La crescita: risorse, efficienza, innovazione, ma non solo*

1. Fra economia e storia
Con Schumpeter – economista, ma anche sociologo – la teoria della dinamica economica aveva valorizzato l’innovazione produttiva, che solo la società borghese si è dimostrata capace di esprimere. In questa società la funzione imprenditoriale interna all’azienda interagisce con la propensione al profitto e al rischio dei capitalisti e con la propensione a lucrare un interesse dei banchieri. Ne discende quello che Schumpeter chiamò sviluppo economico: cambiamento radicale e progresso discontinuo, diverso da quella che egli chiamò “mera crescita della popolazione e della ricchezza”[1].
Keynes nel 1936[2] ha fatto chiarezza sul rapporto tra risparmio e investimento, cruciale per la domanda effettiva nel breve termine, ma anche per l’accumulazione delle risorse di capitale, il progresso tecnico, l’espansione della capacità produttiva nel lungo periodo.
Dopo Keynes, i contributi di Harrod, Domar, Kaldor, Solow, seppure fra profonde differenze teoriche[3], sono sfociati nella riconduzione dello sviluppo a una triade di fattori, strettamente economici: Risorse, Efficienza, Innovazione (REI). Le analisi empiriche, in particolare nel filone neoclassico post-Solow, hanno confermato il rilievo del terzo elemento della triade, il progresso tecnico[4]. Queste analisi hanno tuttavia allentato il nesso fra accumulazione, innovazione e assetti socio-istituzionali del sistema. Una conseguenza è consistita nel trattare il progresso tecnico come “esogeno”. In alternativa, si è tentato di spiegarlo, ma – come nelle teorie della “crescita endogena” – ricorrendo a variabili pur esse d’ordine economico: “esternalità” positive rispetto alla singola impresa; capitale umano; nuova conoscenza; apprendimento; R&D e diffusione dei loro effetti; spesa pubblica produttiva; finanza[5].
Gli storici dell’economia hanno invece esteso la ricerca alle forze metaeconomiche influenti sullo sviluppo. Hanno preso le mosse dalla constatazione che dal Settecento, con la moderna economia di mercato capitalistica, la ricchezza costruita sul lavoro, non più frutto della guerra e dell’esproprio, si è non a caso affermata prima che altrove in Europa e nelle propaggini occidentali dell’Europa. Nel breve volgere di questi secoli un insieme di mutamenti culturali, istituzionali, politici avrebbe in Occidente espresso le idee, la tecnologia, le sollecitazioni a lavorare, risparmiare, investire, intraprendere[6].
Douglass North ha posto l’accento sulle Istituzioni[7]. Il principio di legalità, la tutela della proprietà privata, il rispetto volontario o per via giurisdizionale dei contratti, l’adempimento della responsabilità civile avrebbero costituito dagli albori dell’Ottocento i cardini della imprenditorialità, del libero mercato, della mobilità sociale. Per North, la Rivoluzione Industriale “venne resa possibile dall’accumulo delle conoscenze (…) e dall’emergere, nell’Europa Occidentale, di un insieme di diritti di proprietà che hanno incentivato la espansione economica”[8].
L’emergere delle istituzioni più consone al mercato ha tuttavia incontrato ostacoli. La crescita economica si è fatta rapida solo allorché quegli ostacoli sono stati rimossi. Secondo tale orientamento interpretativo i principali impedimenti sono stati frapposti dalla Politica: “Le grandi società pre-moderne sono state sempre governate e sfruttate da gruppi ristretti (…) Una qualche forma di controllo politico –‘lo stato’ – non è quasi mai mancata. Di rado, tuttavia, è risultata positiva e solo occasionalmente si è volta a esprimere, o a sostenere, il progresso economico”[9]. Gli interessi di pochi avrebbero a lungo negato al meccanismo del mercato di sprigionare la sua attitudine a spezzare la catena malthusiana che da millenni inchiodava il mondo alla povertà, a un reddito pro capite medio annuo sui 500 dollari di oggi[10].
Il “miracolo” della storia europea sarebbe allora consistito nel restringere l’arbitrio del potere politico e nel permettere al mercato di sfoggiare la propria magia produttivistica. Resta affidato, quel miracolo, alla eventualità che i governanti introducano e curino istituzioni orientate al mercato, vuoi perché costretti da gruppi sociali pro-mercato, vuoi perché convintisi che lo sviluppo economico è anche nel loro interesse. Secondo questo indirizzo storiografico la Rivoluzione Industriale inglese e la primazia economica poi conquistata dagli Stati Uniti avrebbero trovato fondamento nella Politica, nella democrazia (in Inghilterra dalla monarchia costituzionale del 1689, negli Stati Uniti dalla Costituzione del 1787)[11].
Un altro gruppo di storici ha ricercato nella Cultura la soluzione del mistero del progresso economico. Questi studiosi si sono ricollegati alla corrente del pensiero europeo che, diversamente da Marx, riconduceva l’agire umano ai valori, prima che alle condizioni materiali della società: Weber, Sombart, Troeltsch, Tawney[12]. Weber vedeva nella confessione religiosa protestante (calvinista soprattutto, ma anche pietista e quacchera) una delle matrici, non del capitalismo come modo di produzione, bensì dello “spirito capitalistico”: la volontà razionale di organizzare la propria vita in funzione del lavoro, della parsimonia, dell’intrapresa, quindi del guadagno[13].
David Landes nega che sarebbe sufficiente rimuovere gli ostacoli perché la crescita si autoalimenti, una volta liberate le forze del mercato. “La cultura può fare la differenza”, e le fonti culturali del progresso economico dell’Europa contemporanea sono per lui “la crescente autonomia dell’indagine intellettuale; (…) un metodo, cioè la creazione di un algoritmo per comprovare le ipotesi, riconosciuto, applicato, compreso al di là dei confini nazionali e culturali; l’invenzione della invenzione, la sistematicità della ricerca e della sua diffusione”. Da questa specifica cultura sarebbero scaturiti l’innovazione e il progresso tecnico, a cui è soprattutto ascrivibile l’innalzamento del reddito europeo attraverso la Rivoluzione Industriale d’Inghilterra[14].

