Le liberalizzazioni tra libertà e responsabilità*

*Rielaborazione dell’intervento svolto al convegno “La liberalizzazione delle attività economiche”, Università degli Studi Roma TRE – Facoltà di Economia “Federico Caffè”, 24 febbraio 2012

Chi ha con sicura sapienza pensato il titolo della mia relazione ha certamente sopravvalutato le mie forze. Il tema delle liberalizzazioni appare invero presidiato a destra e a manca da due rappresentazioni titaniche dell’ordine dei valori, da due veri poli catalizzatori della stessa vicenda del nostro essere persone: liberi e responsabili.
In particolare, il primo di tali termini sospinge la nostra attenzione verso esperienze storiche e categorie dello spirito che rischiano di paralizzare gli sforzi di chi, da giurista e dunque da un angolo visuale che non può trascurare la dimensione tecnica della riflessione e -per giunta- in un arco di tempo infinitesimale rispetto a quello che sarebbe appena sufficiente, si appresta a cogliere le radici del fenomeno e le sue connessioni ineludibili con i concetti di libertà, di liberismo e di liberalismo. Una paralisi che evoca quella che colpiva il giovane Castorp quando si apprestava a svolgere un’attività di elevata fatica che sorpassasse la misura di ciò che era soltanto imposto dalla necessità e dalla quale era possibile uscire soltanto attraverso una intimità morale ed eroica ovvero attraverso una modesta e robusta vitalità.
Le indicate connessioni fra i concetti di libertà, liberismo e liberalismo, possono cogliersi consultando i più recenti e accreditati dizionari della lingua italiana nei quali l’attività di liberalizzazione viene descritta come attività diretta a rendere conforme ai principi del liberismo un’attività economica; e il liberismo come la corrente di pensiero economico che promuove il libero scambio, si dichiara ostile ad ogni forma di protezionismo e tende a ridurre al minimo l’intervento dello Stato nella vita economica; il liberalismo, infine, come quell’indirizzo, in economia, che vede nella libera manifestazione delle condotte dei soggetti economici individuali la condizione ottimale per il funzionamento di un sistema economico e riserva allo Stato il compito essenziale di salvaguardare tale condizione.
Non può sfuggire, ma è importante sottolinearlo, che liberalizzazione, liberismo e liberalismo condividono l’etimo del latino liber che indica l’essere libero, la condizione di libertà, l’assenza di qualsiasi costrizione.
Ed invero, se il termine liberalizzazione è relativamente recente e si impone nella cultura giuridica ed economica agli inizi degli anni ’90, il liberalismo ha radici antiche che non nascono sul terreno economico ma su quello politico. Il DNA del liberalismo, cioè l’idea di libertà che anima il progetto politico di una comunità consentirebbe probabilmente di fare giganteschi passi indietro nella storia e di risalire fino ad Aristotele e ai suoi scritti sull’etica ove sono custodite le radici prime dell’intimo collegamento fra economia e libertà nella organizzazione delle polis.
Ma vogliamo avviare qualche riflessione da un momento assai più recente, il XX secolo, all’inizio del quale viene affrontato dalla cultura ufficiale uno dei temi più nobili che abbiano impegnato il pensiero liberale, il rapporto cioè fra liberalismo e democrazia. Da queste iniziali premesse, attraverso alcuni passaggi che indicheremo brevemente, crediamo sia possibile giungere ad una idea della vicenda delle liberalizzazioni capace di restare fedele alle sue origini e di giustificare la sua collocazione fra gli estremi ideali della libertà e della responsabilità.
È in verità proprio il contesto dei rapporti fra libertà e democrazia e la loro evoluzione nell’Europa contemporanea che consentiranno di cogliere il significato profondo delle liberalizzazioni, liberandole (singolare il bisticcio delle parole che non è casuale) dalla angustia di una prospettiva meramente economicistica per consegnarle a programmi più complessi e più articolati di politica economica. Si tratta di programmi diretti a perseguire progetti e finalità di vera bonifica morale e sociale che certo non dimenticano il principio di uguaglianza, principio con il quale tanto il liberalismo quanto la democrazia dovranno fare i conti, e che sarà destinato invero a divenire baluardo di ogni moderna costituzione liberal-democratica.
