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Le liberalizzazioni tra libertà e responsabilità*

di - 5 Giugno 2012
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Smith considerava il liberismo come una declinazione del diritto naturale che la Provvidenza ha creato e l’uomo ha turbato: ad introdurre libertà nella produzione e nel commercio è l’elemento della divisione del lavoro sorretto dalla fiducia che l’individuo, facendo scelte libere, consegua i maggiori vantaggi per se stesso e per la collettività.
Il moderno pensiero economico riconosce ad Adam Smith un ruolo davvero fondamentale, tanto fondamentale che le idee di Smith, rielaborate poi da Ricardo, fornirono alimento allo stesso marxismo: fu infatti Smith ad introdurre nel pensiero economico la teoria del valore-lavoro (le merci prodotte sono in funzione del tempo impiegato) e pertanto a creare le premesse per la formulazione delle teorie socialiste e comuniste.
In questo humus culturale, il dialogo fra Croce ed Einaudi, pur caricandosi a volte di accenti ideologici, non perde di concretezza e conserva oggi integra tutta la sua attualità.
Secondo Croce, per il trionfo dell’idea liberale gli assetti economici sociali hanno scarsa importanza; la libertà dello spirito sopravvive anche nel sistema politico più opprimente che non può impedire la libertà di pensiero dell’uomo. L’idea liberale ha per Croce matrice religiosa e solo muovendo dalla libertà come esigenza morale è possibile interpretare la storia nella quale questa esigenza si è affermata creando nel tempo le diverse istituzioni.
Per Einaudi, al contrario, la libertà politica non può non essere accompagnata dalla libertà economica. Occorre affrancare l’uomo dal bisogno perché egli sia veramente libero nella vita civile e politica. Se dunque per Croce la libertà ha un carattere metastorico e può affermarsi qualunque sia l’ordinamento economico, per Einaudi il rapporto fra liberalismo e ordinamento economico non è affatto estrinseco ma profondamente organico.
Sembra a Einaudi che nel mondo contemporaneo due sistemi economici tra loro molto diversi nei presupposti ma simili negli esiti, conducano in egual misura alla negazione della libertà umana: il comunismo e il capitalismo monopolistico: entrambi fatali alla libertà.
Il liberalismo, calato nella concretezza della esperienza storica, “materializza” dunque il nesso fra libertà, liberismo e democrazia e, nella delicata opera di ricostruzione di questo nesso, introduce il profilo della uguaglianza non formale ma sostanziale, dunque democratica e ad un tempo liberale. La vicenda del diritto di proprietà in questo processo è determinante e nota, ma ha da tempo esaurito la sua carica eversiva.
Invero il diritto di proprietà, che all’epoca della codificazione francese post-rivoluzionaria aveva assolto al compito fondamentale di riconsegnare all’individuo la sua dimensione di libertà (il cittadino è libero in quanto finalmente proprietario in un società di eguali perché proprietari; ed è ancora libero perché tale proprietà negozia attraverso il contratto e trasmette attraverso il testamento), il solo diritto di proprietà, il “terribile diritto” che ha ormai smarrito gran parte della sua portata discriminante, non è più elemento decisivo e sufficiente ad assicurare libertà ed eguaglianza. Invero, la realizzazione di una società libera resta affidata alla circostanza che possa godere della libertà non solo chi possiede ma anche chi non ha niente di suo: occorre cioè che sia manifesto e diffuso il controllo delle risorse, che l’individuo ritrovi, indipendentemente dal diritto dominicale, in altre e nuove forme di appartenenza dei beni, di titolarità delle situazioni, di godimento dei diritti la sua modalità di partecipazione sociale.
L’uguaglianza si affaccia sulla scena del liberalismo non per garantire a tutti gli individui la stessa posizione (variabile in relazione alle capacità e alle conoscenze personali), ma per assicurare medesime norme formali che fissino regole uguali per tutti: il liberalismo si accontenta cioè di esigere garanzie per così dire procedurali (almeno sotto questo aspetto, salvo cioè -come vedremo- il contenuto delle singole scelte normative e politiche che devono rispondere a principi liberali), ma pretende che le regole del gioco siano comuni, conosciute ed eque.
Mi sembra così, sia pure per approssimazione, tracciato l’approdo del liberalismo alla democrazia, segnalato uno dei momenti fondamentali del passaggio da una società puramente liberista ad una società liberale e quindi ad una società liberaldemocratica.
Invero, allorché il liberalismo ripudia il concetto della libertà come privilegio o monopolio di pochi, per assumere quello di una libertà come diritto comune che postula l’estensione dei diritti individuali a tutti i membri della società, esso è già sulla strada della democrazia.
Eppure liberalismo e democrazia non si fondono in una identificazione completa.
Nella democrazia vi è una forte componente dell’elemento collettivo a scapito di quello individuale: l’evoluzione dello Stato economico-sociale del 900 rafforza questa prospettiva: le grandi organizzazioni (sindacati, partiti, gruppi economici) favoriscono il diffondersi di una mentalità assistenziale che dà a tutti il diritto a tutto, indipendentemente dai meriti, per cui lo Stato viene progressivamente concepito come il supremo elargitore.
Il liberalismo, come aveva preso le distanze dalla eguaglianza – terreno insufficiente perché la democrazia fosse assicurata – prende ora le distanze dalla democrazia formale e si rifiuta di appiattirsi sul funzionamento della regola democratica. Questo spiega perché per il democratico la maggioranza è in grado di giustificare ogni scelta, mentre il liberale si sforza di persuadere la maggioranza ad istanze liberali e finisce per delegittimare una classe politica che pur vantando il rispetto del metodo delle decisioni abbia adottato risoluzioni i cui contenuti non siano informati a principi liberali. Il pensiero corre, inevitabilmente, ad esperienze politiche recenti perché quanto osservato può spiegare il conflitto insorto fra chi ha ritenuto di poter rinvenire la legittimità delle proprie scelte nel funzionamento della regola democratica e chi, invece, tale legittimità ha pensato di poter negare perché i contenuti di quelle scelte, sebbene adottate da una maggioranza politica regolarmente costituita, non rispondevano (o meglio si assumeva non rispondessero) a requisiti di reale liberalismo ovvero se ne denunciava la non conformità a principi costituzionali di natura formale o materiale.

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