Riforme costituzionali e principi in tema di sfera pubblica e di interessi privati

1. – La revisione costituzionale e il radicamento culturale delle costituzioni nei valori condivisi. 2. – Considerazioni sulla collocazione delle norme sulla c.d. “costituzione economica” nell’insieme del quadro costituzionale 3. – Il percorso che ha portato nella direzione di una progressiva visione sempre più tecnica e specialistica del diritto costituzionale italiano. 4. – I rischi connessi a un uso scorretto della revisione costituzionale e le vie per riaffermare un’idea di costituzione viva e vitale.

1 – La revisione costituzionale e il radicamento culturale delle costituzioni nei valori condivisi. Le radici del diritto costituzionale affondano nella storia sociale e nella filosofia e non possono identificarsi con le enunciazioni testuali delle singole costituzioni scritte, per quanto i redattori di tali testi possano essere stati abili nel riuscire a esprimere le ragioni che giustificano le formulazioni di principio. Nei testi costituzionali, come è stato detto più volte, trovano testimonianza orientamenti valutativi in tema di principi costitutivi dell’ordine giuridico e sociale, che sono destinati a vivere, nelle collettività nazionali, attraverso tempi diversi, superando difficoltà, ostacoli e perfino momenti di crisi. I valori costituzionali rispecchiano sentimenti, ideologie, aspettative, credenze, che caratterizzano i diversi percorsi storici, giuridici e umani di ciascun Paese, per cui chi studia il significato che assumono le enunciazioni dei testi costituzionali nel corso del tempo, non può prescindere dall’esame della storia sociale, dalla cultura politica, e neppure dalle opinioni più significative manifestate nel periodo considerato. Essi vivono anche nell’opinione pubblica, nella letteratura, nell’arte, nel pensiero filosofico del tempo e perfino nella dogmatica elaborata dalla scienza giuridica, oltre che nella prassi e nella giurisprudenza, senza mai tuttavia identificarsi totalmente con nessuna di queste diverse espressioni dell’esperienza giuridica. Non si può dimenticare infatti che i valori costitutivi rispecchiano esigenze e sentimenti che vivono a un livello più profondo perfino di quanto non sia percepito dagli stessi grandi protagonisti della vita delle istituzioni o dai tecnici della finanza mondiale, anche se tutti costoro sono innegabilmente in possesso di strumenti conoscitivi particolarmente raffinati ed efficaci. Essi hanno radici, come si diceva all’inizio, nella storia nazionale e nel pensiero e nella cultura di tutto un popolo, più che nella specializzazione e nell’impegno professionale di alcuni singoli attori della vita politica e istituzionale e in questo senso si può ben dire di ogni costituzione che si tratta del frutto di un opera collettiva (Cfr. Betti, Giuliani, Capograssi, Häberle).
Tali constatazioni possono indurre a dubitare che un governo o una maggioranza parlamentare più o meno eterogenea siano in grado di proclamare la morte presunta di valori riconosciuti da tutti come base della convivenza, senza aver almeno approfondito sufficientemente le ragioni dell’affievolirsi di tali valori o del loro essere del tutto venuti meno. Analogamente, non sembrano accettabili i tentativi di porre l’opinione pubblica di fronte al fatto compiuto, realizzando con la tecnica dei piccoli ritocchi a un più ampio testo costituito da singole parti di disposizioni costituzionali oggetto di revisione, una nuova formulazione dei valori supremi della Repubblica. Il problema non è un problema che possa essere definito una volta per tutte, stabilendo una misura definitiva, superata la quale la revisione costituzionale si trasformerebbe in esercizio di potere costituente, per il quale si richiederebbero, in ipotesi astratta, altre condizioni storiche e culturali rispetto alla semplice nuova formulazione di una parte del testo. D’altra parte, non si può escludere l’abuso di uno strumento procedurale per perseguire un risultato eversivo dell’intero ordine costituzionale, fino a rompere la continuità con l’ordine costituzionale esistente, come avverrebbe se la procedura di revisione fosse utilizzata per modificare tutto l’insieme dei valori costituzionali attraverso interventi su singole disposizioni. Per rispondere a quesiti giuridici di tal fatta occorrerebbe a mio avviso cambiare strada e tornare verso uno studio più approfondito della storia, della filosofia e della cultura costituzionale, come facevano gli scrittori di diritto costituzionale dell’epoca liberale, quelli che procedevano soprattutto ad interpretare le diverse esperienze giuridiche risalendo ai principi propri di ciascuna di esse. Chi si occupa oggi di diritto costituzionale dovrebbe in particolare tenere conto della crisi dei concetti giuridici tradizionali e tenere presente la delicatezza delle valutazioni che si impongono al costituzionalista, in un momento in cui è in discussione la stessa idea di rappresentanza politica e in cui gli Stati sono chiamati a mantenere i principi essenziali di ciascun ordinamento giuridico, evitando di prendere posizioni di parte e cercando di non perdere di vista quanto è veramente sentito come essenziale per il mantenimento delle rispettive identità sociali, culturali e politiche.
I testi delle costituzioni si scrivono e si modificano attraverso particolari procedure, nell’auspicio di garantire una certa stabilità ad alcuni valori fondamentali, suscettibili anch’essi di trasformazione, mantenendo tuttavia il rispetto della legalità costituzionale, senza esasperare la dipendenza dello sviluppo del diritto costituzionale dalla scrittura dei testi e dalla modifica di essi, cercando di non perdere di vista il fatto che il diritto costituzionale deve la sua vitalità alla condivisione dei valori costituzionali da parte della collettività. Sia la scrittura delle costituzioni che la previsione di un procedimento di revisione di esse assumono in questo quadro una particolare valenza, soprattutto pedagogica e ermeneutica, e svolgono nei fatti anche una funzione di garanzia del mantenimento della continuità dell’ordine costituzionale.