Il ‘900, si sa, è stato il secolo che più di altri ha messo a durissima prova le democrazie dell’Occidente e tuttavia l’esperienza della democrazia era ormai iniziata e conosciuta, ed i valori collegati all’assetto democratico degli ordinamenti erano ormai patrimonio comune.
Fu Kelsen, pensatore ma anche giurista, filosofo e pubblicista di Praga ma cresciuto in Germania ove insegnò a lungo che, in polemica con i marxisti i quali opponevano alla democrazia fondata sul principio di maggioranza la democrazia fondata sulla eguaglianza sociale, ricostruì la democrazia sul concetto di libertà piuttosto che su quello di eguaglianza. L’eguaglianza è un valore soltanto all’interno di un sistema liberale. Ineccepibile l’argomento speso da Kelsen a sostegno del suo assunto: mentre è possibile l’esistenza di una società di eguali che non sia democratica (cioè libera), difficilmente può concepirsi una società democratica che non garantisca le libertà fondamentali dell’individuo. L’argomento trova conforto nella storia passata ma è profetico (siamo nel primo ventennio del secolo) rispetto alle inedite vicende politiche che muoveranno in Europa e altrove proprio dal materialismo marxista e che saranno costrette in futuro a confessare il loro gravissimo limite: la democrazia non può costruirsi in danno della libertà.
Si coglie e si custodisce in queste parole il nesso fondamentale fra diritti di libertà e ordine democratico.
Come si colloca all’interno di questo rapporto il ruolo della libertà economica? È questa funzionale al processo democratico così come lo sono, ad esempio, la libertà di pensiero, di parola, di stampa, quella religiosa o scientifica?
Su questo certamente non secondario aspetto della libertà, che è la libertà economica, e che costituisce il momento di collegamento fra liberalismo e liberismo, non è davvero possibile eludere il confronto e il vivace dialogo, ancora oggi di grande attualità, di cui furono protagonisti nel primo lustro del secolo passato Benedetto Croce e Luigi Einaudi.
Entrambi avevano formato il loro pensiero alla luce della teoria classica dell’economia che aveva trovato la prima occasione di organica sistemazione in Adam Smith e che aveva segnato il superamento delle dottrine mercantilistiche dirette a preservare il commercio e i traffici dalle “insidie” della libera concorrenza.

Smith considerava il liberismo come una declinazione del diritto naturale che la Provvidenza ha creato e l’uomo ha turbato: ad introdurre libertà nella produzione e nel commercio è l’elemento della divisione del lavoro sorretto dalla fiducia che l’individuo, facendo scelte libere, consegua i maggiori vantaggi per se stesso e per la collettività.
Il moderno pensiero economico riconosce ad Adam Smith un ruolo davvero fondamentale, tanto fondamentale che le idee di Smith, rielaborate poi da Ricardo, fornirono alimento allo stesso marxismo: fu infatti Smith ad introdurre nel pensiero economico la teoria del valore-lavoro (le merci prodotte sono in funzione del tempo impiegato) e pertanto a creare le premesse per la formulazione delle teorie socialiste e comuniste.
In questo humus culturale, il dialogo fra Croce ed Einaudi, pur caricandosi a volte di accenti ideologici, non perde di concretezza e conserva oggi integra tutta la sua attualità.
Secondo Croce, per il trionfo dell’idea liberale gli assetti economici sociali hanno scarsa importanza; la libertà dello spirito sopravvive anche nel sistema politico più opprimente che non può impedire la libertà di pensiero dell’uomo. L’idea liberale ha per Croce matrice religiosa e solo muovendo dalla libertà come esigenza morale è possibile interpretare la storia nella quale questa esigenza si è affermata creando nel tempo le diverse istituzioni.
Per Einaudi, al contrario, la libertà politica non può non essere accompagnata dalla libertà economica. Occorre affrancare l’uomo dal bisogno perché egli sia veramente libero nella vita civile e politica. Se dunque per Croce la libertà ha un carattere metastorico e può affermarsi qualunque sia l’ordinamento economico, per Einaudi il rapporto fra liberalismo e ordinamento economico non è affatto estrinseco ma profondamente organico.
