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Considerazioni minime in tema di semplificazione

di - 21 Settembre 2012
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5. Proceduralismo e semplificazione.
L’idea di base della semplificazione è quella del diritto come pura forma, come procedura neutra. Un’idea impossibile per la tutela del patrimonio culturale, che si fonda, invece, su un impegno sostantivo sui valori e si pone in contraddizione naturale e insanabile con il puro formalismo giuridico.
Dietro le posizioni della linea “proceduralista” si intravede l’idea per cui la tutela deve risolversi e ridursi tutt’al più in qualche suggerimento per mitigare l’impatto dell’intervento realizzativo, che assurge al rango di bene in sé, di valore assoluto, in quanto espressione del “fare”, fattore, dunque, di crescita del PIL. Su queste basi la semplificazione amministrativa diviene l’occasione – o lo strumento – per una vera e propria “tassidermia” della funzione pubblica (svuotata dei suoi contenuti di effettiva regolazione provvedimentale dei fatti e ridotta a pura forma fine a se stessa)[15].
Sarebbe peraltro molto utile e attuale una riconsiderazione critica dei luoghi comuni su cui poggia la logica del doing business, o una certa visione “mercatista”[16], anche di origine comunitaria (il programma della Commissione europea di riduzione, entro il 2012, del 25% degli oneri amministrativi, la direttiva cd. “Bolkenstein”[17], etc.), tutta spostata sull’asse sviluppo-competitività-crescita[18].

