Crisi dei mercati e sovranità dello Stato: qualche elemento di discussione

1. La crisi dei mercati (finanziari), inaugurata dal dissesto dei mutui subprime statunitensi, intervenuto nel biennio 2007-2008, oltre ad aver contagiato drammaticamente una serie di strutture portanti dell’economia reale (in termini almeno di flessione del prodotto interno lordo, di aumento della disoccupazione, di crollo degli investimenti nel settore industriale, di riduzione di stipendi e di pensioni, di contrazione di spesa sociale e di progressivo allargamento della forbice tra i redditi bassi e quelli medio alti), ha aggredito agli inizi del 2010 i debiti pubblici di numerosi Paesi europei, i c.d. debiti sovrani, mettendo a dura prova anche la tenuta di alcune fondamentali categorie del diritto costituzionale, come quella di sovranità dello Stato.
Questa nozione, infatti, in entrambe le sue accezioni, di potere d’imperio dell’ordinamento statale, nei confronti di ogni altro centro di potere esistente all’interno del suo territorio, e di indipendenza verso l’esterno, nei confronti degli altri Stati e del diritto di altri ordinamenti, come quello comunitario, si trova in grandissima sofferenza rispetto agli effetti di una crisi di valenza mondiale, che ha inevitabilmente reso più fragile il già delicato tornante dei rapporti tra politica ed economia.
In tale cornice, il presente contributo intende offrire qualche iniziale elemento di discussione al tema, guardando in particolare alle modalità con le quali, a livello comunitario, le istituzioni pubbliche e gli attori fondamentali, deputati ad imbrigliare le conseguenze della crisi finanziaria ed economica in atto, hanno concretamente operato verso alcuni Stati membri dell’Unione europea, titolari di pesantissimi debiti sovrani, con specifica attenzione per le vicende italiane.
Il quesito finale al quale si potrà fornire solo un primo tentativo di risposta è se si possa davvero rinunciare all’essenza del potere sovrano, per la parte almeno in cui esso esprime, come avviene nei sistemi autenticamente democratici (v. l’art. 1, comma 2 della Costituzione italiana), la misura ultima della stessa appartenenza della comunità politica allo Stato e il luogo d’elezione dove coltivare e promuovere, incessantemente, il rispetto dei diritti e delle libertà della persona.

2. Proprio la dimensione dei rapporti tra politica ed economia, cui si è fatto appena un breve cenno, costituisce, com’è facile intuire, un possibile argomento d’indagine, che ne fa una cornice ideale, se è vero che la crisi tende a spezzare i punti di (naturale) sutura tra le due prospettive, per poi dissolvere quasi interamente la prima nella seconda.
Ora non vi è dubbio (v. analogamente Luciani 2011, 74; ma v. già Luciani 1996, 161 e passim, nonché Ciolli 2010, 4 e ss.) che compito essenziale del diritto costituzionale sia, anche, quello di salvaguardare il primato della politica sull’economia, politica che, nei regimi democratici (ma al di fuori di essi la Costituzione può esprimere davvero il nome e la cosa che le sono proprie, secondo l’insegnamento che si ricava già dall’art. 16 della Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789?), trova nella rappresentanza politico-parlamentare la sua ineliminabile manifestazione.
E’ alla luce di tale ultimo rilievo che devono essere presi in considerazione i diversi profili critici (e gli avvenimenti) che hanno interessato, nel biennio concluso almeno, le relazioni tra la crisi dei mercati e il potere sovrano degli Stati.
Ciò, invero, secondo due differenti linee di sviluppo: l’una che ha visto, in realtà, più che la sconfitta del potere sovrano degli Stati rispetto al potere del mercato globale e dei nuovi attori del sistema economico, l’allargamento della divaricazione del ruolo politico dei singoli Stati, in rapporto alla capacità di influenzare le strategie elaborate da istituzioni come la Banca centrale europea, con una sovranità che, quindi, “si depaupera per i Paesi che contano di meno e si incrementa per quelli che pesano di più” (così già l’approccio di Cocco 2000, 200, 201 e passim).
L’altra che è, invece, tutta schiacciata sullo spostamento del baricentro del potere decisionale effettivo a favore di “tecnostrutture potenti ed efficienti” (la Banca centrale europea, su tutte), “delle multinazionali più floride e di una burocrazia tecnocratica assai potente” e invasiva (ancora Cocco 2000, 200 e 202; ma v. anche Pinelli 1997, 62 e passim), soggetti e organismi che, a vario titolo, sembrano integralmente dettare l’agenda agli Stati dell’Eurozona (o almeno a una parte consistente di essi), rendendo flebili davvero le istanze di sovranità che da Dublino, Lisbona, Atene, Roma, Madrid… possono (ancora) promanare.

