Costituzione, tributi e mercato

Indice
1.- Una singolare vicenda culturale.
2.- L’art. 41 Cost. e il contesto europeo.
3.- Politica fiscale e mercato.
4.- Cittadinanza e tributi.

1.- Una singolare vicenda culturale.
Un duplice processo di isolamento, concettuale e dommatico, ha caratterizzato la riflessione giuspubblicistica sulla disciplina costituzionale dell’economia. Il primo ha riguardato la rottura dell’unità della Costituzione, entro la quale è stato autonomizzato un corpus di norme che comporrebbero la specifica “Costituzione economica”; il secondo ha riguardato, entro questo stesso corpus, le norme sull’iniziativa e sulla proprietà private, concepite come il nucleo caratterizzante l’intera disciplina, nella dialettica – che le caratterizza – della tutela di un fascio di situazioni soggettive private e di un fascio di interessi collettivi connessi o contrapposti. Nessuno di questi due processi può condurre, a mio parere, a risultati scientificamente convincenti.
Se non erro, il primo ad aver compiuto con efficacia uno sforzo nella direzione dell’affermazione del paradigma della “Costituzione economica” (tentativi precedenti non erano mancati, ma non avevano ottenuto significativo consenso) è stato Giovanni Bognetti, che lo ha impiegato anche in funzione prescrittiva, allo scopo – cioè – di sorreggere un’ampia proposta riformatrice delle norme costituzionali dedicate all’economia[1]. Dopo di lui, molti ne hanno fatto uso[2]. Già in altre occasioni ho manifestato più di una perplessità sull’effettiva utilità (e correttezza) dell’elaborazione della nozione di “Costituzione economica”[3]: se si tratta di una formula riassuntiva per indicare il complesso delle norme costituzionali sull’economia, non sembra avere alcuna utilità; se si tratta di una formula che allude ad un ordinamento nel quale la soggettività economica prevale su quella politica, sicché la posizione di ciascuno non dipende dal fatto d’essere cittadino, ma lavoratore salariato, datore di lavoro o quant’altro, è evidente che la sua applicabilità all’attuale esperienza italiana è inimmaginabile[4]; se si tratta di una formula che intende identificare nella disciplina dell’economia il nocciolo essenziale della Costituzione, evoca un isolamento della disciplina dell’economia rispetto al corpo della Costituzione che certo i Costituenti non vollero (e non risulta dall’impianto costituzionale) e presuppone che quella disciplina abbia una fondazione puramente “tecnico-economica”, mentre è del tutto evidente che i suoi contenuti dipendono ampiamente dai valori sociali riconosciuti dalla Costituzione[5]. Ancora meno condivisibile è un ulteriore modo di far riferimento a quella nozione: se, infatti, per Costituzione economica si intendono le regole dell’economia che sono in action e non stanno solo in the books, regole che non sono identificabili in ragione del loro rango nel sistema delle fonti, ma della loro oggettiva importanza di sistema (sicché della “Costituzione economica” potrebbero far parte anche leggi ordinarie, o atti normativi di autorità indipendenti), il rapporto gerarchico tra le fonti si smarrisce e la Costituzione perde il suo potere conformativo e autenticamente precettivo. Non solo. Questa posizione postula una vera e propria dissoluzione del rapporto fra politica ed economia, occultando lo stretto nesso che lega il sistema economico e la coesione politica, nonché la natura essenzialmente politica del mercato, delle sue regole, delle sue garanzie. In altra occasione[6] ho cercato di chiarire come la retorica della “mano invisibile” non abbia alcun fondamento nemmeno nel pensiero del suo preteso fondatore (intendo: di Adam Smith), ma in questa sede sono costretto ad omettere la motivazione di questa affermazione. Mi accontento, dunque, di rilevare che non l’indeterminata e indeterminabile “Costituzione economica” deve essere considerata e assunta a paradigma, bensì la Costituzione tanto nel suo complesso quanto nel suo specifico riferimento all’economia, che è cosa affatto diversa.
Quanto al secondo dei due processi di isolamento che segnalavo in apertura, il suo fondamento teorico risulta ancor meno comprensibile. Per la verità, non mi risulta che uno sforzo argomentativo a sostegno di questo atteggiamento sia mai stato compiutamente dispiegato, ma è un dato di esperienza che la dottrina, esaminando i rapporti economici nella Costituzione, non solo si sia occupata prevalentemente di iniziativa economica e di proprietà, ma – soprattutto – abbia quasi sempre trascurato o almeno sottovalutato i collegamenti tra le norme che le concernono e le stesse altre previsioni normative che farebbero parte della pretesa “Costituzione economica”. La questione interessa, qui, per quanto in particolare riguarda la triangolazione fra articolo 41, articolo 42 e articolo 53 della Costituzione: è ad essa che va dedicata specifica attenzione.