6. L’errore logico insito nell’idea di liberalizzazione non dell’attività, ma del solo inizio dell’attività.
Il modello della semplificazione “in ingresso” non funziona. Non funziona perché reca in sé un buco logico evidente: liberalizza l’avvio dell’attività, ma non l’attività. Se un determinata attività è ritenuta dal legislatore meritevole di cura e trattamento pubblicistici – perché, evidentemente, implicante beni-interessi-valori giudicati di interesse generale, non adeguatamente garantiti e protetti dal mercato e dal diritto privato – essa, per definizione, se esiste ancora un principio di non contraddizione, non può essere liberalizzata. Liberalizzarla “a metà”, ossia solo per la fase iniziale di avvio, è una presa in giro, un non senso, che crea solo pasticci, incertezza e contenziosi[19]. Spesso ci si domanda come mai il cittadino preferisca, in certi casi, attendere il “pezzo di carta”, ossia il provvedimento formale di autorizzazione. La risposta è ovvia. Se l’attività non è “libera”, ma condizionata al rispetto degli interessi generali che con essa possono venire in conflitto, ed è per questo sottoposta dalla legge a un regime di controllo pubblicistico, nessuna garanzia potrà avere il cittadino che la inizia sulla base di una mera autocertificazione che, un domani, quella attività non gli sarà inibita e vietata dall’autorità, quando dovesse emergere la sua non conformità alla legge e la sua potenziale lesività di quegli interessi di terzi e generali che ne giustificano e impongono la sottoposizione a controlli pubblicistici.
Per capirsi: se la realizzazione di un edificio a uso residenziale abitativo – secondo una scelta politica del Parlamento, in base alla legge – non è soltanto un libero esercizio di un diritto di proprietà privata, ma include (o interferisce con) interessi generali (di corretto assetto urbanistico ed edilizio del territorio, di tutela del paesaggio e dei beni culturali, di igienicità e salubrità delle abitazioni, di efficienza energetica, di sicurezza antisismica e idrogeologica, di prevenzione degli incendi), allora questi interessi generali (pubblici, se e nella misura in cui la cura di essi è intestata alla competenza funzionale di un’amministrazione) esigono di essere rispettati sempre e comunque, perché non è sensato pensare che la tutela di un’area archeologica possa cessare dopo un mese o un anno o tre anni dall’ultimazione di una costruzione, che l’igienicità o l’antisismicità di un locale si acquisti con il tempo o con l’uso – sembra che i terremoti non capiscano e non rispettino la s.ci.a. o la d.i.a. -, il rischio idrogeologico non viene meno dopo due mesi dall’avvio della costruzione o dalla sua ultimazione, etc.). Da questa persistenza nel tempo dell’interesse generale e della sua necessità di garanzia e cura nasce la così detta continuità e indefettibilità – e la conseguente imprescrittibilità – dei poteri pubblicistici a tali garanzia e cura preordinati. Consegue da queste semplici constatazioni che è iscritto nella dura realtà delle cose il fatto che la semplificazione e la liberalizzazione dell’avvio delle attività non potrà mai dare certezza nei diritti acquisiti e lascerà sempre esposti ai provvedimenti repressivi e ripristinatori dell’amministrazione. E’ dunque inevitabile e non può destare meraviglia il fatto che, pur dopo elasso il termine breve di inibizione amministrativa dell’attività oggetto di denuncia o di segnalazione certificata, l’amministrazione debba inevitabilmente conservare i suoi poteri – poco importa come li si vogliano configurare, di autotutela o di ripristino della legalità – diretti a far rispettare la legge per garantire la cura indefettibile e continua dei beni-interessi-valori generali che siano pregiudicati dall’attività (liberamente) iniziata (ma non libera nel modo del suo svolgimento ed esercizio). Questo discorso vale, naturalmente, anche per l’esercizio di attività commerciali e professionali e non solo per l’inizio di attività di trasformazione del territorio: se il Parlamento, con scelta politica, ritiene che sia interesse generale garantire una determinata soglia minima di professionalità per svolgere determinate attività professionali o commerciali, o che debbano essere assicurate determinate condizioni materiali, di mezzi e di attrezzature, per il loro esercizio, la mancanza di questi requisiti soggettivi e presupposti oggettivi non potrà mai essere “sanata” o acquisita con il tempo, per il solo fatto che è inutilmente decorso un termine predeterminato per l’intervento repressivo o correttivo dell’amministrazione.
Viene in rilievo, d’altra parte, e anche questo è un aspetto di solito trascurato, un problema di parità di trattamento: ritenere e consentire che l’inizio di un’attività, ancorché contra legem, si “sani” e si consolidi in un legittimo diritto, decorso un certo tempo, sol perché chi la esercita l’ha fatta franca, ossia ha evitato in qualche modo il controllo successivo dell’amministrazione, avvantaggiandosi dell’inerzia degli organi preposti, significa consentire che l’assetto degli interessi generali sia governato dal caso e dalla fortuna (e, forse, comunque e sempre, dalla corruzione che, cacciata dalla porta – con l’abolizione delle autorizzazioni preventive – rientrerebbe, ancor più facilitata, anch’essa, per certi versi, “semplificata”, dalla finestra, nella nuova-antica forma del “chiudere un occhio”, del fingere di non vedere, dell’omettere il controllo successivo). In questo modo la parità di trattamento e il mito dell’esser tutti uguali di fronte alla legge saranno definitivamente infranti e superati. Avremo edifici, capannoni, attività commerciali e quant’altro leciti e legittimi ed edifici, capannoni, attività commerciali e quant’altro sedicenti leciti e legittimi per silentium, ma sostanzialmente contrari alla legge e agli interessi generali.
Né vale obiettare in senso contrario che esistono istituti amministrativi che pongono espressamente limiti temporali all’esercizio del potere di revisione o riesame o di repressione di un abuso (dalla prescrizione dei reati al limite di ragionevolezza del tempo di esercizio della revoca e dell’autoannullamento, fino alle leggi condonistiche). Si tratta, nell’un caso, di sanzioni penali afflittive (e non solo e non sempre ripristinatorie), nell’altro caso di ipotesi nelle quali, comunque, vi è stato un controllo autorizzativo preventivo positivo (nel caso della revoca, infatti, o dell’annullamento d’ufficio, vi è alla base, pur sempre, un provvedimento che ha ritenuto quell’attività, sia pure erroneamente, conforme a diritto); nel terzo caso (i condoni) si tratta di un’eccezione che dovrebbe confermare la regola. In ogni caso, delle due, l’una: o c’è rilevanza pubblicistica dell’attività, e allora non potrà non esserci un correlativo potere-dovere funzionale di ripristino della legalità, sia pure da esercitarsi con le garanzie e nei limiti propri dell’ordinamento generale della funzione; o l’attività è del tutto priva di interesse generale e di rilievo pubblicistico, e allora di essa non dovrà in alcun modo interessarsi la funzione pubblica (se non al livello penale e di prevenzione generale/speciale degli abusi): tertium non datur; ogni commistione e confusione tra queste due aree genera solo conflitti e incertezze; tale è il caso della d.i.a., s.c.i.a., silenzio-assenso.
Il punto è che con la finzione giuridica non si può (per fortuna) cambiare il mondo[20].
Qual è, dunque, la conclusione? La risposta è semplice: occorre che il legislatore faccia scelte chiare e coraggiose, bene distinguendo – nel coacervo dei beni, degli interessi e dei valori implicati dai conflitti intersoggettivi – ciò che richiede l’intervento e il controllo pubblico da ciò che non richiede questo impegno della funzione amministrativa e ben può essere lasciato – integralmente, dall’inizio alla fine – al mercato e alle libertà dei privati.
Servono, dunque, liberalizzazioni “vere”, fatte dalla restituzione di intere aree di attività alla libertà dei privati, con esclusione di ogni ingerenza pubblicistica (che non sia quella giurisdizionale contenziosa o di repressione penale). Le liberalizzazioni “finte” fanno solo confusione e peggiorano le cose, con danni per tutti, per i privati “richiedenti”, che, in realtà, finiscono per complicarsi la vita, per i terzi lesi dall’attività (in realtà illecita) del richiedente, così come per tutti gli altri, ossia per l’interesse generale-pubblico che, se davvero è interferito dall’attività “semplificata”, rischia di rimanerne pregiudicato.