Prima di porre il problema se sia sufficiente e ammissibile il ricorso alla procedura di revisione costituzionale o non convenga piuttosto fare addirittura appello al popolo, per l’elezione di una nuova assemblea costituente, occorre esaminare i contenuti delle riforme proposte, non per rapportarle a degli schemi di procedimento tirati fuori dagli archivi, ma per valutare la loro reale capacità innovativa e il grado di contraddizione in cui essi si trovino con la logica dei valori che danno un senso all’intero testo della Costituzione vigente. Il problema non è solo di procedura, ma di diritto costituzionale sostanziale, perché non si tratta di affermare che le leggi di revisione costituzionale debbano necessariamente avere un unico oggetto e fare riferimento a un solo articolo della Costituzione, ma di riaprire il discorso sui valori costitutivi dell’ordinamento, sui limiti della garanzia risultante dalla loro scrittura e dalla revisione del testo, per individuare quelli che obbiettivamente possono essere considerati i valori irrinunciabili, condivisi da larghissima parte dell’opinione pubblica. Occorre che il diritto costituzionale si riappropri di quel suo patrimonio culturale, storico, teorico che aveva caratterizzato in Italia il pensiero costituzionale dei secoli passati, mettendo da parte ogni retorica celebrativa e cercando di approfondire piuttosto le ragioni della crisi dei valori costituzionali e del deficit di cultura politica e giuridica che sembra animare gli attuali progetti di riforma dei principi costitutivi dell’ordinamento italiano.
La distinzione tra potere costituente e potestà di revisione costituzionale non rappresenta un valore assoluto, una categoria trascendentale, ma rispecchia difficili equilibri storici che hanno condotto in epoche diverse tra loro a individuare dei limiti alla revisione costituzionale, tenendo presenti le esperienze precedenti la II° guerra mondiale, ma anche considerando che i limiti della revisione costituzionale non possono essere gli stessi in ogni ordinamento giuridico. Ciò non toglie che i costituenti, al momento della scrittura dei testi costituzionali, così come i legislatori che procedono alla revisione della costituzione, debbono dar ragione del perché abbiano proposto una nuova formulazione dei principi costituzionali., soprattutto quando si tratti di modifiche così radicali come quelle che dovrebbero investire le disposizioni in tema di economia o di organizzazione dei poteri statali.
Il diritto costituzionale non è una scienza che possa avvalersi di grossolane semplificazioni, di ripetitive enunciazioni imperative, copiate dalla prima costituzione a portata di sguardo, ma ha bisogno di un humus sul quale attecchire, per cui è fondamentale che lo studio di tale disciplina riesca a tornare ad interrogarsi, col massimo rigore possibile sui problemi di struttura costituzionale che riguardano i contenuti essenziali dell’ordine giuridico. E’ importante che i giuristi, così come tutti i cittadini, siano abituati a riflettere sul fondamento dei principi costituzionali del proprio Paese, proprio in quei momenti della storia nazionale in cui si cerchi, sotto l’apparenza di apportare semplici ritocchi alla macchina della costituzione vigente, come suggerirebbe l’immagine della revisione, di introdurre a ben vedere nel testo di essa mutamenti talmente radicali da far dubitare che non si tratti piuttosto della sostituzione della parte centrale della macchina costituzionale.
Se si parla della Costituzione italiana, é bene rifarsi alla lettera degli art. 138 e 139 Cost., nonché agli art. 71 e 72 Cost., per osservare che nel nostro ordinamento è previsto il rispetto dell’iter legislativo anche per la revisione costituzionale, con l’aggiunta di maggioranze qualificate, oltre che di una doppia approvazione, a intervalli di tempo fissi tra la prima e la seconda, e infine che si possa eventualmente ricorrere a una pronuncia popolare, successiva all’approvazione parlamentare della legge di revisione, qualora non sia stato raggiunto il voto favorevole dei due terzi dei membri di ciascuna camera. Si può anche ricordare che, in molti ordinamenti costituzionali, è previsto addirittura lo scioglimento delle assemblee che abbiano approvato in prima deliberazione delle proposte di revisione costituzionale, in modo da consentire più adeguati tempi di riflessione e indirettamente una pronuncia del popolo. Le disposizioni costituzionali in tema di procedimento di revisione tendono inoltre a evitare che le riforme del testo costituzionale siano portate a compimento nel silenzio generale, come è avvenuto recentemente in occasione dell’approvazione della legge costituzionale che ha introdotto l’obbligo del pareggio del bilancio statale, perché tutti o quasi tutti i partiti politici si erano messi preventivamente d’accordo con il governo per realizzare tale modifica della costituzione nel modo più rapido possibile e quasi al riparo dall’attenzione dell’opinione pubblica.
Va comunque ancora una volta ribadito che una riflessione sull’istituto della revisione, dal punto di vista del diritto costituzionale, non può limitarsi a considerare i suoi aspetti solo formali e procedimentali e neppure solo i profili dogmatici, che vanno anch’essi necessariamente storicizzati, ma deve riuscire a collegare l’esame di entrambi gli aspetti con quelli storici e valutativi, che riguardano la sostanza dei valori repubblicani che potrebbero rischiare di essere messi in discussione dalle riforme. Il problema, da questo punto di vista, è di assicurare il rispetto sostanziale dei contenuti giuridici, storici e politici della Costituzione, facendo salvo lo spirito di essa e mantenendo in vita un assetto complesso di poteri pubblici funzionali all’esigenza di assicurare lo sviluppo della democrazia.
Le disposizioni costituzionali non hanno tutte lo stesso tipo di contenuto né lo stesso radicamento sociale e il giurista, in particolare, non può considerare i testi costituzionali esclusivamente secondo criteri formali, ispirandosi alla propria assoluta neutralità rispetto ai valori politici. L’esperienza storica dimostra come, anche nelle migliori costituzioni, non siano mancate disposizioni che restavano lettera morta, accanto ad altre che assumevano un’importanza fondamentale nella dinamica dei valori costituzionali e che per realizzare adeguate riforme costituzionali si richiede un impegno di tutta la collettività, una presa di coscienza dei contenuti della nuova cultura costituzionale che si vorrebbe promuovere; del tutto inadeguato appare perciò il ricorso a procedure di rapida approvazione, dirette a tenere, per quanto possibile, l’opinione pubblica all’oscuro degli effettivi contenuti delle riforme. I tempi previsti dalle singole costituzioni per la loro revisione, dovrebbero lasciare alle assemblee parlamentari tutto il modo di riflettere e di discutere sui mutamenti del testo costituzionale, anche al fine di non far perdere alle previsioni costituzionali quella funzione di testimonianza dei valori realmente condivisi dalla collettività. Il diritto costituzionale non è una scienza di tipo manualistico o catechistico e il problema di individuare dei limiti alla potestà di revisione costituzionale deve avere un solido fondamento storico, così come soprattutto storiche e politiche sono le ragioni che si sono fatte valere dai giuristi di molti Paesi europei per evitare autentiche rotture dell’ordine costituzionale presentate nei panni di leggi costituzionali o di revisione costituzionale, da approvare secondo le procedure previste.