2.- L’art. 41 Cost. e il contesto europeo.
La discussione sull’art. 41 della Costituzione, inizialmente, si era concentrata sul rapporto intercorrente fra i suoi tre commi e sul significato dei lemmi utilizzati da ciascuno di essi: l’“iniziativa” economica privata, tutelata dal primo comma dell’art. 41 Cost., era da distinguere dal suo “svolgimento”, regolato dal secondo comma? L’una e l’altro potevano essere ricostruiti come momenti della più comprensiva “attività” cui si riferisce il terzo comma? L’iniziativa regolata dal primo comma abbracciava qualunque attività economica, l’attività di impresa, o solo la produzione orientata allo scambio? I limiti dell’iniziativa coincidevano o non con quelli del suo svolgimento? Questi e altri – meno centrali – interrogativi hanno affaticato per molti anni la dottrina, che, come è ben noto, non ha trovato un punto di sostanziale accordo. Sotto di loro, peraltro, giaceva un più sostanziale problema, che era quello dell’esistenza o meno di un fondamento costituzionale della concorrenza e del mercato (in assenza di una loro formale menzione nel testo originario della Costituzione).

Qui, a mio parere, la discussione fra i costituzionalisti (per molti anni orientatisi maggioritariamente in senso negativo) ha conosciuto un punto di svolta in occasione del Convegno della nostra Associazione del 1991, nel quale furono presentate le relazioni di Amato, di Guarino e di Bognetti[7]. La prima, pur constatando la mancanza di un’incondizionata fiducia dei Costituenti nel mercato e nella libera concorrenza, registrava anche un cambiamento culturale successivamente indotto dall’irruzione del diritto comunitario (che sollecitava una diversa visione della competizione e della concorrenza), concludendo nel senso che “la Costituzione scritta [fosse] perfettamente in grado di ospitare questa aggiornata visione e di offrirle anzi più spazi per farsi valere”[8]. La seconda (che peraltro si segnalava soprattutto per un encomiabile realismo) leggeva nel complesso delle norme costituzionali sul rapporto fra iniziativa privata e intervento pubblico il riconoscimento della “primazia […] al mercato[9].  L’ultima, pur seguendo un diverso itinerario (nel quale ai princìpi fondamentali comunitari veniva riconosciuta prevalenza su quelli costituzionali)[10], perveniva, in buona sostanza, al medesimo risultato, osservando che “la lettera” dell’art. 41 non sarebbe stata incompatibile con un’interpretazione – diciamo così – liberista della Costituzione[11]. Di lì a poco avremmo avuto il Trattato di Maastricht e la dottrina italiana, sulla scia di quelle riflessioni, si predisponeva a leggere la Costituzione in una chiave assai diversa da quella con la quale l’aveva interpretata per più di quattro decenni. Da allora, è stato un susseguirsi di letture della nostra Costituzione volte ad asseverarne la definitiva “europeizzazione” e a smussare gli angoli di frizione tra la nostra disciplina costituzionale e quella comunitaria prima ed eurounitaria poi, esaltando, di volta in volta, le previsioni costituzionali proconcorrenziali o quelle europee filo-sociali.
Parallelamente, la lettura della disciplina costituzionale della proprietà ha subìto un’evidente torsione a rimorchio della giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo. Se già tra il 1966 e il 1968 la giurisprudenza costituzionale aveva abbandonato un indirizzo eccessivamente disattento nei riguardi dei diritti del privato espropriato, esigendo l’adozione di criteri di commisurazione dell’indennizzo al valore venale (e, in concreto, giungendo in più occasioni a dichiarare illegittime le previsioni di indennizzi inferiori al 50% di tale valore), la giurisprudenza più recente, a mio avviso eccessivamente sottovalutando gli elementi differenziali fra CEDU e Costituzione repubblicana, ha allestito guarentigie ancor più robuste.
Non è questa la sede per valutare tali filoni interpretativi e per mettere in luce i loro rischi (che, a mio parere, riguardano soprattutto la tenuta delle peculiarità della nostra Costituzione e l’autonomia della nostra giurisdizione costituzionale nei confronti di quelle sovranazionali o internazionali). Mi interessa di più, semmai, constatare che in tutto il lavorio dottrinale sulla cosiddetta Costituzione economica e sulle garanzie del mercato le norme sulla fiscalità sono rimaste come sullo sfondo, per non dire dimenticate. Eppure, è difficile convincersi che questa possa essere una scelta condivisibile.