3. Di tali vicende complessive, alcune di larga eco anche fuori dal più ristretto circuito degli addetti ai lavori, non si può che compiere, in questa sede, una ricognizione assai sintetica.
Ci si deve riferire, allora, in particolare: alla questione dell’inserimento nei testi costituzionali dell’obbligo di pareggio di bilancio, in base alle indicazioni del c.d. “Patto euro plus”, allegato alle Conclusioni del Consiglio europeo del 24-25 marzo 2011 (e la cui esigenza è stata ribadita fermamente dal Consiglio europeo del 30 gennaio 2012), questione che non sarà peraltro oggetto specifico di queste note (ma per un suo esame v. Ciolli 2012, 1 ss. e spec. 5 ss.); alla lettera del 5 agosto 2011, del Governatore della Banca centrale europea in scadenza, Jean-Claude Trichet, e del neo Governatore della medesima Banca centrale, Mario Draghi, indirizzata al Governo italiano al fine di assumere misure immediate e decise per assicurare la sostenibilità delle finanze pubbliche (sulla quale v. infra il punto 4); alla vicenda del referendum popolare greco che il premier Papandreou, agli inizi di novembre 2011, aveva proposto, senza successo, in ordine all’approvazione delle misure di salvataggio del debito pubblico ellenico “imposte” dall’Unione europea; alla creazione nel 2010 del fondo salva Stati europeo (EFSF), pur recentemente declassato dall’Agenzia di rating Standard & Poor’s, e del nuovo fondo permanente ESM; al crescente ruolo svolto dalle medesime Agenzie di rating, organismi privati la cui legittimazione è davvero assai incerta; in relazione all’attività svolta da questi ultimi soggetti all’iniziativa giudiziaria intrapresa tra fine 2011 e inizio 2012 dalla procura di Trani nei confronti delle Agenzie Standard & Poor’s, Fitch e Moody’s, contestando in modo specifico l’esistenza di un cartello tra le tre Agenzie ai danni dei cittadini e dei risparmiatori italiani; ai condizionamenti che la crisi economico-finanziaria e fattori “esterni” al circuito politico-parlamentare hanno determinato sugli organi titolari della funzione di indirizzo politico, anche favorendo un “ricambio” nella composizione di alcuni Governi dei Paesi dell’Eurozona (Grecia, Italia, in particolare) e talvolta anticipando la scadenza naturale della legislatura (Irlanda, Portogallo, Spagna, Slovenia, Slovacchia…; ma sulla vicenda greca v. qualche spunto nel punto 5); più in generale, infine, a una verifica della persistente capacità dei testi costituzionali, sui quali la stessa nozione di sovranità trova linfa e fondamento (v. il punto 6), di reggere all’urto delle regole del mercato e della finanza, spesso così poco attente alle dinamiche dell’economia reale (anche in ragione delle modalità con cui, come si è scritto recentemente, la speculazione finanziaria è riuscita a emanciparsi dall’economia reale: v. Di Gaspare 2011, 119 ss. e passim), ma pure in grado di dettarne le linee di indirizzo (come non considerare, ad esempio, in tale ambito l’importanza assunta, specie nella prima fase della crisi economica di questi anni, dai c.d. fondi sovrani che molti problemi pongono anch’essi alla tradizionale concezione del potere sovrano statale?).