La funzione di garanzia della previsione della procedura di revisione costituzionale non avrebbe neppure bisogno di essere sottolineata nel quadro delle enunciazioni della costituzione italiana, perché essa risulta già evidenziata dall’intitolazione della seconda sezione del titolo VI Cost., se non fosse per il deprecabile formalismo di alcuni scrittori che hanno creduto di argomentare dal fatto che, avendo la revisione costituzionale ad oggetto lo stesso testo della Costituzione, non sarebbe “scientificamente” corretto considerarla una garanzia del mantenimento dei principi supremi della costituzione. Si dovrebbe evitare invece che la procedura di revisione si trasformi in uno strumento burocratico, di cui i governi possano avvalersi tutte le volte in cui dispongano di maggioranze pronte a approvare, senza preoccuparsi di approfondire il discorso sulla condivisione dei valori costituzionali da parte della collettività. Occorrerebbe anche evitare l’uso propagandistico della revisione costituzionale, attirando l’attenzione degli elettori verso tematiche evanescenti, ma prive di reale significato innovatore, nelle quali il proponente fa bella mostra di sostantivi o aggettivi apparentemente rivolti a denunciare carenze e mali effettivi della società e delle istituzioni italiane, ma senza indicare veri e propri strumenti e congegni adeguati a intervenire almeno sui più gravi fenomeni di malcostume.
Suscita perplessità anche l’uso che si tende a fare della revisione costituzionale per mutare l’ordine dei valori repubblicani, invocando un adeguamento ai principi del diritto pubblico europeo, un diritto che peraltro è ben lungi dall’essersi consolidato ed aver raggiunto una consistenza sicura, perché la discussione dei principi dell’ordine costituzionale europeo dovrebbe piuttosto costituire l’occasione per aprire un effettivo dibattito sui principi essenziali e irrinunciabili degli ordini costituzionali nazionali e sovranazionali.
In questa sede vorrei accennare soltanto al c.d. “pacchetto” di modifiche della Costituzione italiana in tema si libertà d’iniziativa privata e di ridefinizione dei rapporti tra interesse privato e impegno dei poteri pubblici, perché si tratta, a mio avviso, di un caso esemplare di abuso della potestà di revisione costituzionale, utilizzata al fine di realizzare un intervento diretto a ridefinire tutto l’ambito dei valori costituzionali che investono i compiti delle amministrazioni pubbliche, i principi dell’organizzazione amministrativa e quelli in tema di servizi pubblici, oltre che, più o meno indirettamente, un’ampia serie di altri principi in tema di diritti sociali, sussidiarietà e interpretazione della costituzione. Quel che appare inammissibile è l’uso della revisione per realizzare non una qualunque riforma istituzionale, ma una trasformazione completa dei punti cardinali in tema di rapporti tra sfera pubblica e interessi privati, prevista dalla costituzione e condivisa dall’opinione pubblica[1].
L’idea che i mali della società italiana sarebbero sanabili solo con il ricorso ad alcune grandi riforme costituzionali, realizzate sulla base di una severa disciplina di partito, più che attraverso un approfondimento delle cause della crisi italiana e delle effettive necessità, meriterebbe una discussione più attenta. E’ stato invece diffuso con insistenza dai mezzi di comunicazione di massa il messaggio che, solo attraverso le agognate “riforme istituzionali”, che cambierebbero il volto della Costituzione italiana, potrebbe portarsi avanti quel processo di integrazione europea e di sviluppo economico del Paese nel quale sono riposte molte speranze dell’opinione pubblica. La scrittura di nuove puntuali disposizioni costituzionali di principio, dovrebbero dare espressione ai nuovi valori politici, più aderenti alle dinamiche dell’economia e della finanza e più in linea con i principi costituzionali dell’Unione europea. In effetti, il processo di revisione dovrebbe procedere in senso opposto, e investire i Trattati istitutivi dell’Unione per rendere le enunciazioni di principi costituzionali comuni più aderenti alle effettive tradizioni politiche europee e ai principi costitutivi enunciati dalle singole costituzioni nazionali (Cfr. R. De Liso).
Non si tratta di negare che le costituzioni possano invecchiare e che possa essere anche urgente procedere ad una revisione del testo di esse, quando se ne palesi l’effettiva necessità, ma questo non significa che la revisione costituzionale debba trasformarsi nello strumento per affievolire tutte le esigenze dei soggetti più deboli a tutto vantaggio di un ristretto numero di privilegiati. Non è che si debba rinunciare a ogni riforma costituzionale al livello nazionale, e meno che mai escludere un maggiore impegno dei pubblici poteri nella tutela dei diritti sociali, ma le riforme dovrebbero essere realizzate attraverso una presa di coscienza delle effettive carenze, attraverso un maggiore coinvolgimento dell’opinione pubblica e soprattutto quando i protagonisti delle innovazioni legislative siano in possesso di una cultura adeguata alla complessità dei problemi che intendono affrontare. A testimoniare il grado di incertezza raggiunto dalla scienza della legislazione nel nostro tempo, vale la pena di ricordare un testo normativo, la legge 24 marzo 2012 n. 27 che ha convertito in legge ordinaria un precedente decreto legge intitolato “Disposizioni urgenti per la concorrenza, lo sviluppo delle infrastrutture e la competitività”, che rappresenta un indice del livello giuridico e tecnico degli uffici legislativi del precedente governo[2].

2. – Considerazioni sulla c.d. “costituzione economica” nel quadro dalla costituzione repubblicana. La concezione unitaria di cui sono espressione le singole proposte di revisione costituzionale presentate dal governo Berlusconi – tuttora all’esame del parlamento, insieme ad altre che procedono separatamente e, a quel che sembra, più speditamente – si presentano come ispirate all’idea di ammodernare la “parte economica” della Costituzione italiana, in modo da riconoscere e garantire più efficacemente il ruolo delle imprese private, riducendo nettamente le possibilità di intervento dei pubblici poteri al fine di coordinare e indirizzare gli sviluppi dell’economia e di ridefinire anche nel loro contenuto i poteri e i compiti dello Stato e degli enti pubblici nei confronti delle imprese private. A tale prospettiva di intervento sul testo costituzionale si contrappone quindi idealmente l’orientamento della dottrina che auspica un rafforzamento delle previsioni costituzionali di possibili interventi pubblici nell’ambito dell’economia e della finanza private (Amirante, Azzariti, Ferrara).