3.- Politica fiscale e mercato.
Non c’è bisogno di scomodare l’economia politica, la politica economica o la scienza delle finanze per constatare i rapporti che necessariamente intercorrono tra  fiscalità e mercato. Anche il semplice buon senso ci dice che la leva fiscale, talvolta anche da sola, può far chiudere o aprire un mercato e che il funzionamento concreto dei mercati dipende strettamente dal livello della pressione fiscale e dalla modulazione della relativa percossione. Per fare un solo, banale, esempio: la diffusa tendenza all’abbassamento o comunque al contenimento dei livelli di tassazione dei capital gains va di pari passo con la scelta politica di liberalizzare il mercato dei capitali e con la volontà di attirare investimenti anche grazie alla competizione sui livelli di pressione fiscale[12]. Come spiegare, allora, questo singolare andamento della discussione scientifica?
A mio parere, la sostanziale disattenzione nei confronti della regolazione costituzionale della fiscalità nel contesto dell’analisi della più generale disciplina dell’economia si spiega soprattutto con la mancata valorizzazione del principio di progressività sancito dall’art. 53 Cost. Se non si considera questo principio, però, il quadro della disciplina costituzionale dell’economia resta fatalmente incompleto.
A ben vedere, l’art. 41 Cost., sul quale l’attenzione della dottrina si è massimamente concentrata, abbraccia solo le sfere della produzione e dello scambio, ma resta silente su quella della distribuzione. Certo, in quell’articolo troviamo il riferimento all’utilità sociale, ma questa formula, se definisce alcuni valori (e finalità) di riferimento, non dice molto sui mezzi. Si deve considerare, infatti, che (lo aveva ben compreso già Alberto Predieri) l’utilità di cui l’art. 41 Cost. fa menzione è imputabile alla società nel suo complesso[13], con la conseguenza che l’utilità sociale non può essere confusa con l’interesse pubblico (men che meno dello Stato-persona) e che la società “tutta intera” cui si fa riferimento è quella società in corso di edificazione che dovrebbe costruirsi attuando il programma di sviluppo tracciato dall’art. 3, comma 2. Ma se è interesse comune a tutti che ciascuno realizzi il proprio progetto di emancipazione personale, tale progetto non è definito in positivo né imposto ai singoli, che assumono su di sé, con la libertà, la responsabilità di identificarne i contorni, i tempi e le modalità di attuazione.
Ne viene che il secondo comma dell’art. 41, lungi dal risolversi esclusivamente nell’apprestamento di strumenti di compressione della libertà dei singoli, apre, al contrario, spazi nuovi e diffusi di libertà e di autodeterminazione, evocando un ambito dell’agire della persona umana più ampio e complesso di quello entro il quale è costretto a muoversi l’homo oeconomicus. Aprendo questi spazi di libertà, però, come accennavo, esso non offre indicazioni immediate e stringenti sui mezzi concreti di realizzazione dei progetti individuali di emancipazione. A questo provvedono le norme sui diritti sociali e, appunto, quelle sull’imposizione fiscale.