Sembra a Einaudi che nel mondo contemporaneo due sistemi economici tra loro molto diversi nei presupposti ma simili negli esiti, conducano in egual misura alla negazione della libertà umana: il comunismo e il capitalismo monopolistico: entrambi fatali alla libertà.
Il liberalismo, calato nella concretezza della esperienza storica, “materializza” dunque il nesso fra libertà, liberismo e democrazia e, nella delicata opera di ricostruzione di questo nesso, introduce il profilo della uguaglianza non formale ma sostanziale, dunque democratica e ad un tempo liberale. La vicenda del diritto di proprietà in questo processo è determinante e nota, ma ha da tempo esaurito la sua carica eversiva.
Invero il diritto di proprietà, che all’epoca della codificazione francese post-rivoluzionaria aveva assolto al compito fondamentale di riconsegnare all’individuo la sua dimensione di libertà (il cittadino è libero in quanto finalmente proprietario in un società di eguali perché proprietari; ed è ancora libero perché tale proprietà negozia attraverso il contratto e trasmette attraverso il testamento), il solo diritto di proprietà, il “terribile diritto” che ha ormai smarrito gran parte della sua portata discriminante, non è più elemento decisivo e sufficiente ad assicurare libertà ed eguaglianza. Invero, la realizzazione di una società libera resta affidata alla circostanza che possa godere della libertà non solo chi possiede ma anche chi non ha niente di suo: occorre cioè che sia manifesto e diffuso il controllo delle risorse, che l’individuo ritrovi, indipendentemente dal diritto dominicale, in altre e nuove forme di appartenenza dei beni, di titolarità delle situazioni, di godimento dei diritti la sua modalità di partecipazione sociale.
L’uguaglianza si affaccia sulla scena del liberalismo non per garantire a tutti gli individui la stessa posizione (variabile in relazione alle capacità e alle conoscenze personali), ma per assicurare medesime norme formali che fissino regole uguali per tutti: il liberalismo si accontenta cioè di esigere garanzie per così dire procedurali (almeno sotto questo aspetto, salvo cioè -come vedremo- il contenuto delle singole scelte normative e politiche che devono rispondere a principi liberali), ma pretende che le regole del gioco siano comuni, conosciute ed eque.
Mi sembra così, sia pure per approssimazione, tracciato l’approdo del liberalismo alla democrazia, segnalato uno dei momenti fondamentali del passaggio da una società puramente liberista ad una società liberale e quindi ad una società liberaldemocratica.
Invero, allorché il liberalismo ripudia il concetto della libertà come privilegio o monopolio di pochi, per assumere quello di una libertà come diritto comune che postula l’estensione dei diritti individuali a tutti i membri della società, esso è già sulla strada della democrazia.
Eppure liberalismo e democrazia non si fondono in una identificazione completa.
Nella democrazia vi è una forte componente dell’elemento collettivo a scapito di quello individuale: l’evoluzione dello Stato economico-sociale del 900 rafforza questa prospettiva: le grandi organizzazioni (sindacati, partiti, gruppi economici) favoriscono il diffondersi di una mentalità assistenziale che dà a tutti il diritto a tutto, indipendentemente dai meriti, per cui lo Stato viene progressivamente concepito come il supremo elargitore.
Il liberalismo, come aveva preso le distanze dalla eguaglianza – terreno insufficiente perché la democrazia fosse assicurata – prende ora le distanze dalla democrazia formale e si rifiuta di appiattirsi sul funzionamento della regola democratica. Questo spiega perché per il democratico la maggioranza è in grado di giustificare ogni scelta, mentre il liberale si sforza di persuadere la maggioranza ad istanze liberali e finisce per delegittimare una classe politica che pur vantando il rispetto del metodo delle decisioni abbia adottato risoluzioni i cui contenuti non siano informati a principi liberali. Il pensiero corre, inevitabilmente, ad esperienze politiche recenti perché quanto osservato può spiegare il conflitto insorto fra chi ha ritenuto di poter rinvenire la legittimità delle proprie scelte nel funzionamento della regola democratica e chi, invece, tale legittimità ha pensato di poter negare perché i contenuti di quelle scelte, sebbene adottate da una maggioranza politica regolarmente costituita, non rispondevano (o meglio si assumeva non rispondessero) a requisiti di reale liberalismo ovvero se ne denunciava la non conformità a principi costituzionali di natura formale o materiale.