Il primo problema che pone tale complesso di interventi del legislatore costituzionale sul testo della Costituzione italiana riguarda l’ammissibilità di un progetto complessivo di ritocchi della Costituzione, tendente a raggiungere, con la tecnica del taglia e incolla, l’obiettivo di riscrivere i principi in tema di rapporti tra privato e pubblico in una prospettiva completamente diversa da quella contenuta nel testo di partenza. Il problema è di contenuti della potestà di revisione della costituzione, che da un lato viene utilizzata per riscrivere uno dei punti centrali e caratterizzanti di ogni ordine costituzionale, quello diretto a fissare la linea di confine tra pubblico e privato, dall’altro viene sottoposta a sollecitazioni, accelerazioni e talora persino contingentamento dei tempi, come se si trattasse di interventi soltanto tecnici sulla formulazione delle disposizioni costituzionali in tema di economia e di imprese. Si tratta invece di un progetto che, stabilendo una nuova gerarchia di valori costituzionali, incide sull’intera struttura della costituzione italiana, che, in linea di principio, legittima vari tipi di intervento pubblico in materia economica. Questo disegno investe lo stesso contenuto essenziale della Costituzione, quel nucleo centrale di valori che storicamente e teoricamente distingue la nostra Costituzione da gran parte delle costituzioni vigenti.
La materia dell’economia non può seguire percorsi nettamente separati dal resto della Costituzione, compresa quella parte che riguarda l’organizzazione politica, perché i principi dell’ordine costituzionale sono gli stessi per tutte le sue parti. La distinzione tra sfera pubblica e attività economica privata rappresenta il presupposto della concezione dello Stato sociale, del principio di solidarietà che regola la convivenza e che è avvertito dalla maggioranza dei cittadini come il perno intorno al quale ruota l’intero equilibrio costituzionale. Nel disegno che è alla base delle diverse proposte presentate dal governo si tratterebbe di testimoniare il trionfo del principio del libero mercato, rispetto a ogni tentativo di intervento dei poteri pubblici, dichiarando espressamente, attraverso la semplice revisione di alcuni articoli della Costituzione, che non é più consentito alcun intervento dei poteri dello Stato o degli enti pubblici al fine di porre dei limiti alle attività imprenditoriali. Si tratterebbe di sancire in forma solenne i limiti della politica rispetto alla libertà delle imprese e del libero mercato, constatando che le costituzioni moderne non sarebbero più in grado di dettare principi in tema di economia, ma solo di aprire le porte ad ogni forma di iniziativa privata da qualsiasi parte provenga. Codificando l’assenza di freni e congegni di intervento da parte dei poteri pubblici nei confronti delle imprese private, si proclamerebbe l’avvento di una nuova cultura del privato, che in realtà è ben lontana dall’aver assunto i contorni istituzionali affermati dalla relazione governativa che accompagna uno dei disegni di legge costituzionale e che insiste nel fare riferimento alla costituzione europea. Quella dell’economia sarebbe una materia talmente complessa e ribelle ad ogni regola giuridica da sconsigliare i poteri dello Stato e ogni ente pubblico dal porre dei limiti politici alle iniziative imprenditoriali. Va sottolineato in proposito che una presa di posizione così accentuatamente liberista è del tutto inadeguata alle esigenze costituzionali e di crescita del Paese, proprio in un momento di estrema incertezza del potere politico, che dovrebbe essere in grado di porre freno alla speculazione privata per arginare la crisi dell’economia europea.
Non sono mancate in passato in Europa costituzioni scritte che hanno affrontato i temi dell’economia, del lavoro e dello sviluppo sociale e che si sono proposte di indicare i principi costitutivi di un nuovo ordine costituzionale, dalle costituzioni ispirate ai principi del socialismo reale o a quelli della socialdemocrazia; merita in particolare di essere ricordata la sfortunata costituzione di Weimar, che pure ha rappresentato per il costituente italiano del 1946-47 un importante modello di riferimento sul modo in cui affrontare i temi dell’economia, del lavoro e dello sviluppo sociale. La costituzione repubblicana del nostro Paese ha enunciato obiettivi economici e stabilito principi di solidarietà sociale, fissando i compiti della Repubblica, che hanno trovato un limitato riscontro nella prassi e nella legislazione e un’eco nella giurisprudenza costituzionale.
E’ appena il caso di osservare in proposito che la scrittura dei testi costituzionali non si improvvisa, e che occorre una reale conoscenza dei problemi sociali, economici e tecnici, per dettare delle disposizioni costituzionali di principio in tema di economia e di lavoro. La cosiddetta “costituzione economica” si inserisce infatti nel quadro dei valori costitutivi dell’ordine giuridico esistente, rappresentando un insieme di orientamenti diretti a tradursi in disposizioni volte ad assicurare nuovi equilibri economici e finanziari, in vista delle esigenze di promovimento sociale e di effettiva eguaglianza tra i cittadini (Cfr. G. Bianco). Affermare espressamente perciò la preferenza per il privato o per un sistema finanziario che si fondi sulla moltiplicazione dei capitali, indipendentemente dalle dinamiche del lavoro e della produzione dei beni, esprime un tentativo di alterare il quadro dei valori costituzionali della Repubblica che contribuirebbe ad alimentare il grave disorientamento attualmente esistente in tema di rapporti tra sfera pubblica e diritti privati. Quello che occorre ribadire è che la Costituzione si fonda sul riconoscimento di valori costituzionali unitari prima di tutto da parte della collettività e sull’esigenza di garantire, attraverso la scrittura, il mantenimento di una cultura etica, giuridica e politica.
Più specifici interrogativi pongono le proposte di inserimento nel contesto delle costituzioni europee del secondo dopoguerra di clausole sull’integrazione sovranazionale e di nuove enunciazioni che tendono a ridurre gli interventi dei poteri pubblici nell’economia. Il processo di integrazione politica e economica europea potrebbe costituire in effetti un’occasione irripetibile per ciascuno Stato membro dell’Unione e per ciascuna collettività nazionale di interrogarsi sui principi supremi del proprio ordinamento, non soltanto per trarne l’affrettata conclusione che le esperienze costituzionali delle singole nazioni europee non possano reggere all’impatto dei nuovi principi costituzionali che animano le istituzioni europee e la giurisprudenza delle Corti europee. E’ anche il caso di pensare che le costituzioni europee possano richiedere in futuro adattamenti e revisioni che le pongano in linea con gli sviluppi del diritto costituzionale europeo; ma la dottrina costituzionale dei singoli Paesi non può esimersi dal denunciare le minacce al principio dello Stato di diritto, del principio democratico e dello Stato sociale: essa è chiamata piuttosto a interrogarsi con maggiore profondità su quanto è davvero venuto meno con riferimento ai massimi principi della tradizione democratica, sociale e liberale europea.

