La dismissione del patrimonio immobiliare e la foresta di Sherwood.*

*Rielaborazione dell’intervento svolto al convegno “La liberalizzazione delle attività economiche”, Università degli Studi Roma TRE – Facoltà di Economia “Federico Caffè”, 2 Marzo 2012.

E’ noto come Giovanni Senza Terra abbia cercato ogni modo di sbarazzarsi di Robin Hood. Quello a cui non ha mai pensato è di vendere la foresta di Sherwood.
Ogni volta che si tratta di liberalizzazioni e di semplificazioni, si affronta il tema dei beni pubblici. La ragione è abbastanza chiara. L’inclusione della disciplina dei beni pubblici nelle ultime riforme mira certamente in primo luogo alla dismissione degli stessi, e quindi risponde all’esigenza di ridurre il disavanzo dello Stato. Non a caso l’intervento principale si è avuto nella legge di stabilità. Ma in secondo luogo si mira a valorizzare i beni e renderli utilizzabili per lo sviluppo del paese, e questo spiega perché l’ultimo intervento si abbia nel d.l. oggi al Senato per la conversione “per la concorrenza, lo sviluppo delle infrastrutture e la competitività” sebbene, quasi ironicamente, sia rivolto ad incoraggiare i giovani a intraprendere un’attività agricola.
Questo breve intervento, dopo una breve ricostruzione delle modifiche intervenute in questi ultimi anni, cercherà di verificare in quale direzione vadano gli ultimi interventi.
Negli ultimi venti anni si possono infatti identificare tre importanti rivoluzioni rispetto al modello dei beni pubblici tramandato dal codice civile e a tutti noto.
In primo luogo è diventato vulgata che le distinzioni tra le categorie dei beni demaniali e dei beni patrimoniali non rispondano a criteri razionali, non siano più attuali e nella pratica questa confusione sia stata funzionale a perseguire una tutela molto forte nei confronti di questi beni. Beninteso, la critica risale fino a Guicciardi (visto che già la classificazione era già giudicata irrazionale con riferimento al codice del 1865), e la fondatezza della critica è funzione della prospettiva dalla quale si cerca di esaminare la vicenda della demanialità.
In secondo luogo è stato avviato il processo di dismissione del patrimonio immobiliare, mediante il fenomeno della cartolarizzazione, e quindi con la cessione di beni a società che, anticipato all’ente conferente parte dell’importo corrispondente al valore del bene, avrebbero emesso titoli destinati a circolare.
In terzo luogo è stato previsto il cd. federalismo demaniale, all’interno di un supposto processo di federalizzazione dello Stato, con l’idea di trasferire beni agli enti locali e alle Regioni, per la loro valorizzazione o dismissione con la regola, è bene ricordarlo, del transito di norma automatico, dei beni dal regime demaniale e patrimoniale indisponibile al regime patrimoniale disponibile[1].
Tre conseguenze, legate a queste riforme: la categoria demaniali/indisponibili non sembra più presa seriamente dal legislatore, il quale non si fonda più sulla distinzione, e comunque non sembra interessato a distinguere la diversa portata delle nozioni. Gli esempi sono molteplici, a mo’ di battuta si pensi anche solo all’art. 119 novellato che si riferisce al Patrimonio degli enti locali, dello Stato e delle Regioni, senza nulla dire del demanio (che era correttamente citato nella precedente formulazione dell’articolo).
Con riferimento al secondo punto, i dati provenienti dalla stessa agenzia del Demanio evidenziano come le cartolarizzazioni siano state giudicate delle operazioni di scarso beneficio economico e una importante mole di contenzioso, con poche alienazioni e cattiva gestione del patrimonio immobiliare.
In terzo luogo il cd. federalismo demaniale non è stato ancora attuato, e molti commentatori si sono astenuti dal formulare giudizi in attesa di leggere i decreti attuativi; tuttavia l’impressione è che gli enti locali e le Regioni non abbiano le capacità per valorizzare e alienare in maniera adeguata i beni.
In questo quadro si inseriscono le ultime riforme.
Il precedente Governo ha previsto dismissioni per un importo di 15 miliardi di euro nel triennio 2012-2014. Si indica però genericamente “dismissioni del patrimonio pubblico”, e dai primi commenti si è escluso si tratti di immobili. Ragioni contingenti mirano a questo risultato: vi è un eccesso di offerta (vi sono infatti fondi immobiliari, banche, casse, enti previdenziali che stanno procedendo a dismissioni), si assiste a un calo di domanda anche estera.
Un’eventuale dismissione quindi si può concentrare sulle partecipazioni azionarie, anche se pure queste ultime appaiono attualmente non redditizie (e comunque per queste basterebbe una semplice decisione del Ministro del Tesoro), e sui terreni agricoli. Di qui la scelta del legislatore, il quale ha modificato le disposizioni del decreto c.d. salva-Italia nel decreto cresci-Italia per rendere possibile le dismissioni del patrimonio pubblico, con particolare attenzione per i terreni agricoli.
Il sistema della valorizzazione e alienazione dei beni pubblici è radicalmente cambiato in questi due anni seguendo quattro linee di tendenza.

