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La questione femminile a 150 anni e oltre dall’Unità d’Italia*

di - 7 Luglio 2012
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8. La condizione femminile – grazie al percorso legislativo e giurisdizionale degli ultimi sessanta anni; soprattutto, grazie alle battaglie che le donne hanno condotto nel primo e nel secondo Risorgimento ed hanno proseguito in quei sessanta anni – è probabilmente oggi in Italia equiparata a quella maschile, quanto meno in apparenza e nella forma; ma nella sostanza è ancora in grande difficoltà sotto molteplici profili.
Primo fra essi è il profilo della partecipazione e della rappresentanza politica. Sessanta anni di voto alle donne non hanno ancora colmato il vuoto di presenza, il tabù del potere, la conflittualità culturale e la marginalità – latente e non risolta, quando non conclamata – che induce taluno a parlare tuttora di cittadinanza incompiuta, nonostante la crescita della coscienza politica delle donne.
Un altro profilo fondamentale è rappresentato dalla dimensione e dai problemi del lavoro femminile; dalla possibilità di conciliare effettivamente i tempi e i ruoli dell’occupazione femminile e della maternità nonché della presenza familiare della donna; dalla realizzazione di una effettiva parità nonché di un riequilibrio fra la partecipazione della donna e quella dell’uomo alla vita familiare, ai suoi compiti e alle sue responsabilità. Quello dell’occupazione femminile è un percorso nel quale – una volta risolte la prima fase della tutela e la seconda della garanzia di parità di trattamento – occorre affrontare una terza fase, che promuova effettive politiche di pari opportunità.
Nella pratica, al di là della equiparazione normativa e formale fra uomo e donna, il perdurante divario di reddito tra i due – a parità di condizioni di lavoro, età e preparazione – è legato essenzialmente alla difficoltà di conciliare il lavoro con una vita personale che coinvolge attività di cura ai bambini e agli anziani, più di quanto – nei fatti – non accada agli uomini; nonché alla scarsità di donne e alla carenza di una loro adeguata rappresentatività nei centri decisionali e di potere.
Il lavoro femminile è certamente penalizzato fortemente dall’assenza di strutture di sostegno alla famiglia; dal suo impegno in settori “più femminili” e meno remunerativi; dalla tradizionale sottovalutazione dell’impegno femminile “interno” alla famiglia (specie della donna non lavoratrice, per scelta o per necessità), rispetto a quello “esterno” dell’uomo. Tanto che si ravvisa in questa situazione uno spreco di una potenziale risorsa di crescita: l’Italia “usa troppo” le donne in famiglia e gli uomini in azienda, nonostante la pari istruzione, capacità e attitudine. Sicchè, in luogo dell’incentivo rappresentato dalla detassazione delle imprese che assumono donne, taluno propone sgravi fiscali direttamente a favore di queste ultime: sia per evitare che le imprese continuino a percepire l’occupazione femminile come più costosa di quella maschile; sia per riequilibrare e distribuire equamente i compiti domestici fra donna e uomo.
Quanto questa esigenza sia tuttora attuale, è dimostrato da una recente indagine della CONSOB, che evidenzia il carattere minoritario della presenza femminile negli organi di amministrazione delle società quotate e nel mercato azionario. Una legge approvata dal Senato nel marzo scorso, stabilisce che entro il 2015 un terzo dei consigli di amministrazione degli enti pubblici e delle società quotate in borsa dovrà essere composto da donne; anche se il problema non riguarda soltanto gli organismi di vertice, ma anche – e prima ancora – la necessità di un contesto effettivo di parità con gli uomini all’interno delle aziende, per arrivare a ricoprire le posizioni manageriali e quelle di vertice.
D’altronde non occorre andar troppo lontano e nello specifico, per sottolineare quel carattere minoritario. Basta pensare che proprio nella Corte Costituzionale, su quindici componenti, la rappresentanza femminile è affidata tutt’ora ad una giudice soltanto e neppure da molto tempo (la terza, dall’inizio dell’attività della Corte nel 1956).