Si tratta anche di vedere se è mutata la tecnica di scrittura delle disposizioni in tema di diritto costituzionale e se sia ancora possibile enunciare principi valutativi in grado di orientare l’interpretazione giuridica negli anni futuri proprio con riferimento al delicato sviluppo dell’economia e della libertà di iniziativa. Quel che è certo e che non sono più proponibili criteri rigorosamente imperativi adottati in altre epoche, quando si riteneva che bastasse prevedere organi di governo dell’economia che avrebbero consentito la progressiva diffusione della nuova etica sociale sotto la guida dei grandi partiti di massa. Questo non significa che nelle costituzioni contemporanee si possa scrivere che il valore nettamente prevalente sugli altri è ormai lo sviluppo delle banche, indipendenti rispetto a ogni potere statale e sovranazionale, e quello di un’illimitata libertà delle imprese private di fronte al potere politico. Si impone piuttosto l’esigenza di testimoniare valori costituzionali comuni, ricorrendo a clausole aperte, a enunciazioni di valore che presuppongono una sensibilità politica e giuridica dell’interprete fondata sull’esigenza di un impegno sociale comune degli Stati europei. L’affermazione che le costituzioni sono entità viventi create dagli uomini e mantenute da una serie di efficienti garanzie significa inoltre che è fondamentale per la loro sopravvivenza l’impegno di tutti i membri dell’ordine giuridico e non solo quello degli organi statali e internazionali.
Un noto giurista tedesco, Peter Häberle, ha ribadito che le enunciazioni contenute nei testi normativi rappresentano formulazioni che non sarebbero comprensibili senza far riferimento ad altri testi, non esclusivamente normativi, che ci aiutino a interpretare il significato dei grandi fenomeni giuridici e storici del nostro tempo, a cominciare dal processo di integrazione europea. Tale constatazione, che vale a smitizzare la concezione esclusivamente normativa del diritto costituzionale, può solo significare che le costituzioni sono espressione della cultura costituzionale e politica di un popolo e che anche la modificabilità dei testi costituzionali non può non incontrare dei limiti impliciti in questa cultura. Il successo avuto da questo Autore nella letteratura giuridica del nostro tempo, non solo nel suo Paese, sta a dimostrare come sia indispensabile oggi avere un’idea del diritto costituzionale più aperta, meno formalistica e meno condizionata dagli orientamenti dei governi, come da parte degli organismi sovranazionali.
Ciò che sembra affascinare i nostri politici, così come gli osservatori stranieri e le organizzazioni sovranazionali, per non parlare degli interessi privati che gestiscono il potere finanziario, è l’idea che la stessa norma costituzionale possa essere concepita come un comando che si imporrebbe a tutti i soggetti, ai privati come agli enti pubblici, agli operatori economici come alle autorità indipendenti, senza che siano rilevanti le loro convinzioni, e persino le idee politiche o le tradizioni nazionali. Il carattere cogente della norma costituzionale imporrebbe a tutti di allinearsi non solo alle decisioni degli organi europei, comprese quelle delle corti, ma agli orientamenti economici e finanziari che assicurano il rispetto dei diritti delle imprese multinazionali e del mercato globale. Contro questa vera e propria minaccia ai principi dello Stato democratico e costituzionale e dello Stato sociale, ai giuristi resta il compito di riaffermare una concezione sana e vitale del diritto costituzionale dei singoli Stati, meno formalistica, più attenta alle effettive esigenze di tutela dei cittadini, aperta ad uno sviluppo economico e sociale adeguato ai tempi e alle esigenze di tutela degli interessi privati e pubblici.
I dubbi maggiori riguardano proprio l’obiettivo contrasto tra la concezione valutativa che ispira le singole enunciazioni delle proposte di revisione costituzionale e quei principi che sono enunciati nella nostra Costituzione e che sembrano tuttora condivisi dalla maggioranza dei cittadini. Probabilmente durante questa legislatura, a prescindere dalla non secondaria riforma della disciplina costituzionale del bilancio dello Stato, non si parlerà più del disegno di legge n. 4144 presentato il 7 marzo 2011 alla Camera dei deputati, che riguarda principalmente la libertà di iniziativa economica privata e i rapporti delle imprese con le amministrazioni pubbliche, anche se assume una portata costituzionale molto più ampia. E’ comunque il caso di accennare ad alcuni dei problemi giuridici posti da quelle proposte di revisione costituzionale che avrebbero eventualmente potuto contribuire all’instaurarsi di una nuova “costituzione economica”, forse quella dell’auspicata “seconda repubblica”, ovvero, come afferma la relazione del Presidente del Consiglio dei Ministri allora in carica, condurre in porto una riforma costituzionale che “intende collocarsi nell’ambito dell’indirizzo culturale e legislativo già tracciato dal diritto dell’Unione europea“.
L’art. 81 della costituzione, nuova versione, sembra diretto ad stabilire che lo Stato, attraverso il bilancio, assicura “l’equilibrio tra le entrate e le spese tenendo conto delle fasi avverse e delle fasi favorevoli del ciclo economico“, senza chiarire peraltro le conseguenza dell’eventuale mancato equilibrio, né gli strumenti di controllo e senza precisare chi possa comminare le relative sanzioni. Il comma 6 del nuovo articolo 81 rinvia oltretutto l’indicazione dei principi secondo cui sarà valutata la legge annua di approvazione del bilancio, che dovrà essere deliberata con la maggioranza assoluta dei componenti di ciascuna camera, ad una futura legge costituzionale. Anche con riferimento a tale innovazione restano da chiarire i rapporti tra i controlli interni di costituzionalità della legge di bilancio ed eventuali vincoli comunitari. L’art. 1 del disegno di legge 4144, che prevede poi la nuova formulazione dell’art. 41, fa riferimento sia all’iniziativa privata che all’insieme dell’attività economica imprenditoriale, con l’aggiunta di una nuova enunciazione, secondo cui quando si tratti di attività privata “è permesso tutto ciò che non è espressamente vietato dalla legge“, espressione quest’ultima che fa sorgere dei dubbi sui limiti della affermata preminenza degli interessi privati in campo economico rispetto ad ogni tipo di interesse pubblico, a cominciare da quelli della sicurezza e della salute pubblica, per non parlare dell’ambiente e del patrimonio culturale.

L’ultimo comma di tale articolo, oltre a eliminare ogni potere di intervento dei pubblici poteri al fine di indirizzare e coordinare l’attività economica pubblica e privata, aggiunge l’eliminazione di ogni controllo preventivo sull’attività imprenditoriale, limitandosi ad affermare che la legge deve ispirarsi ai “principi di fiducia e leale collaborazione tra le pubbliche amministrazioni e i cittadini” che esercitano le attività economiche. L’art. 97 cost., nella nuova formulazione, riguarda in particolare le pubbliche funzioni e afferma in termini generali che tali funzioni sono al servizio dei soli diritti di libertà dei cittadini (la commissione propone di estendere la portata alla tutela di tutti i diritti dei cittadini). Il secondo comma del nuovo art. 97 cost. propone di introdurre l’affermazione che “l’esercizio, anche indiretto delle pubbliche funzioni è regolato in modo che ne siano assicurate l’efficienza, l’efficacia, la semplicità e la trasparenza“, mentre il buon andamento e l’imparzialità già previsti dal testo soggetto a revisione, fanno la loro ricomparsa nel comma successivo. La ricchezza persino eccessiva di espressioni relative alla qualità delle funzioni amministrative esercitate in Italia dai pubblici poteri fanno in effetti dubitare dell’effettivo stato delle cose, in un Paese nel quale la lotta contro le disfunzioni amministrative, la corruzione e gli eccessivi dispendi richiederebbero livelli di impegno sempre più alti in opposizione alla crescita esponenziale di tali fenomeni. L’ultimo articolo del disegno di legge governativo tende a introdurre una previsione diretta, niente di meno, che a “garantire” e “favorire” l’autonoma iniziativa dei cittadini “singoli o associati“, “per lo svolgimento di attività di interesse generale“( art. 3 del disegno di legge n. 4144 del 2012). Se si ha presente la situazione reale della società italiana, caratterizzata dalla presenza di associazioni criminali e di una gestione spesso minacciosa del potere economico, può stupire che la costituzione imponga agli enti territoriali di “garantire” e “favorire” i privati limitando l’intervento pubblico, attraverso un’ambigua invocazione del “principio di sussidiarietà“, in materie scottanti come quella dei servizi pubblici assicurati da imprenditori privati.