Il liberalismo appare dunque funzionale alla realizzazione di una democrazia sostanziale e resiste al tentativo di essere risolto nella semplice regola di democrazia formale; e tuttavia non riesce, e forse neanche potrebbe, sopprimere ogni funzione dello Stato. Sebbene l’intero secolo passato appaia segnato, sia pure con accenti diversi a seconda dei periodi storici in cui si articola, da un gigantesco processo di dilatazione dello Stato che ha letteralmente invaso la struttura delle società moderne, burocratizzando e deformando non solo i rapporti sociali ed economici ma anche quelli politici,  nell’ultimo quarto di secolo questa tendenza si inverte e lascia il posto ad una politica di drastica riduzione (non certo di totale eliminazione) della enorme quantità delle regolamentazioni politico-statuali: è l’era della deregulation e delle semplificazioni.
È interessante osservare che la tendenza istituzionalizzatrice, la quale conferma una forte presenza dello Stato nella regolamentazione dei rapporti e delle situazioni giuridiche, si afferma esattamente quando lo Stato moderno si trasforma in Stato Sociale; e proprio quando accade l’inverso, ai nostri giorni, quando cioè quest’ultimo comincia a dare segni di crisi profonda, prende avvio l’opposta tendenza alla destatalizzazione.
Ma questo non deve stupire. È noto che le istituzioni e gli status somministrano identità, offrono all’individuo il rassicurante orizzonte della regola iuris; quando lo Stato arretra, quando lo status lascia spazio allo strumento negoziale, l’individuo è più libero, ma più solo, più autonomo ma più indifeso, meno assistito ma più responsabile.
La crisi dello Stato sociale è oggi sotto gli occhi di tutti da tempo, e forse in Italia non si è ancora a pieno manifestata: le incertezze individuali delle nuove generazioni dominano gli orizzonti collettivi.
Arretra lo Stato e avanza l’individuo, sospinto dalle leggi a ricercare nel cuore del liberalismo democratico la ragione e la forza per la partecipazione ad un progetto di crescita sociale ed economica, motivo e ragione, per dirla come un raffinato giurista di oggi appena celebrato, Paolo Grossi, per la condivisione solidale di un progetto di salvezza delle nostre società.
Le liberalizzazioni oggi non possono avere un senso molto lontano da quella storica radice di libertà e di democrazia sostanziale che ha consentito di conservare integri fino ai nostri giorni i valori del liberalismo e del liberismo economico.
Quando in Italia si comincia a liberalizzare si parla un linguaggio europeo. L’Europa nasce, sin dal Trattato istitutivo sul finire degli anni ’50, su progetti informati a istanze liberali. Le prime liberalizzazioni vengono accompagnate da misure di deregulation o di privatizzazione: ma né le une né le altre costituiscono di per sé attività liberalizzatrice. Certo, la liberalizzazione, come processo che restituisce all’individuo una libertà prima avocata dallo Stato, presuppone una deregulation cioè una eliminazione o una riduzione di quelle disposizioni che garantivano privilegi, monopoli, diritti speciali, protezionismi; ma non richiede, come già osservato e come ancora vedremo, la eliminazione di ogni regola; può prevedere privatizzazioni, misure cioè atte a trasformare enti e imprese pubbliche in società per azioni disciplinate dal diritto privato, ma è compatibile con la esistenza di enti pubblici economici e con la gestione pubblica di talune attività essenziali per la collettività.
La liberalizzazione infatti non è assenza di regole, semmai codificazione di principi e di direttive liberali che disegnano i contorni entro i quali le libertà individuali possono esercitarsi. Esse convivono con la permanenza di un sistema di regole e di controlli necessari proprio per garantire la concorrenza degli operatori economici, l’accesso al mercato, la qualità dei prodotti e dei servizi, la formazione di un prezzo giusto, la tutela del consumatore ed in specie della sua libertà di scelta che – come ormai è riconosciuto – è parte integrante della tutela della concorrenza.