4. Due episodi, esemplari della partizione operata poco sopra (v. il punto 2), sembrano meritare uno specifico, pur breve, approfondimento.
La citata lettera indirizzata dalla coppia Draghi-Trichet al Governo italiano, nell’agosto del 2011, esprime, in modo marcato e “senza sconti”, l’avvenuto passaggio del potere d’indirizzo politico, nel campo della politica economica, ma con ricadute ovviamente a largo raggio sull’intero ventaglio d’azione dell’indirizzo politico, dagli organi politici nazionali, rappresentativi politicamente, eletti in forma democratica (e pur con tutte le perplessità che si porta dietro, nel nostro Paese, un sistema elettorale, come quello della legge n. 270 del 2005), a un organo “tecnico”, non rappresentativo politicamente, né eletto democraticamente, e fortemente irresponsabile, in ragione della sua (pretesa) indipendenza.
La lettera comprime fortemente lo spazio d’azione della politica nazionale e al contempo evidenzia una possibile torsione del ruolo stesso della Banca centrale europea, nell’assetto dei poteri dell’Unione.
La lettera, dettando al Governo italiano pezzi sostanziali di scelte d’indirizzo politico-economico, cerca una sua parziale giustificazione nella cessione (e limitazione) di sovranità che l’appartenenza all’Unione europea impone (e non a caso, nel suo esordio, essa cita il vertice dei capi di Stato e di governo dell’area-euro del 21 luglio 2011, nel punto in cui si era sancito che “tutti i Paesi dell’euro riaffermano solennemente la loro determinazione inflessibile a onorare in pieno la loro individuale firma sovrana e tutti i loro impegni per condizioni di bilancio sostenibili e per le riforme strutturali”); in modo inquietante (di una vicenda “preoccupante” nel merito e nella forma parla anche Luciani 2011, 62) la missiva entra anche nel dettaglio delle modalità con le quali il nostro Paese dovrà operare, indicando termini di tempo (fine di settembre 2011), strumenti normativi da utilizzare (il decreto legge, accompagnato dalla legge di conversione parlamentare) e ignorando colpevolmente la funzione legislativa parlamentare e quelle che dovrebbero essere le dinamiche di una forma di governo nella quale l’indirizzo politico trae spunto anche dalla dialettica tra Governo e Parlamento (la lettera si rivolge, infatti, solo al Governo, affinché, conclusivamente, assuma le azioni appropriate).
Infine, la lettera sposta il suo raggio d’azione (forse sarebbe meglio dire “alza il tiro”) anche sul piano delle riforme costituzionali, fuori dall’agone della lotta per il potere, considerando “appropriata una riforma costituzionale che renda più stringenti le regole di bilancio” e manifestando “l’esigenza di un forte impegno ad abolire o a fondere alcuni strati amministrativi intermedi (come le Province)”.
E’ assai dubbio, però, che questo tipo di approccio sia davvero ammissibile e possa essere accettato passivamente (seppur si tratti, in questo caso, solo di una celata imposizione di richiedere un intervento a livello di revisione costituzionale: v. anche Luciani 2011, 63), come peraltro sembra aver fatto l’attuale, larghissima, maggioranza parlamentare che, sulla questione cruciale e non certamente tecnica della modifica dell’art. 81 Cost. (e di altre disposizioni, costituzionali tra cui l’art. 119), ha votato con un quorum ben superiore ai due terzi già nella prima deliberazione, prevista dall’art. 138, e dopo un dibattito parlamentare piuttosto risicato.