3. – Il percorso che ha portato nella direzione di una progressiva visione sempre più tecnica e specialistica del diritto costituzionale italiano. La discussione sui problemi di metodo nello studio del diritto costituzionale in Italia è stata profondamente condizionata dal passaggio dall’ordinamento costituzionale monarchico, liberale e poi fascista a quello democratico e repubblicano, con un mutamento di orizzonti che non poteva non produrre i suoi effetti sul travagliato pensiero dei costituzionalisti. L’entrata in vigore della Costituzione repubblicana ha provocato, in particolare, prese di posizione, a volte molto nette, da parte dei giuristi che si sono interessati dell’interpretazione costituzionale; si è cercato di fugare ogni dubbio sul carattere imperativo e non solo programmatico delle disposizioni costituzionali e di superare tutti gli ostacoli e le remore che si facevano valere contro l’entrata in vigore della Costituzione perfino da parte di alcuni poteri dello Stato. Gran parte della dottrina culturalmente più avanzata reagì a tale stato di cose, insistendo nell’affermazione del carattere rigido e normativo del testo costituzionale, di cui si denunciava la mancata “attuazione”, chiedendosi il ricorso alle necessarie innovazioni legislative, amministrative e giurisprudenziali, per realizzare quel nuovo ordine costituzionale auspicato da gran parte del Paese. Si sottolineava perciò, anche se con un’evidente forzatura, il carattere egualmente vincolante di tutte le enunciazioni costituzionali (si pensi a Crisafulli e all’opera “La costituzione e le sue disposizioni di principio”) e si tentava da parte di molti scrittori di costruire un rigido sistema concettuale, che sottolineasse la connessione sistematica dei diversi principi normativi enunciati dalla Costituzione, con il risultato, non certo auspicato, di un irrigidimento della dogmatica costituzionale. Ciò ha contribuito a diffondere un’idea formale della Costituzione e alla straordinaria diffusione in Italia del pensiero di Kelsen, considerato, forse a torto, come il profeta del rigore scientifico e di un’interpretazione costituzionale che cerca di tenersi il più possibile lontana dalla comprensione dei fenomeni non normativi.
La conclamata intrinseca “normatività” della Costituzione, oltre ad avere avuto molti riconoscimenti da parte della dottrina più sensibile al contenuto innovatore dei nuovi principi costituzionali, ha prodotto anche conseguenze molto rilevanti sui metodi di studio del diritto costituzionale, che, dall’entrata in vigore del testo repubblicano, ha preso le distanze tanto dalle altre discipline giuridiche, quanto dalla vecchia dottrina di stampo monarchico e liberale. La nuova dottrina costituzionalistica, affermando la propria autonomia scientifica specialistica, fece leva soprattutto su una dogmatica argomentativa di nuovo conio, fondata sul richiamo al principio della “gerarchia delle fonti”, oltre che sulla dottrina della imperatività delle norme costituzionali, e costruì le proprie categorie concettuali sui presupposti dell’effettiva entrata in funzione dell’ordine repubblicano, anche nelle sue parti più innovative, e di un rigido sistema di connessioni concettuali. Solo successivamente, quando si diffusero tecniche di interpretazione costituzionale più raffinate, l’impostazione iniziò ad essere riveduta e si evidenziarono percorsi ermeneutici della Costituzione che avrebbero consentito tecniche di bilanciamento tra i valori costituzionali, mettendo in evidenza l’importanza degli spazi di valutazione consentiti dalla Costituzione rigida ai suoi interpreti, prima di tutti al legislatore e poi alla corte costituzionale e alla magistratura. Gli ottimi risultati raggiunti dalla dottrina italiana, specialmente nella costruzione del sistema costituzionale democratico e parlamentare, incoraggiarono un impegno scientifico di gran parte dei giuristi, caratterizzato da una presa di distanza sempre più marcata, e talora persino polemica, nei confronti della dottrina dell’Ottocento e dei primi decenni del Novecento, alle quali si rimproverava l’eccessivo ricorso allo studio della storia e della filosofia del diritto e una certa tendenza verso il rifiuto di una visione veramente imperativa e sistematica del diritto costituzionale. La disciplina che va sotto il nome di diritto costituzionale ha così perduto lentamente le sue radici storiche e teoriche per assumere, almeno prevalentemente, come punti di riferimento schemi argomentativi tratti dalla giurisprudenza, considerata come vera e propria fonte del diritto, quasi allo stesso modo di come si era considerato in passato ogni dato che si presentasse nelle vesti di norma imperativa.