* Traccia dell’intervento al Convegno “La mancata crescita italiana”, Fondazione Luigi Einaudi, Torino, 4 maggio 2012.

Sulla scia di Landes, tra le ragioni del primato economico di Londra Joel Mokyr ha esaltato un particolare tratto dell’Illuminismo inglese. Le parole d’ordine comuni all’Illuminismo europeo settecentesco furono ricerca, spirito critico, sperimentazione, controllo della natura, progresso. L’Illuminismo inglese avrebbe assunto un valore speciale per lo sviluppo tecnico ed economico, al servizio del benthamiano principio della massima felicità possibile. Le istituzioni pro-mercato erano parte di questo processo, ma il mutamento istituzionale non sarebbe bastato ai fini della Rivoluzione Industriale se l’Illuminismo inglese non avesse espresso una cultura pragmatica e se al sistema economico fosse quindi mancata “la spinta all’accumulo di utili conoscenze orientate agli usi pratici”[15]. Anche Deirdre McCloskey, dopo aver insistito sulle virtù generalmente borghesi in equilibrio fra l’utilitarismo individualistico della “Prudenza” e l’olismo mutualistico della “Solidarietà”, ha fatto appello alla dignità e libertà, intrecciate con l’Illuminismo, nella società britannica[16].
Cultura, Istituzioni, Politica (CIP), quali matrici della ricchezza delle nazioni, restano esposte al dubbio sollevato dal materialismo storico: l’essere il riflesso, oltre che una concausa, delle strutture dell’economia. Gli stessi sostenitori della rilevanza delle forze culturali, istituzionali e politiche ammettono gli effetti di retroazione provenienti dai rapporti di produzione[17]. È stata d’altra parte registrata anche da economisti la interazione fra sviluppo economico e valori civili. Se si diffonde, il benessere materiale rende la società più aperta, tollerante, democratica. A propria volta, i valori civili promuovono il benessere materiale, incoraggiando la creatività produttiva e l’iniziativa imprenditoriale[18]. La questione degli influssi reciproci è stata spesso affidata al metodo econometrico delle ‘variabili strumentali’.
La ricerca teorica ed empirica degli economisti sulla crescita non ha ignorato lo stimolo proveniente dagli storici a estendere l’analisi oltre le variabili economiche[19].
Con buoni risultati econometrici è stata sottoposta a verifica l’ipotesi che CIP influisca notevolmente, in via diretta o attraverso REI, sui livelli e sui ritmi dello sviluppo economico[20]. A queste evidenze statistiche hanno corrisposto tentativi di sistemazione teorica delle interazioni fra determinanti economiche e determinanti metaeconomiche dei processi di sviluppo. Nel più organico e ambizioso tra siffatti tentativi, Daron Acemoglu ha distinto “i correlati empirici della crescita, capitale fisico e umano e tecnologia”, interpretati quali mere “cause prossime”, dalle “determinanti fondamentali, i fattori che possono dare ragione del perché le società fanno scelte diverse nella tecnologia e nell’accumulazione”[21]. Nel novero di questi ultimi fattori, Acemoglu considera, oltre alla fortuna e alla geografia, cultura e istituzioni, attribuendo, alla maniera di North, particolare rilievo alle istituzioni.

