Credito di ultima istanza: per le banche, per gli Stati

Una banca solvibile, dotata di patrimonio netto positivo, non va lasciata fallire qualora nel mercato monetario – imperfetto anche perché interessato alla illiquidità, più che all’insolvenza, dei debitori – il suo fabbisogno di danaro non trovi soddisfazione nemmeno ai tassi d’interesse elevati che la banca in temporanea difficoltà sarebbe disposta a pagare (razionamento).
La soluzione – chiarita analiticamente da Henry Thornton nel 1802 – è stata da tempo affidata alla istituzione “banca centrale”. Quale “banca delle banche” essa può discrezionalmente intervenire accordando credito di ultima istanza – a condizioni non di favore – alla banca commerciale sana, ma razionata nel mercato monetario. L’entità dei debiti della banca è irrilevante, purché essi siano inferiori ai crediti, prudentemente valutati dalla banca centrale.
Se il meccanismo non operasse e banche patrimonialmente solide fossero lasciate fallire si dissiperebbero risorse. Si impennerebbero i rischi di indifferenziata, contagiosa sfiducia, dissesti a catena, recessione.
Il caso di uno Stato è diverso, ma può essere risolto per analogia.
Economicamente, uno Stato non esiste per erogare crediti, variamente rischiosi. Esiste per spendere a vantaggio dei cittadini, tassando i cittadini. Se ha contratto debiti perché in passato le sue uscite hanno ecceduto le entrate, lo Stato – che supponiamo non disponga di cespiti patrimoniali – non è per ciò stesso insolvente. Anche senza ridurre le spese lo Stato può tassare, tanto da portare il bilancio in avanzo e rimborsare i creditori che non fossero disposti a rinnovare i titoli pubblici in scadenza.
Un bilancio pubblico vincolato all’equilibrio sarebbe di per sé garanzia che non vengano contratti debiti nuovi, su base netta. La restituzione di quelli in essere avverrà sostituendoli con dei nuovi, ma solo su base lorda.
Nondimeno, uno Stato con bilancio in equilibrio potrebbe essere razionato nel mercato obbligazionario, imperfetto anche perché sensibile alle – improprie –valutazioni politiche delle agenzie di rating. L’impossibilità di ottenere credito, seppure a tassi di interesse elevati, costringerebbe allora lo Stato – che avesse rinunciato al signoraggio, a battere moneta – alla interruzione dei pagamenti, con ripercussioni economiche, sociali, di ordine pubblico potenzialmente devastanti.
Se lo Stato non torna a battere moneta la soluzione può ricercarsi nel credito di ultima istanza della banca centrale, in analogia – mutatis mutandis – con il caso della banca commerciale illiquida ma non insolvente.
Giappone e Stati Uniti beneficiano di bassissimi tassi d’interesse sui titoli governativi nonostante gli annosi squilibri della finanza pubblica e dell’economia (comprensivi di un rapporto deficit/Pil doppio di quello italiano e di un debito elevato e montante). Ciò avviene perché gli operatori di mercato sanno che la Fed e la Banca del Giappone risolverebbero eventuali problemi di illiquidità dei rispettivi governi, problemi che quindi di rado insorgono.
Potrebbe peraltro attenuarsi, per tale via, la responsabile propensione dei governi a correggere gli scompensi strutturali. Per una soluzione non precaria è cruciale il concetto di “equilibrio” del pubblico bilancio che si assume. Non meno cruciale è il vincolo che il bilancio sia in equilibrio.
Equilibrio di bilancio, in un arco di tempo prestabilito, può voler dire uscite pari alle entrate, tenuto conto o meno del ciclo (che influisce sul bilancio con segno alterno, migliorando i saldi nella fase della espansione e peggiorandoli in quella recessiva). Può in alternativa voler dire entrate pari alle uscite al netto delle spese per investimento, tenuto conto o meno del ciclo.
Data una fra queste accezioni – è preferibile la seconda, tenendo conto del ciclo – l’equilibrio deve essere sancito nella Costituzione, garantito da regole precise che governi e parlamenti non possano infrangere. Dev’essere inoltre certificato da un organismo tecnico indipendente dall’esecutivo, come pure dalla maggioranza e dalle minoranze parlamentari.
Nell’Europa dell’euro gli Stati hanno rinunciato a battere, individualmente, moneta. Al tempo stesso l’Europa dell’euro non è uno Stato federale e le è sinora mancata la capacità culturale e politica di conciliare rigore e flessibilità nel governo dell’economia. La emissione di “eurobonds” e la messa in comune di fondi “salvastati” presuppongono passi verso l’unione politica che alcuni paesi membri evidentemente considerano tuttora prematuri. È altresì improbabile che i mercati finanziari siano rassicurati da debito garantito da debito: il debito di singoli paesi garantito dal debito di tutti i paesi membri.
In un contesto siffatto potrebbe utilmente darsi la seguente soluzione di second best: bilanci pubblici costituzionalmente vincolati all’equilibrio e una banca centrale a cui si dia la facoltà – non l’obbligo – di evitare, nell’Eurozona, l’illiquidità di Stati solvibili. Spetterebbe alla banca centrale – al Sistema Europeo delle Banche Centrali (SEBC) – di accertare se vi sia razionamento in senso tecnico: se la domanda di credito di uno Stato membro con bilancio in equilibrio non trovi soddisfazione nel mercato obbligazionario nemmeno a tassi di interesse elevati, o crescenti. L’alternativa è che lo Stato solvibile ma illiquido esca dall’euro, essendo costretto a riappropriarsi del diritto di signoraggio come unica via per finanziare irrinunciabili spese pubbliche. È al contrario possibile che i paesi dell’area dell’euro curino l’equilibrio del bilancio anche per meritare il sostegno del SEBC per il caso in cui versino in una condizione di illiquida solvibilità.
La base monetaria creata dalla banca centrale “per conto dello Stato” troverà, se necessario, compensazione in una minore creazione di base monetaria “per conto del commercio”. Il totale della base monetaria dovrà, e potrà, continuare a essere gestito così da contrastare tanto l’inflazione quanto la deflazione del livello medio dei prezzi dei beni e dei servizi, primario compito del SEBC.