5. Quanto alla vicenda greca, essa denota molto bene i limiti di quella che pare una sorta di graduatoria esistente tra le Nazioni più potenti e prestigiose, che occupano tradizionalmente una posizione autorevole nel consesso europeo (i primi posti di un’ipotetica classifica tra Paesi europei) e le Nazioni più deboli, che godono storicamente di minor credito e potere e che, per continuare nella metafora, occupano stabilmente la colonna destra di quella medesima classifica…
In particolare, ai fini di questo contributo, assumono rilievo due particolari momenti della tormentata storia della recente crisi economica e politica greca (per un riepilogo della quale v. l’informato Dossier rinvenibile in http://www.presseurop.eu/it/content/topic/787481-grecia-la-lunga-crisi): l’ipotesi di sottoporre, nel novembre 2011, a referendum popolare l’accordo dell’Eurozona del 27 ottobre 2011, e la successiva approvazione, il 12 febbraio 2012, da parte del Parlamento greco di un ulteriore, durissimo, piano di austerity redatto dal ministro delle finanze Venizelos, su richiesta della c.d. troika (Unione europea, Banca centrale europea e Fondo Monetario internazionale), piano la cui adozione ha rappresentato la condizione per la consegna alla Grecia di un nuovo prestito da 130 miliardi di euro.
Il referendum ha, nell’ordinamento costituzionale greco, caratteri sensibilmente diversi da quelli del referendum abrogativo dell’art. 75 della Costituzione italiana; esso viene indetto, infatti, dal Presidente della Repubblica su argomenti di cruciale rilievo nazionale (“crucial national matters”), sulla base di una risoluzione votata dal Parlamento a maggioranza assoluta, su proposta del Governo, oppure su leggi del Parlamento, riguardanti importanti materie sociali (“important social matters”), con eccezione della materia fiscale, su richiesta di una maggioranza qualificata del medesimo.
In tale contesto, quella del primo ministro Papandreou è parsa un po’ una mossa disperata, per uscire da una situazione molto difficile, di fronte a una profondissima spaccatura tra popolo e forze politiche di governo, tanto che il premier ha poi dovuto rinunciare alla sua proposta, ben sapendo anche di non avere probabilmente all’interno del suo stesso partito, il Pasok, il consenso sufficiente per sostenere la richiesta referendaria, a maggioranza assoluta. I giornali greci hanno parlato di un “ricatto” di Papandreou al popolo greco, messo di fronte all’alternativa tra il voto a favore dell’accordo europeo e il fallimento della Grecia e l’uscita dall’Euro (v. il Dossier citato poco sopra). Ma l’idea di ricorrere, come extrema ratio, al voto popolare, osteggiata dai Paesi europei più forti (Germania e Francia, in particolare) e dagli organismi “finanziatori” dell’aiuto alla Grecia costituisce in sé un germe fortissimo per la costruzione di un percorso che contribuisca a garantire una qualche capacità di decisione agli Stati, in nome del primato di quel potere sovrano, di cui si sta discutendo, di una sovranità radicata nella volontà popolare, secondo i canoni tipici dei sistemi democratici (un analogo significato sembra poter avere il referendum popolare che il governo irlandese intende svolgere sull’accordo denominato “fiscal compact”, siglato agli inizi di marzo 2012, da 25 Stati dell’Unione europea; altra questione delicatissima, sulla quale non si può qui prendere partito, è quella che riguarda la legittimità dei debiti pubblici contratti e dell’esistenza di un eventuale diritto all’insolvenza del debito e all’annullamento del debito, anche utilizzando meccanismi di c.d. audit del medesimo: ma sul problema v. il lavoro, pur eccessivamente sbilanciato sotto il profilo ideologico, di Chesnais 2011).

A febbraio 2012, poi, il nuovo Governo di unità nazionale guidato da Lucas Papademos ha sostenuto in Parlamento l’approvazione di pesantissime misure di austerità, richieste dall’Europa e dal Fondo monetario internazionale, che oltre a provocare un clima di violentissimi scontri e proteste nelle piazze di molte città greche ha spaccato la tenuta stessa dei partiti di governo, in particolare il Pasok e Nuova Democrazia, che hanno espulso dai rispettivi gruppi parlamentari i deputati contrari all’adozione di un provvedimento che, certo, ha salvato almeno per ora la Grecia dal default, ma che pone enormi problemi di sostenibilità sociale: per questo profilo, si mette in luce un altro rilevantissimo elemento di discussione per il nostro tema, quello appunto di una sovranità statale che, venendo sopraffatta quasi interamente, determina, però, contemporaneamente il collasso dei sistemi di welfare dei Paesi di democrazia pluralista.
Di fronte al rischio che questo accada, il discorso deve proseguire indagando se (e quanto) le Costituzioni possano ancora rappresentare un serio ed efficace argine in questo campo, quelle Costituzioni almeno che collocano i diritti sociali al centro stesso dell’impianto costituzionale e della forma di Stato (come avviene, ad esempio, in Italia, in ragione del collegamento tra art. 3, comma 2, e art. 41, comma 2, Cost., tra uguaglianza sostanziale e utilità sociale: così persuasivamente Luciani 2011, 47 e passim, nonché Ciolli 2012, 17; ma v. subito le conclusioni del punto 6).