Nel momento in cui l’ermeneutica del diritto costituzionale aveva iniziato a svilupparsi sulla base di una riflessione sistematica sempre più approfondita, il diritto costituzionale italiano è stato scosso da un terremoto che ha imposto di riconsiderare ab imis i presupposti conoscitivi della disciplina e i suoi metodi di studio. Mi riferisco al mutamento del sistema elettorale del nostro Paese, che si reggeva su una corrispondenza della composizione delle assemblee rappresentative alla proporzione dei risultati raggiunti dalle diverse liste elettorali, e parallelamente all’intensificarsi del processo di integrazione europea che ha scosso alcune certezze sistematiche e interpretative. Alcuni specialisti di diritto costituzionale e pubblico in genere hanno persino accreditato l’idea, diffusa dalla stampa e dai mezzi di comunicazione, che si fosse chiusa in Italia un’esperienza costituzionale, e se ne fosse aperta un’altra, quella della “seconda Repubblica”, caratterizzata da una nuova cultura giuridica e costituzionale il cui metodo di lavoro si rivelava sempre più attento soprattutto all’effettività costituzionale, alla revisione dei criteri di distinzione tra pubblico e privato, alla ridefinizione della forma di governo e alla messa in discussione delle tradizionali categorie dello Stato di diritto, della separazione dei poteri, della solidarietà sociale e persino dei beni pubblici. Si è diffuso, nello studio in particolare del diritto costituzionale, un orientamento che faceva sempre più riferimento allo studio della giurisprudenza delle corti nazionali e sovranazionali e che tuttavia continuava il percorso proprio di una scienza specialistica, iniziato nei primi decenni di entrata in vigore della Costituzione, svalutando lo studio della storia costituzionale e del pensiero dei costituzionalisti dell’Ottocento o dei primi decenni del Novecento e riducendo il ricorso allo studio comparativo ad una ricerca tecnico-descrittiva, dalla quale trarre suggerimenti per l’importazione di congegni costituzionali che consentissero di rafforzare il ruolo dell’esecutivo e del Presidente del Consiglio dei ministri. Piuttosto che interrogarsi sulle ragioni storiche dei mutamenti di percorso del pensiero costituzionalistico, é sembrato il caso di insistere sul carattere tecnico assunto ormai da tale disciplina, con l’effetto di allontanare del tutto da esso l’interesse dell’opinione pubblica. Dopo la crisi del sistema partitico, e dopo gli scandali sul finanziamento dei partiti e una parziale riforma delle amministrazioni pubbliche, sarebbe iniziata un’esperienza costituzionale che persegue la “polarizzazione” degli schieramenti politici, grazie a un sistema elettorale maggioritario e che esige la realizzazione di urgenti revisioni costituzionali che, rafforzando il governo e il sistema partitico maggioritario, consentano un limitato sviluppo delle autonomie locali e soprattutto delle dinamiche dell’economia internazionale. In effetti, in Italia, da un punto di vista formale, la costituzione repubblicana non é finora profondamente mutata, anche se emerge sempre più chiaramente un contrasto tra due diverse concezioni dei rapporti tra diritto pubblico e diritto privato, tra sviluppo dell’economia ed esigenze di interventi dei poteri pubblici.
La costituzione repubblicana del 1947 è il risultato di un processo storico che non comincia con l’ingresso dei parlamentari eletti dal popolo nell’Assemblea costituente, ma inizia molto prima passando attraverso le varie contraddizioni della storia dell’Italia unita, le difficoltà incontrate dal Paese, nel difficile cammino verso la ricerca di un’identità culturale, il superamento dell’esperienza autoritaria e corporativa, la ricerca di istituzioni democratiche e di un equilibrato rapporto con gli altri Paesi dell’Europa e del Mediterraneo. La c.d. “seconda Repubblica” non solo non è riuscita a interrompere le prassi di corruzione, clientelismo e relazioni con la criminalità organizzata che hanno caratterizzato la precedente fase di sviluppo istituzionale del Paese, ma ha persino cercato di mettere in dubbio i valori costituzionali repubblicani, quelli fondati sull’esame degli sviluppi del costituzionalismo europeo e sull’abitudine al colloquio con gli studiosi di altri Paesi e di altre discipline, come era nella tradizione ottocentesca e dei primi decenni del Novecento tra i cultori del diritto costituzionale.
Di fronte alla raffica di progetti di revisione costituzionale appoggiati dai governi Berlusconi e Monti, la dottrina costituzionalistica italiana ha cercato di reagire, spostando quasi totalmente il discorso sulla procedura di revisione, sulla necessità di rallentare i tempi dell’approvazione delle leggi di riforma costituzionale, evitando tuttavia quasi del tutto di pretendere posizione nel merito, proponendo soluzioni alternative, approfondendo i temi attuali della democrazia, delle autonomie territoriali, del rafforzamento del sistema delle garanzie. Aver a lungo taciuto su questi grandi temi ha creato imbarazzo tra gli esperti ed è emersa talora la differenza di idee sui valori costituzionali di fondo, tra chi continua a rifarsi a schemi ideologici ormai improponibili e chi vagheggia un ritorno alla democrazia dei partiti che ha purtroppo fornito un’esperienza tutt’altro che rassicurante.

4. – I rischi connessi a un uso scorretto della revisione costituzionale e le vie per riaffermare un’idea di costituzione nazionale viva e vitale. Un altro scrittore tedesco, Hans Meyer, che ha più volte auspicato la convocazione di un’Assemblea costituente in Germania, prevista nell’art. 146 GG (anche dopo la revisione di quest’ultimo), nella convinzione che si potrebbe così offrire al popolo l’occasione di partecipare, sia pure indirettamente, a un dibattito sul proprio futuro costituzionale, sottolinea che la “Legge fondamentale” del 1949 è diventata un testo costituzionale soggetto a continue revisioni. La Legge fondamentale sarebbe stata contagiata, secondo questo scrittore, da una vera e propria malattia, la “revisionite”, un mezzo che consentirebbe ai politici tedeschi di ritoccare continuamente il dettato di singole disposizioni costituzionali, facendo persino ricorso a procedure speciali (come è accaduto in occasione della riunificazione del Paese). Il fenomeno, favorito dalla crescente tendenza verso la specializzazione nello studio del diritto costituzionale, costituirebbe una patologia particolarmente pericolosa, perché tale prassi consente di muovere all’attacco di singole parti di costituzione, ai frammenti di essa, per alterare il senso dei principi della costituzione nel suo insieme.