L’art. 53 Cost., in particolare, con la sua previsione che la percossione tributaria deve informarsi a criteri di progressività, pur nel rispetto della capacità contributiva dei percossi, si lega strettamente all’art. 41. Progressività delle imposte, infatti, significa, puramente e semplicemente, non solo facoltà, ma obbligo di politiche redistributive[14]. In cos’altro si risolve, infatti, la progressività se non nella ridefinizione del diagramma delle utilità marginali di chi subisce il prelievo (sempre più intenso quanto più ci si avvicina, appunto, al “margine” della sua ricchezza) e di chi acquisisce, invece, le utilitates dispensate grazie a quel prelievo? E’ evidente che la redistribuzione può essere operata incidendo sul versante dell’ammontare dei redditi percepiti (e cioè sull’aumento dei salari), ma il principio di progressività agisce soprattutto sul diverso terreno della quantità e qualità dei servizi goduti dai destinatari delle prestazioni dello Stato sociale ed erogati grazie all’impiego delle somme ottenute con il prelievo (anche se è ben possibile che una parte delle risorse acquisite in ragione dell’applicazione di imposte progressive sia destinata ad alimentare la spesa pubblica di parte corrente destinata al trattamento economico dei pubblici dipendenti).
Al di là d’ogni valutazione sulla sua opportunità, dunque, la prospettiva dello Stato minimo non può essere ospitata entro le coordinate della Costituzione. Anche se mancasse il riconoscimento dei diritti sociali, anche se la nostra fosse – come formalmente parrebbe essere quella tedesca – una Verfassung ohne soziale Grundrechte[15], il principio di progressività basterebbe, da solo, ad espellerla dal novero delle alternative praticabili. Del resto, non è certo un caso che i sostenitori dello Stato minimo si schierino fermamente contro la progressività e a favore della mera proporzionalità: solo pochi giorni fa – ne dà conto la stampa quotidiana – in occasione del lancio del “Manifesto liberale di Milano” è stata sostenuta la tesi dell’aliquota unica, da far scattare al superamento di un minimo da lasciare – invece – esente[16].
Sotto l’alternativa progressività/proporzionalità giace una diversa e non meno alternativa articolazione di interessi sociali: è stato osservato, di recente, che “chi non ha bisogno di servizi pubblici o ne ha un bisogno limitato non cerca le stesse cose di chi dipende esclusivamente dal settore pubblico”[17], e questo spiega bene la divaricazione delle posizioni. Purtuttavia, non si può fare a meno di guardare un po’ più a fondo nella posizione dei sostenitori di una proporzionalità fiscale connessa ad un modello “minimo” di Stato. I sostenitori dello Stato minimo, infatti, non sollecitano semplicemente un ripiegamento dello Stato al mero ruolo di Nachtwächter, ma si aspettano dall’intervento statale molto di più della semplice garanzia della pubblica sicurezza. Al di là della già ricordata, estenuata retorica della mano invisibile, anche coloro che la negano teoreticamente quasi sempre presuppongono praticamente la costruzione sociale (intendo: politica) del mercato, sicché dalla mano pubblica si attendono quadri regolatorî, infrastrutture, addirittura interventi di sostegno nei casi di emergenza. Il dissenso riguarda, semmai, la composizione della spesa pubblica e la sua destinazione a finalità redistributive, assai più che la non credibile difesa del mercato dall’intervento statale e della sottrazione della mano invisibile alla stretta con la mano pubblica. E questa è la migliore dimostrazione che la progressività destina per sua logica interna il prelievo fiscale alla redistribuzione: non è certo casuale, ribadisco, che chi avversa le politiche redistributive sul piano dell’entrata avversi, su quello dell’entrata, la progressività.

