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Crisi dei mercati e sovranità dello Stato: qualche elemento di discussione

di - 16 Luglio 2012
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4. Due episodi, esemplari della partizione operata poco sopra (v. il punto 2), sembrano meritare uno specifico, pur breve, approfondimento.
La citata lettera indirizzata dalla coppia Draghi-Trichet al Governo italiano, nell’agosto del 2011, esprime, in modo marcato e “senza sconti”, l’avvenuto passaggio del potere d’indirizzo politico, nel campo della politica economica, ma con ricadute ovviamente a largo raggio sull’intero ventaglio d’azione dell’indirizzo politico, dagli organi politici nazionali, rappresentativi politicamente, eletti in forma democratica (e pur con tutte le perplessità che si porta dietro, nel nostro Paese, un sistema elettorale, come quello della legge n. 270 del 2005), a un organo “tecnico”, non rappresentativo politicamente, né eletto democraticamente, e fortemente irresponsabile, in ragione della sua (pretesa) indipendenza.
La lettera comprime fortemente lo spazio d’azione della politica nazionale e al contempo evidenzia una possibile torsione del ruolo stesso della Banca centrale europea, nell’assetto dei poteri dell’Unione.
La lettera, dettando al Governo italiano pezzi sostanziali di scelte d’indirizzo politico-economico, cerca una sua parziale giustificazione nella cessione (e limitazione) di sovranità che l’appartenenza all’Unione europea impone (e non a caso, nel suo esordio, essa cita il vertice dei capi di Stato e di governo dell’area-euro del 21 luglio 2011, nel punto in cui si era sancito che “tutti i Paesi dell’euro riaffermano solennemente la loro determinazione inflessibile a onorare in pieno la loro individuale firma sovrana e tutti i loro impegni per condizioni di bilancio sostenibili e per le riforme strutturali”); in modo inquietante (di una vicenda “preoccupante” nel merito e nella forma parla anche Luciani 2011, 62) la missiva entra anche nel dettaglio delle modalità con le quali il nostro Paese dovrà operare, indicando termini di tempo (fine di settembre 2011), strumenti normativi da utilizzare (il decreto legge, accompagnato dalla legge di conversione parlamentare) e ignorando colpevolmente la funzione legislativa parlamentare e quelle che dovrebbero essere le dinamiche di una forma di governo nella quale l’indirizzo politico trae spunto anche dalla dialettica tra Governo e Parlamento (la lettera si rivolge, infatti, solo al Governo, affinché, conclusivamente, assuma le azioni appropriate).
Infine, la lettera sposta il suo raggio d’azione (forse sarebbe meglio dire “alza il tiro”) anche sul piano delle riforme costituzionali, fuori dall’agone della lotta per il potere, considerando “appropriata una riforma costituzionale che renda più stringenti le regole di bilancio” e manifestando “l’esigenza di un forte impegno ad abolire o a fondere alcuni strati amministrativi intermedi (come le Province)”.
E’ assai dubbio, però, che questo tipo di approccio sia davvero ammissibile e possa essere accettato passivamente (seppur si tratti, in questo caso, solo di una celata imposizione di richiedere un intervento a livello di revisione costituzionale: v. anche Luciani 2011, 63), come peraltro sembra aver fatto l’attuale, larghissima, maggioranza parlamentare che, sulla questione cruciale e non certamente tecnica della modifica dell’art. 81 Cost. (e di altre disposizioni, costituzionali tra cui l’art. 119), ha votato con un quorum ben superiore ai due terzi già nella prima deliberazione, prevista dall’art. 138, e dopo un dibattito parlamentare piuttosto risicato.

5. Quanto alla vicenda greca, essa denota molto bene i limiti di quella che pare una sorta di graduatoria esistente tra le Nazioni più potenti e prestigiose, che occupano tradizionalmente una posizione autorevole nel consesso europeo (i primi posti di un’ipotetica classifica tra Paesi europei) e le Nazioni più deboli, che godono storicamente di minor credito e potere e che, per continuare nella metafora, occupano stabilmente la colonna destra di quella medesima classifica…
In particolare, ai fini di questo contributo, assumono rilievo due particolari momenti della tormentata storia della recente crisi economica e politica greca (per un riepilogo della quale v. l’informato Dossier rinvenibile in http://www.presseurop.eu/it/content/topic/787481-grecia-la-lunga-crisi): l’ipotesi di sottoporre, nel novembre 2011, a referendum popolare l’accordo dell’Eurozona del 27 ottobre 2011, e la successiva approvazione, il 12 febbraio 2012, da parte del Parlamento greco di un ulteriore, durissimo, piano di austerity redatto dal ministro delle finanze Venizelos, su richiesta della c.d. troika (Unione europea, Banca centrale europea e Fondo Monetario internazionale), piano la cui adozione ha rappresentato la condizione per la consegna alla Grecia di un nuovo prestito da 130 miliardi di euro.
Il referendum ha, nell’ordinamento costituzionale greco, caratteri sensibilmente diversi da quelli del referendum abrogativo dell’art. 75 della Costituzione italiana; esso viene indetto, infatti, dal Presidente della Repubblica su argomenti di cruciale rilievo nazionale (“crucial national matters”), sulla base di una risoluzione votata dal Parlamento a maggioranza assoluta, su proposta del Governo, oppure su leggi del Parlamento, riguardanti importanti materie sociali (“important social matters”), con eccezione della materia fiscale, su richiesta di una maggioranza qualificata del medesimo.
In tale contesto, quella del primo ministro Papandreou è parsa un po’ una mossa disperata, per uscire da una situazione molto difficile, di fronte a una profondissima spaccatura tra popolo e forze politiche di governo, tanto che il premier ha poi dovuto rinunciare alla sua proposta, ben sapendo anche di non avere probabilmente all’interno del suo stesso partito, il Pasok, il consenso sufficiente per sostenere la richiesta referendaria, a maggioranza assoluta. I giornali greci hanno parlato di un “ricatto” di Papandreou al popolo greco, messo di fronte all’alternativa tra il voto a favore dell’accordo europeo e il fallimento della Grecia e l’uscita dall’Euro (v. il Dossier citato poco sopra). Ma l’idea di ricorrere, come extrema ratio, al voto popolare, osteggiata dai Paesi europei più forti (Germania e Francia, in particolare) e dagli organismi “finanziatori” dell’aiuto alla Grecia costituisce in sé un germe fortissimo per la costruzione di un percorso che contribuisca a garantire una qualche capacità di decisione agli Stati, in nome del primato di quel potere sovrano, di cui si sta discutendo, di una sovranità radicata nella volontà popolare, secondo i canoni tipici dei sistemi democratici (un analogo significato sembra poter avere il referendum popolare che il governo irlandese intende svolgere sull’accordo denominato “fiscal compact”, siglato agli inizi di marzo 2012, da 25 Stati dell’Unione europea; altra questione delicatissima, sulla quale non si può qui prendere partito, è quella che riguarda la legittimità dei debiti pubblici contratti e dell’esistenza di un eventuale diritto all’insolvenza del debito e all’annullamento del debito, anche utilizzando meccanismi di c.d. audit del medesimo: ma sul problema v. il lavoro, pur eccessivamente sbilanciato sotto il profilo ideologico, di Chesnais 2011).

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