Il Trattato di Roma disegna la formazione di un mercato unico attraverso la individuazione di tre strumenti normativi. Con il primo di tali strumenti vengono disciplinate le c.d. quattro libertà di circolazione: l’art. 14.2 stabilisce che il mercato europeo comporta uno spazio senza frontiere interne nel quale è assicurata la libera circolazione delle merci, delle persone, dei servizi e dei capitali; gli artt. da 43 a 50 garantiscono il diritto di stabilimento dei cittadini di uno Stato membro nel territorio dell’Unione e la libertà di prestazione di servizi ai cittadini comunitari stabiliti all’interno dell’Unione stessa.
Con il secondo di tali strumenti normativi viene disciplinato il mercato e vengono sanzionate le intese restrittive della concorrenza, gli abusi di posizione dominante a cui si è aggiunta di recente la repressione delle pratiche commerciali scorrette.
Con il terzo strumento si stabilisce il divieto di aiuti di Stato (art. 87), sul quale la Corte di Giustizia vigila con particolare attenzione.
È ancora l’Unione europea, sempre intorno agli anni ’90, a dare impulso alla liberalizzazione dei servizi pubblici, settore in cui prevalevano in tutti gli Stati membri mercati monopolistici spesso gestiti dallo Stato stesso e non ancora pienamente riconvertiti ad un mercato concorrenziale.
La necessità di regole che accompagnano il processo di liberalizzazione è inoltre confermata dalla istituzione di organismi di garanzia indipendenti dal potere politico, sorti con scopi di controllo e di vigilanza sulle attività economiche e di garanzia del rispetto delle regole, dotati di poteri precettivi di regolazione e sanzionatori, concepiti anche in funzione di presidio per consumatori e utenti (di tale duplice tutela è testimonianza quell’indirizzo giurisprudenziale che assegna all’illecito concorrenziale natura plurioffensiva): si tratta, come è noto, dell’Antitrust in particolare, ma anche del Garante per le comunicazioni, dell’Autorità per l’energia elettrica e per il gas, del garante per i servizi idrici, nonché di quella istituenda sui trasporti che il decreto legge sulle liberalizzazioni ha previsto nell’art. 36.

Ma le regole diminuiscono e i limiti si riducono nell’aspettativa di avviare nuove attività economiche, di favorire l’ingresso nel mercato di nuovi operatori, di realizzare in ogni settore quella concorrenza libera da vincoli che giovi al mercato e ai consumatori, con la fiducia, forse troppo cieca, che il mercato sappia selezionare i più virtuosi e realizzare il prezzo migliore.
Meno regole significa però anche più responsabilità: la storia ci permette di osservare che il tasso di regolazione normativa delle attività sociali è direttamente proporzionale al coefficiente di illegalità che una comunità esprime e alla propensione dei suoi membri a porre in essere condotte illecite; e che lo Stato, quando arretra e restituisce al cittadino l’esercizio della sua libertà politica ed economica, necessariamente consegna ed affida al suo foro interno l’osservanza dei precetti e delle regole di giustizia. Il contrappeso della libertà economica, che anima le liberalizzazioni, non è costituito solo dalla responsabilità, intesa come imputazione delle conseguenze della propria condotta, il che soddisfa naturalmente la legittima domanda sociale di legalità, ma soprattutto da una maggiore responsabilizzazione che conforma le condotte individuali verso una più elevata coscienza del far bene e dell’essere onesti, al fine di poter sopravvivere nel comune mercato, in difetto della rassicurante copertura formale delle regole.
Le liberalizzazioni, prepotentemente sostenute nel corso dell’ultimo cinquantennio, progressivamente penetrate nell’azione politica europea e nazionale e nella coscienza collettiva, giungono agli albori del XXI secolo cariche della loro eredità liberale e arricchite di contenuti che valorizzano la dimensione personalistica degli utenti e dei consumatori, il loro essere anche, e forse in primo luogo, cittadini  e persone.
Questa rappresentazione dei rapporti fra liberalismo e liberalizzazioni mi sembra sia rintracciabile nell’art. 1 del recente decreto legge, che prende le mosse proprio dall’art. 41 e cioè da una norma che disciplina l’attività economica senza trascurare l’esigenza di tutelare la dignità e la libertà umane dagli effetti distorsivi che possono conseguire dall’esercizio di quella attività. L’art. 41 esprime in fondo un buon compromesso fra stato sociale ed economia di mercato e credo che saggiamente non siano stati coltivati, in questa importante occasione legislativa, gli avventurosi progetti di abrogazione o di riformulazione della norma sorti sotto il precedente governo.