Il tema delle quote (rosa o azzurre, come con un certo cattivo gusto vengono definite) – nell’ambito politico–istituzionale come in quello economico–sociale – merita certamente una riflessione più ampia di quella con cui esse vengono di solito reclamate o rifiutate nel dibattito mediatico. Per rimuovere gli ostacoli – in primo luogo culturali – alla presenza e alla visibilità delle donne, può anche essere necessaria e temporaneamente opportuna una corsia preferenziale. A condizione, però, che essa non diventi una sorte di “misura di protezione ambientale” per una specie in difficoltà, ed un criterio di selezione di genere, sostitutivo del merito, della preparazione e delle capacità; ed a condizione che le pari opportunità e gli strumenti per raggiungere queste ultime divengano una realtà effettiva e concreta.
Famiglia, procreazione, organizzazione del lavoro e funzionamento dello stato sociale sono i punti di riferimento e al tempo stesso i nodi non ancora risolti dell’universo e della vita femminile; quei nodi richiedono impegni e scelte politiche secondo un modello che si proietta in una dimensione ben più ampia. Penso, ad esempio, al tema dell’immigrazione e della accoglienza, ai suoi riflessi sulla vita quotidiana; al tema dell’ambiente e dello sviluppo sostenibile; a quello della scuola e della formazione; al tema della pace. E ciò, senza voler guardare alla violenza contro le donne, tanto diffusa quanto confinata nel privato: dalle violenze domestiche alle molestie sessuali, agli stupri, alle violenze nei conflitti, alle mutilazioni genitali femminili, allo sfruttamento della prostituzione.
In quella dimensione, la centralità della persona è centralità dell’uomo ma anche della donna. E’ riconoscimento effettivo della pari dignità sociale fra di loro; della identità di soggettività e di partecipazione; della eguaglianza effettiva e non solo formale di diritti, di doveri e di responsabilità; della mutualità, dell’integrazione e dell’arricchimento reciproco – ma non già della sopraffazione – fra i modelli della cultura “maschile”, come la competizione e l’autoaffermazione, e quelli della cultura “femminile”, come la accoglienza e il pragmatismo.
Non è lontano il tempo in cui – con una affermazione tanto becera e roboante, quanto già da sola sufficiente a far pendere decisamente la bilancia a favore del femminile – si usava proclamare che la guerra sta all’uomo come la maternità sta alla donna. Questa, come altre amenità meno bellicose ma non meno avvilenti (che la donna piaccia, che taccia, e che stia a casa; oppure le tre di chiesa, casa, cucina, e così via), riassumono una giusta constatazione del pensiero femminista. Degli uomini piace il loro andare a caccia di grandezza e inventarsi imprese e avventure; ma fa paura quello che troppo spesso si lasciano dietro (rotoli di filo spinato, lattine, carcasse, odi, confini tracciati a caso… conflitti di cariche, carriere, promozioni). Il privilegio di essere donna dà una grandezza di altro tipo, che dalle cose ordinarie della vita arriva fino alle più straordinarie. E’ una “fortuna per l’umanità” che non si esaurisce nella procreazione, ma si sviluppa nella quotidianità; e rende ampiamente fondata e tuttora attuale la risposta di Angela Cingolani Guidi ai commenti maschilisti che accolsero l’entrata a Montecitorio delle ventuno donne costituenti nel 1946: “peggio di voi non potremmo fare”.

9. La condizione femminile, con le sue peculiarità, le sue responsabilità, le sue risorse, la sua ricchezza, non è più – non può e non deve più essere – una condizione di inferiorità, al più da proteggere e da parificare: ma è un’identità da riconoscere nella sua compiutezza e nella sua concretezza. Un modello nel quale la realizzazione piena dei valori di pari dignità sociale e di laicità – in cui si riassumono e si inverano i valori della nostra Costituzione – deve diventare una realtà concreta per ogni donna, per tutte le donne, nel loro rapporto con le istituzioni, la politica, l’economia, il futuro, la scienza, la cultura, la vita sociale, la dimensione religiosa (secondo l’augurio, che condivido, di Maria Chiaia, già presidente nazionale del CIF); ma anche, e prima ancora, nel loro rapporto con gli uomini e con se stesse: perché “se non ora, quando?