6. Alla luce di quanto finora osservato e avviandomi a concludere queste note, la tesi che si può solo abbozzare, pur nella snellezza e agilità richiesta al lavoro, è che la forza normativa delle Costituzioni, nel loro nucleo di principi intangibili e immodificabili, non possa cedere dinanzi a logiche del tutto estranee a essi – frutto del prevalere di poteri extragiuridici, spesso sganciati dal rispetto delle più elementari norme etiche, la cui essenza ben si condensa affermando il primato della natura delle cose e/o il diritto del più forte – se si vuole davvero difendere, non tanto la rigidità di quei testi, per accontentare magari il fine palato dei giuristi costituzionalisti, ma l’intero patrimonio di valori della comunità politica di riferimento.
Peraltro, esiti come quello dell’inserimento in Costituzione di norme sul pareggio di bilancio, “imposte” dall’alto (a seguito delle decisioni prese nelle assise europee), più che autonomamente elaborate dal basso, nelle assemblee parlamentari o con il coinvolgimento del popolo, nello spirito più genuino di quello che dovrebbe essere il percorso di una riforma costituzionale, o di soluzioni come quella greca, basate su un vero e proprio aut aut, che ha privato il governo ellenico di qualsiasi potere di interdizione o almeno di negoziazione, per menzionare soltanto gli aspetti sui quali ci si è maggiormente soffermati in precedenza, sembrano dimostrare esattamente il contrario.
E forse non basta cercare conforto, in controcorrente rispetto all’insieme degli eventi ai quali si è fatto cenno, richiamando quanto accaduto, in conseguenza della crisi economico-finanziaria, in un Paese europeo, non membro peraltro dell’Unione europea, l’Islanda.
Questo Stato aveva accumulato, in particolare attraverso le sue banche, un debito (privato) altissimo, debito che è stato “ripudiato” a seguito di due successivi voti referendari nel marzo del 2010 e nell’aprile 2011; il prestito erogato dal Fondo monetario internazionale è stato contrattato e non subito passivamente dagli organi di governo; la classe politica considerata responsabile del rischio di default (è degli inizi di marzo 2012 la notizia di un processo penale nei confronti dell’ex primo ministro Geir Haarde) si è vista costretta ad avviare un procedimento per l’adozione di una nuova Costituzione, con la creazione di un’apposita Assemblea costituente che ha portato, con una larghissima partecipazione popolare e un ampio dibattito pubblico, anche mediante l’impiego delle più evolute tecnologie informatiche, alla stesura di un innovativo progetto di Costituzione che sarà sottoposto al voto popolare nel corso del 2012 (su quanto sintetizzato nel testo v. ad esempio Björnsonn, Valtýsson 2009; Gylfason 2011).
Tra isole greche e vulcani islandesi, in che modo le Costituzioni possono uscire dalla palude di una realtà che sfugge al controllo della loro valenza prescrittiva, potendo rappresentare, ancora, l’ultimo baluardo della sovranità degli Stati, pure contro le potenziali derive antidemocratiche che la crisi dei mercati (finanziari) rischia ulteriormente di veicolare?
Il punto di snodo implica, per lo studioso di diritto costituzionale, accettare di confrontarsi con un “ripensamento degli assetti istituzionali attraverso cui la democrazia funziona” (come notato, tra gli altri, da Dahrendorf 2003, 4); questo significa che le Costituzioni, senza abdicare mai alle funzioni che storicamente si sono viste assegnare (di rappresentare un limite invalicabile all’esercizio del potere politico, di qualsivoglia natura esso sia, anche garantendo sempre una credibile responsabilità pubblica: così già Pinelli 1997, 62, 90 e passim), devono muoversi realisticamente entro margini sempre più stretti, tra i dogmi della c.d. lex mercatoria e il diritto su cui si reggono quelle che sono state definite “le costituzioni civili della società globale” (Teubner 2005, 105 ss.; ma di questo Autore v. anche il più recente contributo, pubblicato in Kiaer, Teubner, Febbrajo, 2011, 3 ss.), i cui attori fondamentali non sono più gli Stati, “centri focali” delle tradizionali Costituzioni politiche, o altri corpi politici, pur diversamente denominati, ma “le organizzazioni internazionali, le imprese multinazionali, i sindacati internazionali, i gruppi d’interesse e le organizzazioni non governative che partecipano ai processi decisionali globali”, e, solo marginalmente, gli individui titolari di diritti umani inalienabili (così ancora Teubner 2005, 109, nonché Ciolli 2010, 61, che parla di uno “scenario, nel quale convivono in uno spazio globale istituzioni sopranazionali, imprese multinazionali e istituzioni nazionali”, con “assonanze con il Medioevo, dove più istituzioni si trovavano a coesistere in un medesimo territorio”; v. pure Pinelli 1997, 74, che rileva una “carenza di tutela dei diritti fondamentali di lavoratori, consumatori, utenti, azionisti, risparmiatori, nei confronti di imprese, mercati, organizzazioni internazionali e unioni di Stati”; nonché Thornill 2011, 392, secondo il quale “right will continue to support power by offering a reflexivity that curtails and excludes the more estreme inclusionary dimensions and paradoxes of power”).
Quelle Costituzioni, ricorrendo a quella che è soltanto una prima suggestione, rispetto a formidabili domande, per la cui risposta non basterebbe la lettura dei volumi della biblioteca d’Alessandria, potrebbero forse concedere qualcosa in termini di contrazione del potere sovrano dei singoli Stati (la maggioranza dei quali, del resto, non appartiene nemmeno alla famiglia delle democrazie di stampo occidentale), ma dovrebbero contribuire a individuare inediti strumenti di contenimento del potere e di giustificazione dal basso dei soggetti che governano le dinamiche del villaggio globale.
Meno sovranità statale, allora, probabilmente, ma non minore legittimazione democratica dei processi decisionali mondiali.