Prima tendenza. Smantellata la Patrimonio SPA, per iniettare le risorse finanziarie necessarie per le valorizzazioni del patrimonio immobiliare anche delle Regioni e degli enti locali,  è stato accolto il modello della società nazionale di gestione del risparmio (SGR) da istituire nel 2012, detenuta al 100% dal Tesoro (art. 33 del d.l. 98-111/2011, stabilizzazione finanziaria).
Essa ha il compito di istituire fondi immobiliari, destinati a partecipare a loro volta a fondi di investimento e valorizzazione immobiliare promossi da Regioni e enti locali. In questi secondi fondi confluiscono beni oggetto di progetti di valorizzazione (anche trasferiti ai sensi del d.lgs. 85/2010 sul federalismo demaniale), e possono confluire anche diritti di concessione o uso sui beni che prevedano la possibilità di locazione del bene.
Al Fondo viene affidata la valorizzazione immobiliare, compresa la gestione del demanio attraverso locazioni o contratti di godimento[2].

Lo strumento societario di genesi statale ha così il compito di fornire capitali e competenze per raccogliere risorse sul mercato al fine di acquistare, valorizzare immobili, sostenere gli investimenti per le infrastrutture, risulta attraente sul mercato e garantisce gli investitori qualificati (enti pubblici previdenziali ed assicurativi).

Seconda tendenza. La pressante esigenza di far cassa mira ad utilizzare il modello dei fondi e delle società per la dismissione del patrimonio statale. L’articolo 6 della legge n. 183 del 2011 (legge di stabilità 2012) ha autorizzato  il Ministero dell’Economia e delle Finanze a conferire o a trasferire beni immobili dello Stato a fondi comuni di investimento immobiliari o a società di gestione del risparmio. Il primo dei decreti con l’indicazione dei beni immobili deve essere emanato entro il 30 aprile 2012, e questo risulta molto interessante per capire quale sarà la prospettiva delle dismissioni.

Terza tendenza. Si afferma sempre più la centralità del ruolo dell’Agenzia del Demanio.
Essa può promuovere e costituire società, consorzi o fondi immobiliari per valorizzare e alienare il patrimonio immobiliare pubblico di proprietà dello Stato, delle Regioni, degli enti locali e degli enti vigilati.
Inoltre essa viene indicata come il soggetto che deve dare impulso all’elaborazione di un piano di valorizzazione da presentare agli enti territoriali interessati per l’approvazione (art. 27 del decreto 201-214/2011, Salva-Italia, che ha introdotto l’art. 33 bis nella legge di stabilizzazione finanziaria). Si prevede che l’Agenzia del Demanio verifichi la fattibilità di tutte le iniziative possibili (tra le quali anche la costituzione di consorzi e società), individui gli immobili da conferire, e che entro 60 giorni gli enti interessati (Stato, enti locali, società, enti controllati) si pronuncino sulla proposta (in caso di silenzio, si tratterà di silenzio rifiuto).
Se le iniziative prevedono la costituzione di società, ad esse partecipano gli enti erogatori, il ministero del Tesoro, e privati scelti con procedura ad evidenza pubblica.