2. Il caso italiano
Confortato anche da una indicazione di metodo di Luigi Pasinetti[22], ho approfondito il caso italiano articolando l’indagine, non in due, bensì in tre stadi, o strati, distinti ma poi connettibili. A una tale articolazione analitica invita l’alta varianza della performance di crescita dell’economia italiana dopo l’Unità. L’arresto e l’inversione da metà Ottocento del declino economico in atto dal Rinascimento sono scaturiti dall’affermarsi anche nella Penisola di una economia di mercato capitalistica nei decenni a cavallo del 1800. Nell’Italia unita, tuttavia, si sono poi alternate fasi di crescita e fasi di ristagno. Sono state dominate dall’andamento della produttività, più che da quello dell’accumulazione quantitativa di risorse. Nel 1900-1913 e nel 1950-1970 la dinamica della produttività è stata particolarmente sostenuta; nel 1887-1900, negli anni Trenta del Novecento e nel 1992-2012 la produttività ha ristagnato. È addirittura diminuita nell’ultimo decennio.
Queste onde nella produttività sono riconducibili all’opposto segno, positivo ovvero negativo, con cui in ciascun periodo quattro fasci di forze hanno agito, sollecitando ovvero frenando il progresso tecnico: finanza pubblica (in equilibrio, ovvero squilibrata); infrastrutture fisiche e giuridiche (adeguate, o inadeguate); concorrenza (crescente, o decrescente); dinamismo delle imprese (alto, o basso). È, questo, un secondo strato di determinanti della produttività ancora d’ordine primariamente economico, al pari del primo strato costituito da Risorse, Efficienza e soprattutto Innovazione (REI). Esse, tuttavia, in ciascun periodo, hanno a propria volta riflesso i tratti e gli sviluppi culturali, istituzionali e politici (CIP) della società italiana: un terzo strato, terra incognita per l’economista[23].
La primavera economica dell’età Giolittiana e il miracolo economico del 1950-70 videro il progresso tecnico contribuire per circa due terzi alla crescita di trend del prodotto. Quanto al secondo strato, in quei due periodi la dinamica della produttività beneficiò di una finanza pubblica in equilibrio, di infrastrutture acconce, di sollecitazioni concorrenziali di varia fonte sui produttori di manufatti, di una vivace manifestazione di imprenditorialità, estesa alle medie imprese. Quanto al terzo strato, è difficile resistere alla tentazione di collegare il contestuale, sinergico operare di questi quattro fasci di forze economiche a fattori metaeconomici: la rinnovata apertura culturale della società italiana che precedette la prima guerra mondiale e seguì la seconda; le istituzioni democratiche che allora si consolidarono o affermarono (estensione del suffragio, Costituzione repubblicana, inclusione delle masse popolari nella vita politica); la capacità della classe di governo e d’opposizione di non perdere di vista, nell’interesse generale, il progresso economico del Paese. Al contrario, una interazione fertile con le variabili metaeconomiche non è dato di riscontrare nelle fasi in cui la produttività ristagnò: nell’età di Crispi, sotto il fascismo-regime, nell’Italia dei tempi più recenti.