4.- Cittadinanza e tributi.
Una massa di interrogativi, a questo punto, si affollerebbe una volta che queste conclusioni dovessero essere condivise: esiste un limite “in alto” al prelievo fiscale[18]? Che rapporto intercorre fra progressività e capacità contributiva? La capacità contributiva deve essere intesa in senso “assoluto” ovvero (ciò che sembra più coerente con la finalizzazione redistributiva della progressività)[19] “relativo”? Deve essere progressivo il singolo tributo o è sufficiente che la progressività caratterizzi il sistema tributario nel suo complesso (come ha sostenuto la Corte costituzionale, affermando che “ai sensi dell’art. 53, secondo comma, Cost., «i criteri di progressività» debbono informare il «sistema tributario» nel suo complesso e non i singoli tributi”)[20]? E l’elenco potrebbe continuare. Personalmente, tenuto conto della finalità di queste riflessioni, mi limito a qualche considerazione conclusiva sul rapporto fra dottrina della cittadinanza e dottrina dell’imposizione fiscale.
E’ stato scritto che “il concorso alle pubbliche spese non è che un aspetto dell’appartenenza alla comunità”[21]. E’ vero. La stessa Costituzione suggerisce questa conclusione anche in ragione del proprio tenore letterale: il cittadino che “concorre” a determinare (attraverso i partiti) la politica nazionale ai sensi dell’art. 49 è lo stesso che “concorre” alle spese pubbliche in ragione della sua capacità contributiva ai sensi dell’art. 53. Il cittadino politicamente attivo, dunque, è anche il cittadino “solidale” e “fraterno”.
Questa affermazione presuppone il rigetto della diffusa opinione che il vincolo di cittadinanza, che il legame che unisce i polítai sia dato essenzialmente dai diritti. Non è così. I diritti, negli ordinamenti democratici, sono elementi essenziali e costitutivi del patto fondativo della comunità politica, ma, a causa dell’elemento individualistico del quale fatalmente non possono – in maggiore o minore misura – non essere composti, sono in grado di condurre anche alla disgregazione, non al rinsaldamento del vincolo comunitario (l’esempio più eclatante è quello dell’obiezione di coscienza, ma il discorso riguarda tutti i diritti costituzionali)[22]. Come era ben chiaro alla concezione romana della cittadinanza, ingiustamente dimenticata a vantaggio di una dottrina diffusa soprattutto dalla sociologia anglosassone (mi riferisco soprattutto al successo avuto da Marshall), più dei diritti sono i doveri che cementano il vincolo sociale, definendone le ragioni e i confini.
Non vi è, in questa constatazione, alcun cedimento alle contemporanee suggestioni comunitariste, né l’aspirazione a far sì che la Gemeinschaft si sovrapponga o sostituisca alla Gesellschaft. Se, però, di una “comunità politica” stiamo parlando, possiamo farlo solo a condizione che di autentica pólis si tratti e che i suoi componenti siano, appunto, polítai. E senza una dottrina e una pratica coerenti dei doveri il vincolo di cittadinanza non può essere scoperto né realizzato.

*E’ qui riprodotto il testo della relazione presentata al Seminario su “L’evoluzione del sistema fiscale e il principio di capacità contributiva. Le basi teoriche”, tenuto presso la LUISS in data 11 giugno 2012. Alcune delle prime pagine, in realtà, sono riprese dalla relazione all’annuale Convegno AIC, che nel 2011 si è tenuto (il 28 e 29 ottobre) a Torino, perché ho ritenuto che le questioni allora affrontate fossero preliminari a quelle qui trattate. La relazione torinese è ora pubblicata con il titolo Unità nazionale e struttura economica. La prospettiva della Costituzione repubblicana, in Diritto e società, n. 4/2011, 636 sgg.

Note

1.  Cfr. G. BOGNETTI, Il modello economico della democrazia sociale e la Costituzione della Repubblica italiana, in AA. VV. Verso una nuova Costituzione, a cura del “Gruppo di Milano”, Milano, Giuffrè, 1983, I, 133 sgg.; ID., La Costituzione economica italiana. Interpretazione e proposte di riforma, Milano, Giuffrè, 1993 (2^ ed., 1995).

2.  Cfr., tra gli scritti più significativi, S. CASSESE, La nuova Costituzione economica. Lezioni, Bari-Roma, Laterza, 1995, spec. 3 sgg.; L. CASSETTI, Stabilità economica e diritti fondamentali. L’euro e la disciplina costituzionale dell’economia, Torino, Giappichelli, 2002, spec. 187 sgg.

3.  Rinvio dunque, senz’altro, a M. LUCIANI, Economia (nel diritto costituzionale), in Digesto, IV edizione, vol. V pubblicistico, Torino, UTET, 1991.

4.  La critica alla “Costituzione economica” intesa come Costituzione basata su un principio economico anziché politico è già in C. SCHMITT, Der Hüter der Verfassung, Berlin, Duncker u. Humblot, 1931, trad. it. di A. Caracciolo, Il custode della Costituzione, Milano, Giuffrè, 1981, spec. 149 sgg.