Non mi pare affatto – come pure è stato sostenuto- che la via scelta dal legislatore sia quella di una formale conferma della norma e di una strisciante revisione costituzionale. Mi pare che questa affermazione sia il frutto di una lettura della norma, se non preconcetta certamente ingenerosa. Certo, ci rendiamo ben conto dei limiti dell’art. 1 e forse saremo tra i pochi disposti ad assumerne la difesa e a sforzarsi di leggere l’art.1 come operazione non ideologica ma rispettosa della dignità della persona e come disposizione che conferma e ad un tempo arricchisce la portata normativa dell’art. 41 Cost.
Non v’è dubbio che in tale norma la libertà di iniziativa economica viene declinata in base al principio di libera concorrenza: e questo certo non è poco e può davvero spostare quel sottile ma forse non immobile confine fra libertà dell’iniziativa e utilità sociale. Anzi, a ben vedere, è forse piuttosto l’utilità sociale, l’altro estremo del segmento che insieme alla libertà misura la legittimità dell’iniziativa, a vestirsi di un colore nuovo, quello dell’ordine giuridico del mercato fondato sulla libera concorrenza, nella convinzione non improvvisata ma che viene dal legislatore europeo, che quell’ordine di mercato sia il più funzionale per la tutela della libertà del singolo e per il benessere della collettività. È anzi buona cosa che, come vedremo, tra i limiti intangibili che il mercato deve rispettare vengono elencati e codificati, sulla scia di quanto già afferma l’art. 41, quelli che pertengono ai valori della persona e ai diritti fondamentali, certo irriducibili ad una logica di mercato.
Le indicazioni contenute nell’art. 1 sono generiche, certo, ma non arbitrarie, seguono il solco tracciato dalla lunga storia dell’art. 41, ed è difficile negare che esse siano lì a testimoniare, incrementare e valorizzare con ulteriori specifiche previsioni le informazioni normative contenute nella norma costituzionale. Cosicché la norma di cui all’art. 1 del decreto in esame dovrebbe essere apprezzata come contributo costruttivo nella direzione di una valorizzazione dell’individuo sia all’atto dell’ingresso nel mercato, come soggetto attivo, sia nel momento in cui egli è destinatario della azione economica ed è quindi soggetto passivo: questi momenti, infatti, sono inscindibili, sono costitutivi della relazione di mercato che si realizza proprio intorno alla libertà d’iniziativa non dissociata dalla tutela della dignità personale.
Vediamo gli spunti che proprio nell’art. 1 possono cogliersi nella direzione indicata.
Tale norma, dopo aver genericamente sancito l’abrogazione di tutte quelle disposizioni limitative dell’attività economica e della libera concorrenza che non siano giustificate da un interesse generale, costituzionalmente rilevante e compatibile con l’ordinamento comunitario; e di tutte le altre disposizioni che pongono divieti e restrizioni alle attività economiche sproporzionati, inadeguati o irragionevoli rispetto alle finalità pubbliche perseguite, ovvero ancora alterino condizioni di piena concorrenza, lascia certo in eredità al giudice o al legislatore, a seconda dei casi, il difficile compito di individuare in relazione ai parametri descritti (che sono tutti nel concreto da definire), le specifiche norme che debbono ritenersi decadute. Ad un tempo l’art. 1 impone una interpretazione restrittiva e tassativa di quei divieti, restrizioni, oneri o condizioni che limitano l’accesso e l’esercizio delle attività economiche e che devono ritenersi giustificati in quanto non in contrasto con i criteri sopra indicati.
Ora è importante sottolineare, come poc’anzi accennato, che tale interpretazione restrittiva, che governa quelle disposizioni limitative delle attività economiche fatte salve dal decreto perché -si ripete- compatibili e coerenti con parametri di costituzionalità, ragionevolezza e proporzionalità, lascia impregiudicati quei limiti e quei vincoli all’attività economica che siano giustificati dalla salvaguardia della salute, dell’ambiente, del paesaggio, del patrimonio artistico e culturale, della sicurezza, della libertà e della dignità umana, confermandone la assoluta piena legittimità.