L’economia italiana non accenna a risolvere i gravi problemi seguiti alla drammatica crisi della lira del 1992, che il governo Amato non seppe evitare. Da allora, la produttività ha rallentato, per poi diminuire. Il peso economico dell’Italia è scemato, dal 3 al 2,3 per cento del Pil mondiale. Il debito pubblico resta su picchi storici, superiori al 120 per cento del Pil. La posizione verso l’estero del Paese è passiva per 350 miliardi di euro. Prevalgono le spinte recessive. Il Pil del 2011 è risultato di cinque punti percentuali inferiore a quello del 2007, e ancor più al prodotto potenziale. Il governo Monti sconta una caduta produttiva dell’1,2% quest’anno, seguita da una modesta ripresa (0,4 %) l’anno prossimo. L’IMF prevede per l’Italia esiti peggiori: -1,9 e -0,3% nei due anni. Ma il calo di fiducia, il taglio pro ciclico di quasi quattro punti di Pil del disavanzo pubblico rispetto al 2011, l’inflazione che erode i redditi fissi, la restrizione creditizia, il ristagno europeo, la incapacità competitiva inducono a non escludere una caduta del Pil del 3% nel 2012 e ancora dell’1% nel 2013. Ciò significherebbe mezzo milione di posti di lavoro in meno all’avvio del 2014.
Le radici di questa serissima condizione sono risalenti nel tempo. Sono soprattutto nazionali. Si situano solo sullo sfondo i limiti della costruzione europea e i condizionamenti politici esercitati dall’Europa. La responsabilità si ripartisce fra le imprese e i governi italiani. Le imprese da anni si rimpiccioliscono, reinvestono i profitti meno di quanto potrebbero, non ricercano l’innovazione, non introducono progresso tecnico. Quindi la loro produttività e la loro competitività sono su un trend decrescente, come non era mai accaduto nella storia dell’Italia unita. I governi hanno solo, e vanamente, inseguito con le tasse una spesa pubblica incontrollata, montante, in larga misura inefficiente. Andrebbe spiegato in termini di scienza politica perché partiti e governi hanno temuto che una gestione rigorosa del danaro pubblico avrebbe fatto perdere loro consenso popolare più dell’inasprimento continuo di una sperequata pressione tributaria.
Il governo attuale ha commesso errori sia nella impostazione sia nella presentazione della sua politica economica. Nell’ultimo semestre il tasso reale d’interesse sui titoli di Stato ha solo lambito il 4 per cento, livello inferiore ai picchi sperimentati nelle crisi, ben più gravi, del 1980, del 1992, del 1995; le emissioni dei titoli sono state ampiamente collocate; la vita media del debito eccede i sette anni, mentre in passato si misurava in termini di mesi; le banche sono relativamente solide. Eppure il governo ha ripetutamente dichiarato di temere una catastrofe finanziaria imminente, assimilabile al dissesto della Grecia. Ha quindi immediatamente aumentato le imposte sui tartassati impossibilitati a evadere. Ha tagliato, in modo percepito come permanente, redditi e pensioni, anche ai più bassi livelli. Lo ha fatto per riequilibrare i conti pubblici, che restano da riequilibrare. Ma la sua azione è scaduta nella logica dei due tempi: fiscalità subito, crescita, poi. Non è stata sin dall’inizio incentrata sul risparmio nelle spese pubbliche superflue, sul sostegno alla produttività, sul rilancio della domanda effettiva. Sotto il vincolo del pareggio di bilancio nel 2013, secondo il governo non vi sarebbe molto margine per abbassare la spesa corrente, aumentare quella in conto capitale, ridurre le tasse. Si è così smarrito il controllo delle aspettative, divenute cupamente pessimistiche. La recessione, già in atto dall’estate del 2011, si è acuita.
Una diversa politica economica è possibile, lungo tre direttrici: mutare la composizione del bilancio pubblico, riscrivere il diritto dell’economia, imporre la concorrenza.
In finanza pubblica bisogna frenare le spese correnti fino a mettere i conti in sicurezza e fare spazio nel bilancio a minore tassazione e a maggiori investimenti in infrastrutture, preziose anche per la produttività. Una riduzione dello stock di debito può ottenersi cedendo patrimonio immobiliare della PA.
