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La questione femminile a 150 anni e oltre dall’Unità d’Italia*

di - 7 Luglio 2012
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Insomma, si finirebbe per sottovalutare la dimensione culturale, prima che giuridica, della questione femminile e dei suoi problemi. Di ciò offrono conferma le discussioni che hanno accompagnato ed accompagnano la necessità di una maggior presenza, responsabilità e visibilità delle donne nell’ambito politico-istituzionale ed in quello economico-sociale; nonché le discussioni sull’effettività delle pari opportunità e degli strumenti per realizzarle.
Cionondimeno, il percorso legislativo del sessantennio trascorso è stato ed è essenziale, anche se non è stato (e non poteva essere) né risolutivo, né esaustivo. Di esso, è giusto ricordare innanzitutto le leggi a tutela del lavoro femminile ed a garanzia della parità: sulla tutela fisica ed economica della lavoratrice madre (relatrice la prima presidente nazionale del CIF, Maria Federici, n. 860/1950); sul divieto di licenziamento delle lavoratrici, gestanti e puerpere (n. 986/1950) e per il matrimonio (n. 7/1963); sulle lavoratrici madri, anche a domicilio (n. 1204/1971); per l’assistenza all’infanzia, con l’istituzione di asili-nido pubblici (n. 1044/1971); sulla parità di trattamento fra uomini e donne in materia di lavoro (n. 903/1977); sull’estensione dell’indennità di maternità alle lavoratrici non dipendenti (n. 546/1987); sui congedi parentali, per il sostegno della maternità e paternità e per la maggior flessibilità sul lavoro (n. 53/2000). Rientrano in quest’ambito le leggi sulle azioni positive per le pari opportunità nel lavoro (n. 125/1991) e per l’imprenditoria femminile (n. 215/1992).
La dignità delle donne e la parità fra i coniugi trovano riconoscimento in una serie di leggi emblematiche e fondamentali per il nostro ordinamento: per l’abolizione della regolamentazione della prostituzione (legge n. 75/1958); per lo scioglimento del matrimonio (n. 898/1970); sulla riforma del diritto di famiglia (n. 151/1975); sulla tutela sociale della maternità e l’interruzione volontaria della gravidanza (n. 194/1978; senza naturalmente nascondere la mia e Vostra sottolineatura sulla prima parte, dedicata alla tutela sociale della maternità); per cancellare l’attenuante della causa d’onore per i delitti (n. 442/1981); per classificare la violenza sessuale come reato contro la persona e non contro la morale (n. 66/1996); contro la violenza in famiglia (n. 154/2001).
Sono importanti anche le leggi per la parità nell’ammissione agli uffici pubblici: sulla presenza delle donne nelle giurie popolari e nei tribunali minorili (n. 1441/1956); sull’accesso a tutte le carriere (n. 66/1966); sull’ammissione delle donne nella Polizia di Stato (n. 121/1981).
Infine, devono ricordarsi tre fondamentali leggi costituzionali del 2001: per la integrazione dell’art. 51 della Costituzione, sull’accesso ad uffici pubblici e cariche elettive in condizioni di eguaglianza e sulla promozione a tal fine delle pari opportunità fra uomini e donne; per l’estensione, nell’art. 117, del principio di parità fra i sessi alle leggi e alle cariche regionali; per l’inserimento negli statuti delle regioni speciali del principio di parità di accesso alle consultazioni elettorali.

6. Al percorso di riforma legislativa si affianca quello della giurisprudenza costituzionale, che si apre via via al riconoscimento della parità e della dignità femminile, pur muovendo da posizioni, a ben vedere, contraddittorie fra di loro.
Infatti, nel 1960 (con la sentenza n. 33) la Corte Costituzionale dichiara l’illegittimità costituzionale della normativa che escludeva le donne da tutti gli uffici pubblici implicanti «l’esercizio di diritti e potestà politiche», facendo cadere ogni preclusione al loro accesso ai pubblici impieghi e consentendo, così, in progresso di tempo, anche il loro ingresso in magistratura. E’ una sentenza con una portata davvero dirompente e determina la caduta progressiva di tutti i divieti, un tempo esistenti, per l’accesso delle donne ai vari lavori (pubblici e privati). Ovviamente, come ha di recente osservato anche Giorgio Napolitano (commemorando il cinquantesimo anniversario di quella sentenza), «c’era e c’è ancora un’altra barriera da superare, se non un tetto, per così dire una parete di cristallo che impedisce l’accesso a lavori, professioni, carriere, a sport e a stili di vita considerati, per tradizione, maschili»; ma questo cammino, ancora in corso, chissà quando sarebbe cominciato se non ci fosse stato quell’avvio!
Invece, nel 1961 (con la sentenza n. 64) la Corte ancora giustifica la diversità di trattamento tra l’adulterio del marito e quello della moglie: l’infedeltà di quest’ultima è punita anche se isolata, mentre quella del marito è punita solo in caso di relazione adulterina. Ad avviso della Corte, ciò sarebbe giustificato per la ritenuta maggior gravità della prima – secondo la realtà sociale dell’epoca – rispetto alle esigenze dell’unità familiare, richiamate dall’art. 29 della Costituzione quale limite all’eguaglianza morale e giuridica dei coniugi. Una simile conclusione viene per fortuna ribaltata nel 1968 (con la sentenza 126). La Corte osserva che le limitazioni ammesse dall’art. 29 al principio di eguaglianza – in vista dell’unità familiare – non spiegano né giustificano una simile discriminazione, lesiva della dignità della donna e costituente un ingiustificato e inaccettabile privilegio per il marito.
Sempre nell’ambito familiare (con la sentenza n. 87 del 1975) la Corte ritiene incostituzionale la perdita automatica della cittadinanza italiana da parte della donna – indipendentemente e contro la sua volontà – in caso di matrimonio con uno straniero e in applicazione dell’ordinamento del marito, in quanto espressione di una gravissima diseguaglianza morale, giuridica e politica fra i coniugi.
Infine la Corte segnala (con la sentenza n. 61 del 2006 e con l’ordinanza n. 145 del 2007) che l’attuale sistema di attribuzione del cognome è retaggio di una concezione patriarcale della famiglia, la quale affonda le proprie radici nel diritto di famiglia romanistico, e di una tramandata potestà maritale, non più coerente con i princìpi dell’ordinamento e con il valore costituzionale dell’uguaglianza tra uomo e donna.
Nell’ambito lavoristico (con le sentenze n. 123 del 1969 e sopratutto 137 del 1986) la Corte sottolinea come la parità giuridica sul lavoro riscatti la donna dal suo residuo stato di inferiorità sociale e giuridica rispetto all’uomo. Richiama la necessità della parità in tutte le fasi del rapporto di lavoro (accesso; attuazione; cessazione), alla luce anche degli artt. 4, 35, 38 e 3 della Costituzione, che integrano la previsione dell’art. 37. Tuttavia, pone in evidenza la necessità che le condizioni di lavoro, previste dalla legge per la donna, le consentano di svolgere anche le funzioni familiari e in specie quella di madre; e riconosce l’importanza di tutti gli interventi legislativi adottati a questo fine, nonché l’evoluzione della giurisprudenza del lavoro e dell’ordinamento comunitario.

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