi – contro un modello puramente individualistico del loro sfruttamento – è segnata dal voto referendario del 12 e 13 giugno 2011, che ha raggiunto un quorum 54,81% degli elettori, che hanno votato (in modo quasi totalitario) a favore dell’idea fondamentale – di grande significato politico e sociale – dell’acqua come bene pubblico insuscettibile di appropriazione privata.

11.  Nella schema classico dei diritti condizionati o fievoli, in attesa di espansione, previa emanazione dell’atto permissivo (A.M. Sandulli, Manuale di diritto amministrativo, XIV ed., Napoli, 1984, 605 ss.; P. Virga, Il provvedimento amministrativo, IV ed., Milano, 1972, 44 ss.).

12.  Corte cost. 29 maggio 1968, n. 56, in Giur. Cost., 1969, 356, nonché Id., 28 luglio 1995, n. 417, ivi, 1995, II, 1735 e 11 luglio 2000, n. 262, ivi, 2000, II, 1931. Il punto è pacifico nella giurisprudenza amministrativa (Cons. Stato, sez. VI, 10 marzo 2009, n. 1391). Per la dottrina, è sufficiente il richiamo a A.M. Sandulli, Natura ed effetti dell’imposizione dei vincoli paesistici, cit.

13.  Cfr., su questo punto, per tutti, C. Marzuoli, Potere amministrativo e valutazioni tecniche, Milano, 1985; D. De Pretis, Valutazione amministrativa e discrezionalità tecnica, Padova, 1995; da ultimo, per un’ampia sintesi, G. C. Spatini, Le decisioni tecniche dell’amministrazione e il sindacato giurisdizionale, in Dir. proc. amm., 1/2011, 133 ss.

14.  Sulla corretta distinzione tra tutela del paesaggio (ambiente-cultura), tutela dell’ambiente-ecologia e urbanistica-edilizia (governo del territorio), sia consentito il rinvio a P. Carpentieri La nozione giuridica di paesaggio, in Riv. trim. dir. pubbl., 2004, 405 ss., che riprende e sviluppa l’impostazione di M.S. Giannini, <<Ambiente>>: saggio sui diversi suoi aspetti giuridici, in Riv. trim. dir. pubbl., 1973, 15 ss.

15.  Il tema è svolto più ampiamente in P. Carpentieri, Semplificazione e tutela del paesaggio, in Riv. giur. urb., 2009, 156 ss.

16.  G. Tremonti, Rischi fatali, Milano, 2005, 35 ss.

17.  Direttiva 2006/123/CE del 12 dicembre 2006 relativa ai servizi nel mercato interno (su cui cfr. G. Fonderico, Il manuale della Commissione per l’attuazione della direttiva servizi, in Giorn. dir. amm., n. 8/2008, 921 ss.), il cui impatto semplificatorio non va però enfatizzato, fino al punto di ipotizzare un prossimo “tramonto” delle autorizzazioni preventive discrezionali allo start up d’impresa, posto che questa direttiva “non si applica ai requisiti come . . . le norme riguardanti lo sviluppo e l’uso delle terre, la pianificazione urbana e rurale, le regolamentazioni edilizie” (9° considerando), essendo riferita soprattutto ai requisiti autorizzativi l’esercizio dell’attività, pur riguardando anche la libertà di stabilimento, oltre che quella di circolazione e prestazione dei servizi, e posto altresì che essa direttiva espressamente ammette deroghe alle semplificazioni per “motivi imperativi di interesse generale”, tra cui l’art. 4, n. 8) annovera “la conservazione del patrimonio nazionale storico e artistico” e la “tutela dell’ambiente, incluso l’ambiente urbano” [e al riguardo il 63° considerando e l’art. 9, par. 1, lettera c) chiariscono che tali deroghe possono consentire anche il divieto di autorizzazioni in sanatoria “in quanto un controllo a posteriori interverrebbe troppo tardi per avere reale efficacia”].

18.  L’assioma (indiscutibile) della crescita costituisce una vera e propria ossessione sociale (sul tema, da ultimo, cfr. Zygmut Bauman, La fine del progresso, lezione magistrale tenuta al festival filosofia di Sassuolo del 17 settembre 2011. L’A. teorizza la necessità di una eco-scienza e di una tecnica sostenibile).

19.  Valga per tutti l’esempio, evidente, del “pasticcio” della tutela del terzo a fronte di attività avviate in base a d.i.a – s.c.i.a. (cfr. Cons. Stato, ad. plen., n. 15 del 2011, che aveva inventato l’impugnativa del “silenzio-diniego” di controllo successivo, contraddetta però dal decreto legge n. 138 del 2011, art. 6, comma 1, che ha previsto, invece, per tali casi, l’azione avverso il silenzio-inadempimento della p.a.). Il tema della s.c.i.a. dopo la plenaria n. 15 del 2011 e l’art. 6 del d.l. n. 138 del 2011, è di recente trattato da R. Ferrara, La segnalazione certificata di inizio attività e la tutela del terzo: il punto di vista del giudice amministrativo, nota a Cons. Stato, ad. plen., 19 luglio 2011, n. 15, in Dir. proc. amm., 1/2012, 171 ss., nonché da L. Bertonazzi, Natura giuridica della S.c.i.a. e tecnica di tutela del terzo nella sentenza dell’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato n. 15/2011 e nell’art. 19, comma 6-ter, della legge n. 241/90, ivi, 215 ss., e M. Ramajoli, La s.c.i.a. e la tutela del terzo, ivi, 329 ss. Ravvisa spazi applicativi per formule atipiche di accertamento/condanna idonee a dare tutela effettiva al terzo Elisa Scotti, Tra tipicità e atipicità delle azioni nel processo amministrativo (a proposito di ad. plen. 15/11), cit., 781, 782, nonché 799 ss.

20.  Nonostante i performativi giuridici (J. R. Searle, Creare il mondo sociale, radi t. di G. Feis, Milano, 2010; J.L. Austin, How to Do Things with Words, 1962, G. Carcaterra, La forza costituiva delle norme, Roma, 1979). Cui deve rispondersi – con M. Ferraris, Manifesto del nuovo realismo, Roma-Bari 2012, e ribaltando il noto paradosso di Nietzche e di Lyotard – che esistono fatti e non solo interpretazioni.