Va posto in atto un piano che, nel quinquennio 2012-2016, riduca la spesa corrente in rapporto al Pil di 5 o 6 punti. Queste risorse devono devolversi a consolidare l’azzeramento del disavanzo strutturale, agli investimenti in infrastrutture, alla riduzione del carico fiscale, da perequare in primo luogo attraverso la lotta a una evasione stimata nell’8 per cento del Pil. L’azzeramento del disavanzo strutturale – a cui è stata data garanzia costituzionale con l’attuale art. 81 – dovrebbe concentrarsi su tre voci di spesa: acquisti di beni e servizi (riducendo non le quantità, ma i prezzi, oscenamente vantaggiosi per i fornitori); personale, da ridurre attraverso il turnover; trasferimenti alle imprese, da tagliare, insieme con “altre” spese correnti (diverse dalle precedenti, come pure da pensioni, sanità, interessi sul debito). Nell’insieme queste tre voci di spesa rappresentavano nel 2011 il 23,3 per cento del Pil, rispetto al 20,8 per cento del 2000. Possono scendere al 18 per cento del Pil. Lo spazio c’è.
Il moltiplicatore keynesiano (negativo) delle spese che perderebbero di peso è nettamente inferiore a quello (positivo) dei maggiori investimenti e della minore imposizione. L’impatto netto del mutamento di composizione del bilancio sulla domanda globale risulterebbe quindi espansivo. Il premio al rischio sul debito pubblico e i tassi d’interesse scenderebbero, perché un piano siffatto è quanto i creditori internazionali, e l’Europa, chiedono da anni all’Italia. Il miglioramento delle aspettative favorirebbe la propensione a consumare e a investire dei privati, contribuendo alla ripresa e accorciandone i tempi.
L’impegno più urgente è, infatti, superare la recessione. Altrimenti, non avrebbe senso nemmeno parlare di ritorno alla crescita di trend. Il progresso di lungo periodo della produttività dev’essere favorito, oltre che da potenziate infrastrutture fisiche, da una vasta riforma del diritto e delle istituzioni dell’economia. Più che il diritto del lavoro, la riforma dovrebbe interessare altri blocchi dell’ordinamento giuridico: societario, fallimentare, processuale, amministrativo, del risparmio[24]. Sul piano culturale, la riforma dovrebbe fondarsi su una visione d’assieme dell’intero ordinamento dell’economia e su criteri di teoria più eclettici e realistici di quelli che può offrire la law and economics anglosassone, di impianto strettamente neoclassico. L’ulteriore fronte per il recupero della produttività e per il ritorno su un sentiero di crescita è rappresentato da una decisa promozione della concorrenza. Alle imprese vanno precluse scorciatoie al profitto come quelle di cui hanno goduto dal 1992. Il cambio debole, la spesa pubblica larga, i salari bloccati, un’azione antitrust poco incisiva sono state le vie facili che hanno consentito fino a pochi anni fa utili tali da rendere superflua la ricerca della produttività. Anche qui, sul piano culturale, occorrerebbe muovere da una nozione di concorrenza diversa da quella sinora invalsa in Europa, e quindi in Italia. Non ci si può limitare a sanzionare le tre fattispecie della concentrazione, della intesa collusiva, dell’abuso di posizione dominante. Deve affermarsi una concezione “schumpeteriana”, non statica ma dinamica, che valorizzi la competizione – anche “fra pochi” – attraverso le innovazioni, responsabilizzi al massimo l’impresa, la sottragga alla dipendenza da ogni protezione.
In una economia di mercato capitalistica della produttività rispondono in ultima analisi le imprese, non i governi. È essenziale che le imprese italiane si dimostrino di nuovo capaci di innovazione e progresso tecnico. Ne va della loro stessa esistenza.
Sapranno Cultura, Istituzioni e Politica corrispondere a questa vera e propria rifondazione economica del Paese?
Si può solo ribadire, sulla scorta della ricerca teorica, econometrica e storica più aggiornata, che l’Italia economicamente decadrà, se tale apporto dovesse continuare a mancare.