Centocinquanta anni di percorso unitario sono molti per l’Italia; ma sono pochi per le parole della Genesi (3, 16-19), antichissime e sempre attuali, sulla fatica del vivere e del morire dopo la caduta e la cacciata di Adamo ed Eva dal Paradiso terrestre. Il castigo è diverso, per genere: per l’uomo, la fatica del lavoro con il sudore della fronte; per la donna quella del parto con dolore.
Non è certo questa la sede per approfondire il tema della disparità di sanzione: se legata o meno (come qualcuno sosteneva, con un curioso senso di giustizia) a una graduazione di responsabilità: più grave per Eva, che avrebbe istigato; meno grave per Adamo, che avrebbe accolto l’istigazione. Certo è che – venuto meno (anche se non per tutte le donne, ma per quelle più fortunate) il dolore del parto, con il progresso tecnico e l’epidurale – al parto si sono comunque aggiunti anche la fatica e il sudore del lavoro, per la maggior parte di esse. Ma la lotta per l’eguaglianza e la pari dignità non ha cancellato la differenza legata alla “funzionalità femminile” e tutte le conseguenze negative (di condizionamenti e ingiustizie) derivanti da quest’ultima e dai suoi numerosi abusi e strumentalizzazioni nella storia.
Non è neppure questa la sede per approfondire il tema del rapporto che intercorre fra la pari dignità dell’uomo e della donna, e della differenza di genere cui si legano i rispettivi ruoli. Quel rapporto è stato esaminato nell’ottica ecclesiale dalla lettera apostolica del 1988 di Giovanni Paolo II,Mulieris Dignitatem, per attualizzare (finalmente!) l’insegnamento della Chiesa Cattolica sul ruolo della donna, dopo il Concilio Vaticano II; e, a proposito di quest’ultimo, mi piace pensare che se Raissa Oumançoff non fosse morta nel 1960, l’8 dicembre 1965 Paolo VI avrebbe consegnato ai coniugi Maritain – e non solo al filosofo e vedovo Jacques – il messaggio del Concilio agli intellettuali (prima della conversione, tra l’altro, Jacques e Raissa erano stati sposati “solo” civilmente per due anni).
Quel rapporto fra la pari dignità e la differenza di genere e quindi di ruoli, solleva tuttora qualche perplessità in chi ritiene che esso finisca per legittimare una subordinazione in terra della donna all’uomo, che non può venire compensata dalla pari dignità di entrambi in cielo, di fronte a Dio. Certo è che la differenza di genere fra i due, se da un lato non può giustificare la perdita dell’identità e della specificità femminile, in nome dell’eguaglianza, dall’altro lato non può neppure, al contrario, giustificare quella subordinazione, come per troppo tempo è stato in passato; e tuttora continua.
Siamo tutti consapevoli che è fortunato il paese il quale non abbia bisogno di eroi. A me sembra che sia altrettanto fortunato il paese il quale non abbia bisogno di esaltare perché donne eccezionali delle figure come quelle di Rita Levi Montalcini e di Maria Montessori: l’una, premio Nobel per la medicina grazie ad una serie di ricerche condotte dopo aver dovuto abbandonare patria, famiglia, affetti e lavoro perché ebrea; l’altra, prima osannata e poi bandita dal regime fascista, perché esempio di scienziato che ha rivoluzionato una visione “maschile” della pedagogia. Ma possa esaltarle (senza stupirsi) perché persone eccezionali.
E’ questo l’augurio migliore che posso rivolgere alle donne italiane ed al Centro Italiano Femminile, nel suo impegno al loro fianco.

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