5.  Si è negato che, di per sé, il riferimento alla Costituzione economica evochi il primato dell’economico sul politico o la separatezza delle norme sui rapporti economici dalle altre norme costituzionali (così V. ATRIPALDI, La Costituzione economica tra “patto” e “transizioni”, in Governi ed economia. La transizione istituzionale nella XI Legislatura, Padova, Cedam., 1998, 9 sg.), ma se così fosse vorrebbe dire che quel riferimento non avrebbe alcun senso. Del resto, quando si negano quel primato e quella separatezza e si afferma che la Costituzione economica reggerebbe semplicemente, in particolare, la “dialettica tra autonomia privata ed azione pubblica di indirizzo e controllo dell’economia” (così G. BIANCO, Costituzione ed economia, Torino, Giappichelli, 1999, 201), si dimostra chiaramente, a mio avviso (e per le ragioni indicate nel testo), la disutilità della nozione.

6.  Cfr. Unità nazionale e struttura economica, cit., spec. 655 sgg.

7.  Che quella svolta, subito e lucidamente, registrava con entusiasmo: G. Bognetti, La Costituzione economica tra ordinamento nazionale e ordinamento comunitario, in Annuario AIC 1991, Padova, Cedam, 1997, 70.

8.  G. Amato, Il mercato nella Costituzione, cit., 19. Critiche all’operazione interpretativa che ha fatto leva sui princìpi comunitari per modificare la lettura delle norme costituzionali, ad es., in R. Niro, Articolo 41, in Aa. Vv., Commentario alla Costituzione, a cura di R. Bifulco – A. Celotto – M. Olivetti, Milano, Giuffrè, 2006, I, 862.

9.  G. Guarino, Pubblico e privato nella economia. La sovranità tra Costituzione ed istituzioni comunitarie, in Aa. Vv., La Costituzione economica, cit., 41 (cors. nell’orig.).

10.  G. Bognetti, La Costituzione economica tra ordinamento nazionale e ordinamento comunitario, cit., 108.

11.  G. Bognetti, La Costituzione economica tra ordinamento nazionale e ordinamento comunitario, cit., 98.

12.  Perché una pressione fiscale eccessiva suggerisce strategie – diciamo così – di exit (tra i giuristi, la questione è ben posta da G. Guarino, Pubblico e privato nella economia, cit., 32).

13.  A. Predieri, Pianificazione e costituzione, Milano, Edizioni di Comunità, 1963, 192 sg. Adesivamente. M. Luciani, Corte costituzionale e proprietà privata, in Giur. cost., 1977, 1394; Id., La produzione, cit., 125.

14.  Analogamente, C. Buzzacchi, La solidarietà tributaria. Funzione fiscale e principi costituzionali, Milano, Giuffrè, 2011, 11; P. Caretti, I diritti fondamentali. Libertà e diritti sociali, 3^ ed., Torino, Giappichelli, 2011, 578; F. Sorrentino, Eguaglianza, Torino, Giappichelli, 2011, 10 (ponendo specificamente in luce il collegamento fra eguaglianza sostanziale, progressività delle imposte, redistribuzione); N. Irti, L’ordine giuridico del mercato, cit., 88 sg. La redistribuzione del reddito, peraltro, è comunque implicata da qualunque sistema fiscale e da qualunque sistema della sicurezza sociale (M. Persiani, Diritto della previdenza sociale, 18^ ed., Padova, Cedam, 2011, 54; analogamente, M. Cinelli, Diritto della previdenza sociale, 9^ ed., Torino, Giappichelli, 2010, 14 sg.). Questa redistribuzione, pertanto, potrebbe essere anche solo orizzontale (tra componenti diverse – cioè – del medesimo ceto o della medesima fascia sociale). Il principio di progressività comporta, invece, che la redistribuzione debba essere (anche o soprattutto) verticale.
In generale, sulla “stretta correlazione che l’art. 53 Cost. ha istituito tra dovere contributivo e spesa pubblica e sociale”, F. Gallo, Le ragioni del fisco. Etica e giustizia nella tassazione, 2^ ed., Bologna, Il Mulino, 2011, 25 (ma v. anche ivi, 61, sulla funzionalizzazione dell’imposizione fiscale al fine di “realizzare il riparto dei carichi pubblici secondo il principio di uguaglianza sostanziale, perseguire nella giustizia politiche sociali redistributive, allocative e stabilizzatrici e promuovere la crescita culturale e lo sviluppo economico nella stabilità”, e 108 sgg. sull’inaccettabilità delle dottrine dell’imposizione fondate sul sinallagma onere-beneficio).