Note

1.  Schumpeter, J.A., The Theory of Economic Development (1911), Harvard University Press, Cambridge, 1934, p. 63 e p. 66 e L’imprenditore e la storia dell’impresa. Scritti 1927-1949, a cura di Alfredo Salsano, Bollati Boringhieri, Torino, 1993.

2.  Keynes, J.M., The General Theory of Employment Interest and Money, Macmillan, London, 1936.

3.  La più organica presentazione degli apporti su cui la moderna teoria della crescita economica si è fondata resta Hahn, F.H. – Matthews, R.C.O., The Theory of Economic Growth: A Survey, in Surveys of Economic Theory, Vol. II, Macmillan, London, 1965.

4.  Il risultato empirico è entrato nei libri di testo. Il manuale di Paul Samuelson propone stime che attribuiscono la crescita della produzione negli Stati Uniti fra il 1948 e il 2007 per il 39 per cento al progresso tecnico, rispetto a contributi del 34 per cento della quantità di capitale e del 27 per cento della quantità di lavoro (Samuelson, P.A. et al., Economia, XIX^ edizione, McGraw-Hill, Milano, 2010, pp. 614-615). Dai confronti econometrici fra i paesi che crescono più rapidamente e quelli che crescono meno rapidamente “risulta che il 58 per cento della variazione nei tassi di crescita è dovuto a differenze nella crescita della produttività, mentre il restante 42 per cento è invece imputabile alle differenze nella crescita dei fattori della produzione” (Weil, D.N. Crescita economica. Problemi, dati e metodi di analisi, Hoepli, Milano, 2007, p. 195).

5.  Cfr. Aghion, P. – Durlauf, S.N. (eds.), Handbook of Economic Growth, North-Holland, Amsterdam, 2005; Musu, I., Crescita economica, Il Mulino, Bologna, 2007.

6.  “La propensione/capacità a ‘dedicarsi alle attività produttive’, piuttosto che alla violenza e alla preghiera. La Rivoluzione industriale ha avuto luogo perché queste condizioni si sono realizzate come mai era avvenuto prima di allora, con maggiore pienezza e rapidità in Inghilterra”(Solow, R.M., Survival of the Richest? recensione al volume di G. Clark, A Farewell to Alms. A Brief Economic History of the World, in “The New York Review of Books”, n. 18, November 17, 2007).

7.  “La struttura degli incentivi, in una società, è espressa dalle istituzioni; le istituzioni politiche ed economiche sono quindi le determinanti ultime della performance delle economie” (North, D.C., Economic Performance through Time, in “American Economic Review”, 1994, p. 359).

8.  North, D. C., Structure and Change in Economic History, Norton, New York, 1981, p. 209.

9.  Jones, E.L., Growth Recurring. Economic Change in World History, Oxford University Press, Oxford, 1988, pp. xxvii-xxix.

10.  Maddison, A., L’economia mondiale dall’anno 1 al 2030, Pantarei, Milano, 2008, Tab. A.7., p. 435. In Asia, “nonostante grandi momenti creativi in tempi in cui l’Europa era ancora primitiva, le istituzioni dispotiche soffocarono la creatività o la volsero alla produzione di beni voluttuari” (Jones, E.L., Il miracolo europeo. Ambiente, economia e geopolitica nella storia europea e asiatica, Il Mulino, Bologna,1984, p. 306).

11.  Hill, C., Reformation to Industrial Revolution. A Social and Economic History of Britain 1530/1780, Weidenfeld & Nicolson, 1967; Beard, C.A., Economic Origins of Jeffersonian Democracy, Macmillan, New York, 1915; North, D.C. – Weingast, B., Constitutions and Commitment. Evolution of Institutions Governing Public Choice in Seventeenth Century England, in “Journal of Economic History”, 1989, pp. 803-832. La complessità e la variabilità dei legami fra democrazia e sviluppo economico sono tuttavia illustrate in Somaini, E., Geografia della democrazia, Il Mulino, Bologna, 2009.