*Il testo costituisce una rielaborazione aggiornata del contributo dal titolo La riforma dell’art. 41 della Costituzione e la tutela del patrimonio culturale pubblicato sulla rivista di diritto pubblico on line GiustAmm.it, al sito http://www.giustamm.it/, 26 ottobre 2011.

Note

15.  Il tema è svolto più ampiamente in P. Carpentieri, Semplificazione e tutela del paesaggio, in Riv. giur. urb., 2009, 156 ss.

16.  G. Tremonti, Rischi fatali, Milano, 2005, 35 ss.

17.  Direttiva 2006/123/CE del 12 dicembre 2006 relativa ai servizi nel mercato interno (su cui cfr. G. Fonderico, Il manuale della Commissione per l’attuazione della direttiva servizi, in Giorn. dir. amm., n. 8/2008, 921 ss.), il cui impatto semplificatorio non va però enfatizzato, fino al punto di ipotizzare un prossimo “tramonto” delle autorizzazioni preventive discrezionali allo start up d’impresa, posto che questa direttiva “non si applica ai requisiti come . . . le norme riguardanti lo sviluppo e l’uso delle terre, la pianificazione urbana e rurale, le regolamentazioni edilizie” (9° considerando), essendo riferita soprattutto ai requisiti autorizzativi l’esercizio dell’attività, pur riguardando anche la libertà di stabilimento, oltre che quella di circolazione e prestazione dei servizi, e posto altresì che essa direttiva espressamente ammette deroghe alle semplificazioni per “motivi imperativi di interesse generale”, tra cui l’art. 4, n. 8) annovera “la conservazione del patrimonio nazionale storico e artistico” e la “tutela dell’ambiente, incluso l’ambiente urbano” [e al riguardo il 63° considerando e l’art. 9, par. 1, lettera c) chiariscono che tali deroghe possono consentire anche il divieto di autorizzazioni in sanatoria “in quanto un controllo a posteriori interverrebbe troppo tardi per avere reale efficacia”].

18.  L’assioma (indiscutibile) della crescita costituisce una vera e propria ossessione sociale (sul tema, da ultimo, cfr. Zygmut Bauman, La fine del progresso, lezione magistrale tenuta al festival filosofia di Sassuolo del 17 settembre 2011. L’A. teorizza la necessità di una eco-scienza e di una tecnica sostenibile).

19.  Valga per tutti l’esempio, evidente, del “pasticcio” della tutela del terzo a fronte di attività avviate in base a d.i.a – s.c.i.a. (cfr. Cons. Stato, ad. plen., n. 15 del 2011, che aveva inventato l’impugnativa del “silenzio-diniego” di controllo successivo, contraddetta però dal decreto legge n. 138 del 2011, art. 6, comma 1, che ha previsto, invece, per tali casi, l’azione avverso il silenzio-inadempimento della p.a.). Il tema della s.c.i.a. dopo la plenaria n. 15 del 2011 e l’art. 6 del d.l. n. 138 del 2011, è di recente trattato da R. Ferrara, La segnalazione certificata di inizio attività e la tutela del terzo: il punto di vista del giudice amministrativo, nota a Cons. Stato, ad. plen., 19 luglio 2011, n. 15, in Dir. proc. amm., 1/2012, 171 ss., nonché da L. Bertonazzi, Natura giuridica della S.c.i.a. e tecnica di tutela del terzo nella sentenza dell’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato n. 15/2011 e nell’art. 19, comma 6-ter, della legge n. 241/90, ivi, 215 ss., e M. Ramajoli, La s.c.i.a. e la tutela del terzo, ivi, 329 ss. Ravvisa spazi applicativi per formule atipiche di accertamento/condanna idonee a dare tutela effettiva al terzo Elisa Scotti, Tra tipicità e atipicità delle azioni nel processo amministrativo (a proposito di ad. plen. 15/11), cit., 781, 782, nonché 799 ss.

20.  Nonostante i performativi giuridici (J. R. Searle, Creare il mondo sociale, radi t. di G. Feis, Milano, 2010; J.L. Austin, How to Do Things with Words, 1962, G. Carcaterra, La forza costituiva delle norme, Roma, 1979). Cui deve rispondersi – con M. Ferraris, Manifesto del nuovo realismo, Roma-Bari 2012, e ribaltando il noto paradosso di Nietzche e di Lyotard – che esistono fatti e non solo interpretazioni.

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