Il lavoro, con qualche marginale variazione, è destinato alla pubblicazione in Il Diritto dell’Economia, 2012-1, Mucchi Editore, Modena.

Riferimenti bibliografici essenziali (solo opere citate nel testo)

E.J. Björnsonn, K.T. Valtýsson, Financial Crisis in Iceland. Icelandic Monetary Policy, Aarhus School of Business, December 2009.

F. Chesnais, Debiti illegittimi e diritto all’insolvenza. Quando sono le banche a dettare le politiche pubbliche, Roma, 2011.

I. Ciolli, Il territorio rappresentato. Profili costituzionali, Napoli, 2010.

I. Ciolli, I Paesi dell’Eurozona e i vincoli di bilancio. Quando l’emergenza economica fa saltare gli strumenti normativi ordinari, in Rivista telematica giuridica dell’Associazione italiana dei costituzionalisti, n. 1/2012.

G. Cocco, L’Europa dei tre disincanti, in Politica del diritto, 2000, 197 ss.

R. Dahrendorf, Dopo la democrazia. Intervista a cura di Antonio Polito, Roma-Bari, 2003.

G. Di Gaspare, Teoria e critica della globalizzazione finanziaria. Dinamiche del potere finanziario e crisi sistemiche, Padova, 2011.

T. Gylfason, Dopo la crisi, una nuova Costituzione per l’Islanda, in www.lavoce.info, 28 ottobre 2011.

P.F. Kiaer, G. Teubner, A. Febbrajo (edited by), The Financial Crisis in Constitutional Perspective. The Dark side of Functional Differentiation, Oxford and Portland, Oregon, 2011.

M. Luciani, L’antisovrano e la crisi delle Costituzioni, in Rivista di diritto costituzionale, 1996, 124 ss.

M. Luciani, Unità nazionale e struttura economica. La prospettiva della Costituzione repubblicana, Relazione al Convegno annuale AIC, Costituzionalismo e Costituzione nella vicenda unitaria italiana, Torino, 27-29 ottobre 2011, paper.

C. Pinelli, Cittadini, responsabilità politica, mercati globali, in Rivista di diritto costituzionale, 1997, 43 ss.

G. Teubner, La cultura del diritto nell’epoca della globalizzazione. L’emergere delle Costituzioni civili, Roma, 2005.

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