15.  Per riprendere il titolo del noto saggio di J. Isensee, Verfassung ohne soziale Grundrechte. Ein Wesenszug des Grundgesetzes, in Der Staat, 19 (1980).

16.  V. Il Corriere della Sera del 10 giugno 2012, che riferisce dell’iniziativa del giorno precedente.
Che il minimo vitale debba andare esente da tassazione è, comunque, pacifico. Secondo la Corte costituzionale (sent. n. 97 del 1968), in particolare, si deve escludere che “l’obbligo tributario possa sorgere ove tale capacità manchi del tutto” e da ciò deriva che la capacità contributiva “non coincide affatto con la percezione di un qualsiasi reddito e che vi è soggezione all’imposizione solo quando sussista una disponibilità di mezzi economici che consenta di farvi fronte”. Con la conseguenza che l’esenzione dei titolari di un reddito minimo, “oltre che legittima, […] è addirittura doverosa, perché il legislatore, se può discrezionalmente stabilire, in riferimento a complesse valutazioni economiche e sociali, quale sia la misura minima al di sopra della quale sorge la capacità contributiva, non può non esentare dall’imposizione quei soggetti che percepiscano redditi tanto modesti da essere appena sufficienti a soddisfare i bisogni elementari della vita: se così non disponesse, la legge finirebbe con l’imporre un obbligo di imposta anche là dove una capacità contributiva è inesistente” (tanto, anche in “attuazione del fondamentale principio di eguaglianza sostanziale, al quale lo Stato deve ispirarsi anche nell’uso dello strumento fiscale”.
Anche se così non fosse, comunque, l’esenzione deriverebbe dall’assenza di una ragionevole finalizzazione della tassazione: anche in astratto se vi fosse capacità contributiva, infatti, in concreto non sarebbe ragionevole tassare chi si trova al minimo, per poi doverlo sostenere con interventi di welfare. Questa prospettiva è stata assunta dal Bundesverfassungsgericht, che, affermando il principio dell’esenzione del c.d. Existenzminimum familiare, ha rilevato che “auch in diesem Fall müßte der Staat, wenn er dem Steuerpflichtigen die Mittel für die Unterstützung der unterhaltsbedürftigen Familienmitglieder entzöge, diese in entsprechender Höhe aufgrund seiner verfassungsrechtlichen Verpflichtung aus dem Sozialstaatsgebot selbst unterstützen. Überläßt er dagegen in verfassungsmäßiger Weise die Unterstützung dem Bürger, wäre es inkonsequent, diesem die dafür benötigten Mittel im Wege der Besteuerung ganz oder teilweise mit der Folge zu entziehen, daß der Staat die Unterstützung des Bedürftigen selbst übernehmen müßte” (BVerfGE, 29 maggio 1990, 82/60).

17.  F. Gallo, Giustizia distributiva e principio di progressività, 3 del paper.

18.  Sulla questione v., da ultimo, l’amplissima indagine di G. Bergonzini, I limiti costituzionali quantitativi dell’imposizione fiscale (2 voll.), Napoli, Jovene, 2011.

19.  In questo senso, A. Fedele, Appunti dalle lezioni di diritto tributario, Torino, Giappichelli, 2005, spec. 20 sgg.; F. Gallo, Le ragioni del fisco. Etica e giustizia nella tassazione, 2^ ed., Bologna, Il Mulino, 2011, spec. 79 sgg.

20.  Così, fra le più recenti, la sent. n. 102 del 2008, ma la giurisprudenza è costante.

21.  A. Fedele, Appunti, cit., 22.

22.  Sui rischi connessi ad una tutela indiscriminata dell’obiezione di coscienza, v., da ultimo, F. Grandi, Doveri costituzionali e obiezione di coscienza, tesi dottorale presso il Dottorato di diritto pubblico dell’Università degli Studi di Roma, La Sapienza, passim.