Un antidoto contro tale epidemia di revisioni, che sono solo apparentemente attente ai frammenti di disposizioni, per perseguire obiettivi politici, che non vengono sempre alla luce del giorno, resta quello di ampliare le proprie fonti di conoscenza del diritto costituzionale, di approfondire la storia, lo studio dei classici del pensiero politico, le trattazioni sistematiche di carattere più generale. In un momento storico di passaggio da un ordine costituzionale statale ad un ordine economico e finanziario sovranazionale, si ha l’impressione, in particolare, che le proposte in tema di costituzione economica aprano la strada a una concezione del diritto costituzionale che riduce quest’ultimo a una disciplina servente rispetto agli interessi del capitale finanziario e delle grandi imprese private sovranazionali. Di fronte al pericolo che i ritocchi alla costituzione italiana minaccino i principi costitutivi dell’ordine repubblicano, occorre insistere, a mio avviso, nell’osservazione che la revisione della costituzione non può essere considerata come lo strumento tecnico migliore per il passaggio da un ordine costituzionale ad un altro, perché a tal fine sarebbe necessaria una nuova assemblea costituente.
Le costituzioni non possono essere considerate come raffazzonati “testi unici”, che possano raccogliere frammenti sparsi di affermazioni di principio del tutto estemporanee, ma rappresentano fondamentali testimonianze nella storia di un popolo. La sola via per riaffermare un’idea di costituzione nazionale sana e vitale nel rispetto del pensiero dei classici del costituzionalismo e delle tradizioni democratiche è quella di moltiplicare le iniziative per la diffusione della cultura costituzionale. E’ fondamentale, nello scrivere o emendare dei testi costituzionali, non uscire dai contesti storici, non sviluppare discorsi solo interni a specifici gruppi d’interesse o a circoli culturali ristretti, ma tenere soprattutto conto dell’esigenza di aprire prospettive realisticamente orientate verso la storia, il diritto e l’economia di ciascuna collettività nazionale, altrimenti il processo di integrazione europea, costruito da tecnici sempre più distanti dai problemi sociali e umani, non potrà che arrestarsi, e avvolgersi in contraddizioni irrisolvibili. Occorre anzitutto restituire alla cultura politica e alla storia e alla filosofia gli spazi che sono loro sempre spettati nella storia costituzionale, in ogni contesto giuridico, politico e economico. Scrivere delle costituzioni e emendare i testi costituzionali esistenti è sempre stata un’attività di grande importanza nella storia del diritto e della politica, ma non deve diventare un delirio di onnipotenza per chiunque abbia raggiunto una qualunque maggioranza in parlamento, perché altrimenti ci si può tornare ad illudere di costruire dall’alto progetti di società ideali senza tener conto degli elementi umani e delle situazioni reali. Sarebbe il caso di investire del danaro nella apertura di locali, musei, circoli culturali, esposizioni, programmi televisivi per illustrare il lungo processo storico che ha portato alla nostra Costituzione, in Italia, così come in altri Paesi; solo in questo modo si può valutare l’attualità e la necessità di realizzare una riforma delle istituzioni, non ascoltando solo le voci dei circoli finanziari o lasciandosi condizionare dalle dichiarazioni dei protagonisti delle manovre finanziarie internazionali. Le costituzioni più longeve sono quelle che lasciano aperti spazi di iniziativa privata e pubblica, secondo criteri che tengano conto delle esigenze sociali e di quelle dello sviluppo economico. Per garantire il mantenimento di una costituzione vale soprattutto l’antico insegnamento aristotelico che fa leva sull’educazione pubblica, sulla cultura del popolo e sull’abitudine a mantenere vivo nella collettività il discorso sui valori costituzionali. Insistere sulla cultura e sull’educazione dei cittadini in un’epoca in cui sembra venuta meno l’abitudine al confronto sui valori tradizionali e sul bisogno di un’innovazione condivisa da tutti, sembra necessario di fronte a mezzi di comunicazione di massa che tendono a incanalare la discussione solo sulla descrizione delle strutture del potere.
La costituzione prevede una serie di garanzie costituzionali che vanno dall’indipendenza della magistratura agli interventi del Capo dello Stato, all’uso della revisione costituzionale come strumento di garanzia dei valori costituzionali; e questo istituto non può essere utilizzato per eliminare la sovranità popolare, la distinzione tra una sfera del pubblico e una del privato, la tutela del lavoro e dei diritti delle minoranze, per fare solo degli esempi. Va anche ricordato che uno dei maggiori costituzionalisti italiani, Costantino Mortati ha riflettuto a lungo sui limiti materiali della revisione costituzionale, distinguendo nettamente la potestà di revisione costituzionale dal potere costituente e insistendo sulla possibilità di individuare un nucleo di valori costituzionali fondanti, non modificabili attraverso una semplice legge di revisione del testo costituzionale, nonostante la non chiarissima formulazione degli art. 138 e 139 Cost. Sembra interessante sottolineare che questo scrittore si muove secondo parametri sistematici aperti a un discorso giuridico che rivolge particolare attenzione alla storia e alla cultura giuridica e sociale del nostro Paese, individuando i principi costitutivi dell’ordine repubblicano nei valori fondanti tale ordine costituzionale. La concezione di Mortati è stata spesso fraintesa, per la pregiudiziale imperativistica e dogmatistica che continua a dominare lo studio del diritto costituzione italiano, che rende difficile concepire scientificamente una distinzione tra un nucleo di valori costituzionali ritenuti immodificabili e la restante parte delle regole della Costituzione.
Purtroppo la dottrina prevalente del diritto costituzionale contemporaneo rifiuta di considerare lo studio della storia come il principale strumento per l’interpretazione delle costituzioni viventi ed è convinta tuttora del fondamento esclusivamente imperativo del diritto costituzionale, persino quando si tratta di approfondire la comprensione degli sviluppi del pensiero giuridico nel suo insieme e dei parametri interpretativi utilizzati per dare un significato attuale ai precetti costituzionali. E’ evidente che per distinguere i valori che fanno parte del “nucleo essenziale” della Costituzione occorre una sensibilità storica e non una razionalità fondata esclusivamente sull’efficacia formale degli atti giuridici, costituzioni e leggi costituzionali comprese. Non si tratta di aprire una controversia sul metodo di studio del diritto costituzionale, quanto di persuadere tutti gli interpreti della Costituzione che non ogni disposizione costituzionale equivale all’altra e che alcune enunciazioni, volte a testimoniare la connessione delle parole usate dal costituente con le stesse radici costitutive dell’ordine repubblicano, non possono essere considerate alla stregua dei supporti tecnico- esegetici sui quali si fondano i metodi interpretativi della Costituzione. Secondo Mortati, dovrebbe essere giuridicamente inammissibile pretendere di mutare dall’alto i valori portanti dell’ordine costituzionale repubblicano, attraverso riforme apparentemente dirette a modificare o integrare parzialmente singole frasi o parole del disposto testuale della Costituzione, ma che colpiscono in realtà i valori fondativi della Repubblica.

Note

1.  Le altre riforme costituzionali, attualmente all’esame del Parlamento, investono soprattutto la parte organizzativa della Costituzione italiana, a proposito di esse, mi limito a segnalare, in questa sede, i rischi connessi alle anomalie procedimentali, alle semplificazioni e alla accelerazione impressa alla procedura di revisione costituzionale.

2.  Vale la pena di ricordare che tale decreto legge prevede, senza altre precisazioni, l’abrogazione di tutte “le norme che prevedono limiti numerici, autorizzazioni, licenze, nulla osta o preventivi attestati di assenso dell’amministrazione comunque denominati” e quella delle “norme che pongono divieti e restrizioni alle attività economiche non adeguati e non proporzionati alle finalità pubbliche perseguite, per l’avvio di un’attività economica e non giustificati da un interesse generale costituzionalmente rilevante e compatibile con l’ordinamento comunitario, nel rispetto del principio di proporzionalità” nonché di quelle “che pongono divieti e restrizioni alle attività economiche non adeguati o non proporzionati alle finalità pubbliche perseguite, nonché le disposizioni di pianificazione e programmazione territoriale o temporale autoritativa con prevalente finalità economica o prevalente contenuto economico, che pongono limiti, programmi e controlli non ragionevoli ovvero non adeguati o non proporzionati rispetto alle finalità pubbliche dichiarate e che in particolare impediscono, condizionano o ritardano l’avvio di nuove attività economiche o l’ingresso di nuovi operatori economici ponendo un trattamento differenziato rispetto agli operatori già presenti sul mercato, operanti in contesti e condizioni analoghi, ovvero impediscono, limitano o condizionano l’offerta di prodotti o servizi al consumatore, nel tempo nello spazio o nelle modalità, ovvero alterano le condizioni di piena concorrenza tra gli operatori economici oppure limitano o condizionano le tutele dei consumatori nei loro confronti“. Di fronte a disposizioni di così ardua e difficile interpretazione è previsto inoltre un intervento del governo nell’esercizio di potere regolamentare per “individuare le attività per le quali permane l’atto preventivo di assenso dell’amministrazione, e disciplinare i requisiti per l’esercizio delle attività economiche, nonché i termini e le modalità per l’esercizio dei poteri di controllo dell’amministrazione, individuando le disposizioni di legge e regolamentari dello Stato che, ai sensi del comma 1 vengono abrogate a decorrere dalla data di entrata in vigore dei regolamenti stessi“; è previsto peraltro un parere dell’Autorità garante della concorrenza che deve intervenire nel termine di trenta giorni, altrimenti “s’intende rilasciato positivamente“. E’ appena il caso di osservare come restino tutt’altro che chiari gli effetti della delegificazione disposta da tale legge e l’interpretazione delle clausole dirette a guidare l’esercizio del potere regolamentare.