12.  Weber, M., L’etica protestante e lo spirito del capitalismo, (1904-05), Sansoni, Firenze, 1965; Sombart, W., Il capitalismo Moderno, (1916), UTET, Torino, 1967; Troeltsch, E., Il protestantesimo nella formazione del mondo moderno, La Nuova Italia, Venezia, 1929; Tawney, R.H., Religion and the Rise of Capitalism, Murray, London, 1926.

13.  Weber è lapidario circa un punto di metodo su cui le vulgate del suo pensiero spesso sorvolano: “Pazzamente dottrinaria (è la tesi che) mi è stata – è strano – ripetutamente attribuita secondo cui lo spirito capitalistico (…) sia potuto sorgere solo come emanazione di determinate influenze della Riforma o che addirittura il capitalismo come sistema economico sia un prodotto della Riforma (…) Si deve porre in chiaro soltanto se e in che misura influenze religiose abbiano avuto parte nella formazione qualitativa e nella espansione quantitativa di quello spirito” (Weber, L’etica protestante cit., p. 162-163). Su Max Weber si veda B. Schefold, Marx, Sombart, Weber and the Debate about the Genesis of Modern Capitalism, Goethe Universitàt, Frankfurt 2011.

14.  Nel Settecento l’Inghilterra era la società europea “meglio attrezzata a perseguire il progresso materiale e l’arricchimento generale (…), attraverso la produzione di beni e di servizi” (Landes, D.S., The Wealth and Poverty of Nations. Why Some Are So Rich and Some So Poor, Little Brown, New York, 1998, pp. 31, 522, 201, 187, 217; si veda anche Winners and Losers. West and Rest, in Amatori, F. – Amendola, M. (a cura di), Le Momigliano Lectures 1997-2008, ICSIM, Terni, 2008).

15.  Mokyr, J., The Enlightened Economy. An Economic History of Britain, 1700-1850, Yale University Press, New Haven, 2009, pp. 9-10.

16.  McCloskey, D.N., Bourgeois Virtue in the History of P and S, in “Journal of Economic History”, 1998, pp. 297-317 e Bourgeois Dignity. Why Economics Can’t Explain the Modern World, University of Chicago Press, Chicago, 2010.

17.  North, D.C. – Thomas, R.P., The Rise of the Western World, Cambridge University Press, Cambridge, 1973; Jones, Growth Recurring cit., p. xxix; Landes, Wealth and Poverty cit., p. 517; Mokyr, The Enlightened Economy cit., p. 12.

18.  Friedman, B., The Moral Consequences of Economic Growth, Knopf, New York, 2005.

19.  Quasi un secolo dopo Max Weber un economista teorico come Michio Morishima interpretava la modernizzazione economica del Giappone anche alla luce della religiosità che avrebbe reso materialistica, gerarchica e quindi particolarmente produttiva la società nipponica (Morishima, M., Cultura e tecnologia nel “successo” giapponese, Il Mulino, Bologna, 1984).

20.  La infrastruttura sociale spiega in notevole misura attraverso REI lo scarto nei livelli di produttività di un ampio campione di paesi nell’analisi di Hall, R.E – Jones, C.J., Why Do Some Countries Produce So Much More Output than Others?, in “Quarterly Journal of Economics”, 1999, pp. 83-116.

21.  Acemoglu, D., Modern Economic Growth, Princeton University Press, Princeton, 2009, pp. 19-20, p. 111, Cap. 4 ed Epilogue.

22.  L’indicazione consiste nel muovere da “una teoria che resti neutrale rispetto all’organizzazione istituzionale della società”, assumendo che “lo studio dei problemi associati a particolari istituzioni possa essere introdotto in una fase successiva” (Pasinetti, L.L., Dinamica strutturale e sviluppo economico, UTET, Torino, 1984, p. 28).

23.  Ciocca, P., Ricchi per sempre? Una storia economica d’Italia, 1796-2005, Bollati Boringhieri, Torino, 2007; Interpreting the Italian Economy in the Long Run, in “Rivista di Storia Economica”, 2008, pp. 241-246; Centocinquant’anni: per una ‘teoria della storia economica’ d’Italia, in “Rivista di Storia Economica”, 2012, pp. 9-25.

24.  Ciocca, P., Un nuovo diritto per l’economia, in “ApertaContrada.it”, 5 dicembre 2008.