Quarta tendenza. La dismissione parte dai terreni agricoli. L’art. 66 del decreto 1-2012 cresci-Italia, ridisciplina la dismissione di terreni demaniali agricoli e a vocazione agricola, già prevista (e quindi abrogata) un anno prima dalla legge di stabilità. Ogni anno, il Ministero delle politiche agricole determina i beni statali la cui vendita sarà effettuata a cura dell’Agenzia del demanio con procedura negoziata senza bando (<100.000 euro), oppure mediante asta pubblica. Lo stesso potranno fare Regioni ed enti locali, anche rivolgendosi all’Agenzia del demanio.
Il comma 7 prevede che possano essere alienati anche “terreni ricadenti all’interno di aree protette”, con l’assenso dei gestori. Ai terreni venduti non potrà attribuirsi una destinazione urbanistica diversa da quella agricola prima che siano trascorsi venti anni (anche se per le aree protette si immagina che anche dopo i 20 anni non possa cambiare la destinazione urbanistica).
Il decreto prevede che le Regioni e gli Enti locali possano procedere alla vendita anche dei beni pervenuti dal decreto sul federalismo demaniale. In questo caso rimane il dubbio, se essa riguardi solo i beni agricoli o anche il demanio marittimo e idrico. Se così fosse, a questi beni non potrebbe essere applicato il vincolo della destinazione agricola, e quindi probabilmente neppure il limite dei venti anni. Meglio non pensarci.

Possiamo trarre delle brevi, superficiali conclusioni. Si assiste ad un ruolo centrale e centralizzato della SGR per iniettare fondi per la valorizzazione e dismissione, nonché al coordinamento e gestione dell’Agenzia del Demanio. Questo duplice modello ricalca l’attuale lettura del titolo V della Costituzione, che prevede oramai come regola un potere di intervento centrale, non obbligatorio ma sussidiario. Del resto anche nell’ordinamento tedesco le operazioni sono gestite dall’Agenzia federale BIMA, dopo il fallimento delle precedenti operazioni di vendita. E anche la Germania ha fatto largo uso di fondi immobiliari.
Il senso complessivo di queste operazioni è discusso: si evidenzia come il criterio del contenimento del debito pubblico non possa oscurare altri criteri; si sottolinea inoltre la difficoltà di valutare la convenienza economica di queste operazioni, in mancanza di dati certi e di previsioni sicure; si critica la mancanza di trasparenza nei processi decisioni relativi ai beni[3].
Comunque, alla fine il governo inglese ha deciso di “non vendere la foresta di Sherwood. Ha affermato di non volere fare l’errore del passato governo, che ha venduto foreste senza preoccuparsi di garantirne l’accesso al pubblico”. Questo sembra il profilo più problematico, dell’uso, dell’accesso, della fruibilità del pubblico che, al di là del caso dei terreni agricoli, non pare di dovere mai dimenticare, anche quando sembra che lo stato di bisogno possa giustificare qualunque scelta. Altrimenti corriamo il rischio di vedere un proliferare di Robin Hood.

Note

1.  Sui primi due punti uno dei lavori più esaustivi è M. RENNA, La regolazione amministrativa dei beni a destinazione pubblica, Milano, 2004. Sul tema del federalismo demaniale, si vv. a cura di G.F. FERRARI, Il federalismo demaniale. Atti del Seminario (Roma, 11 marzo 2010), Torino, 2010 e R. LOIERO, Il federalismo demaniale, Roma, 2010.

2.  Così, per non farci mancare niente, questo Fondo si trova interposto tra ente che rilascia una concessione demaniale e imprenditore che aspira ad ottenere la concessione. Il Fondo non è obbligato a procedure comunitarie di gara, e può valorizzare il criterio dell’esperienza maturata, o l’impegno alla valorizzazione, in favore dei soggetti già concessionari. Viene immediatamente alla mente il tema delle concessioni degli stabilimenti balneari.

3.  A. VILLA, La dismissione del patrimonio pubblico, Giornale di diritto amministrativo, 2012, 126; M. ARSÍ, Gli strumenti finanziari e le procedure per la dismissione e la valorizzazione dei beni pubblici, Giornale di diritto amministrativo, 2012,262.