Ebbene sembra evidente che tali legittimi limiti, posti a tutela in particolare della sicurezza, della libertà e della dignità umana, che pur nella loro immediata applicazione si riferiscono ai soggetti destinatari degli effetti della iniziativa economica, necessariamente configurano la stessa iniziativa economica e dunque definiscono la condotta degli operatori e le relative iniziative economiche, promuovendo una considerazione unitaria della relazione intersoggettiva di mercato.
In questo contesto, inaugurato dall’art. 1, si colloca la disciplina dei singoli settori dell’economia pervasi dalla vicenda liberalizzatrice e disciplinati nelle successive norme del decreto, sulle quali non mi soffermo e che mi limito ad elencare, perché saranno certamente oggetto delle relazioni che seguiranno: dai servizi pubblici locali, ai servizi bancari e assicurativi, dalle professioni regolamentate (in questa prospettiva  mi paiono significative le disposizioni sul tirocinio dei giovani professionisti), alla vendita dei farmaci o dei quotidiani, alla disciplina delle reti infrastrutturali, rispetto alle quali la concorrenza e la liberalizzazione non possono che attuarsi attraverso la libertà di accesso alla rete da parte di nuovi operatori.
Mi avvio al termine con qualche considerazione finale ma non conclusiva.
Il legame fra libertà e liberalizzazioni nel contesto più ampio che coniuga liberalismo e democrazia, di cui si è cercato di indicare le radici storiche e la loro eco nel recente decreto, permette  a mio avviso di affrancare l’avventura della liberalizzazione da una dimensione meramente economicistica per consegnarla invece al territorio della promozione delle istanze di libertà e di uguaglianza: la liberalizzazione diviene così occasione per bonificare i mercati da ogni forma di protezionismo e di privilegio e riconsegnare all’individuo nuove opportunità di ingresso nei mercati, reali forme di competizione civile e sicure garanzie per una allocazione virtuosa dei beni e dei meriti personali: una allocazione non distorta che non può non transitare attraverso i percorsi liberali di una uguaglianza sostanziale.
La liberalizzazione sembra davvero andare al di là della sua funzione di promozione della proprietà e della produttività del lavoro per divenire occasione per edificare nuovi costumi, nuove strategie di educazione della persona idonee a creare le condizioni per il migliore esercizio delle libertà fondamentali dotate, per così dire, di un esponente di mercato: la libertà di orientarsi consapevolmente, di preferire e decidere, non solo fra i prodotti di consumo o fra i servizi, ma fra i fondamentali diritti di scelta del cittadino, dal lavoro in ogni sua forma, alle cure mediche, alla scuola, territori nei quali in particolare l’etica riprende il suo posto accanto allo strictum ius.
Le liberalizzazioni caricate di questi oneri, che ne arricchiscono la suddetta dimensione economicistica e attraverso la libertà promuovono l’eguaglianza sociale, comportano -come si è accennato- un forte incremento di responsabilità individuale. La cessazione di ogni rassicurante protezionismo corporativo, che può far bene o male ma si sa in anticipo quello che fa, diventa fatica personale, impegno dall’esito incerto, dura sorte individuale e beneficio per i più, favorisce l’uguaglianza delle condizioni e premia il merito di ogni sforzo, imprigionato nella cruda, spietata e talvolta ingrata tabella dei risultati. La liberalizzazione sposta il punto di equilibrio fra collettività ed individuo, respinge il cittadino dal tranquillizzante e confortante riparo dello Stato che assiste e garantisce, e lo consegna all’incerto territorio del mercato, con le sue leggi assolute, dure ma -dobbiamo confidare- salutari. Il cittadino finisce per trovare la sua condizione di sopravvivenza nel regime di autoresponsabilità che, come si è accennato, non è solo né tanto regola delle conseguenze e delle sanzioni, ma monito di una coscienza e di una consapevolezza rinnovate.
È il tempo della libertà e della responsabilità. È tempo di disegnare una società che sia capace di abbandonare clientelismo, nepotismo, strisciante corruzione, manipolazione delle regole, e che abbia il coraggio di dichiararsi realmente fondata sui valori condivisi di una civiltà dell’etica: sul volto pulito della vita, sul quale soffia da sempre l’antico forte vento della libertà e, oggi, l’effimera brezza delle liberalizzazioni.

Bibliografia generale