La riforma bancaria e il rapporto Vickers

La crisi iniziata nel 2007-08 ha rafforzato il dibattito sulla adeguatezza della regolazione all’evoluzione dell’intermediazione finanziaria. Per quanto riguarda le banche, la soluzione prevalente – sia in Europa sia negli Stati Uniti (le aree più colpite dalla crisi) – sembra indirizzarsi verso un rafforzamento delle risorse proprie, che renda meno probabile, o minimizzi, il trasferimento dei costi delle loro crisi al settore pubblico (banca centrale e Stato). Tale rafforzamento avverrebbe principalmente attraverso una maggiore capitalizzazione – un incremento dei rapporti di capitale commisurati alla rischiosità delle attività – e un limite al c.d. leverage, cioè al rapporto tra attività della banca, non aggiustate al loro rischio, e il suo capitale. In aggiunta, viene perseguita una più ampia capacità dell’intermediario di assorbire le proprie perdite, attraverso l’emissione di strumenti finanziari, di natura obbligazionaria o ibrida, il cui rimborso sarebbe subordinato al rimborso dei depositanti, in caso di crisi della banca.
Tuttavia, prevalentemente nei paesi anglo-sassoni, questa impostazione, pur essendo generalmente ritenuta condizione necessaria per una maggiore stabilità del sistema, non è stata considerata sufficiente, e si è fatta più forte la pressione per una riconsiderazione critica degli aspetti strutturali del sistema bancario. È opportuno un breve cenno su tali aspetti.

1.    Sistemi orientati alle banche o al mercato

In estrema sintesi, si individuano due configurazioni del sistema finanziario: nella prima, l’intermediazione è prevalentemente bancaria; nella seconda, un largo mercato dei capitali permette diretti rapporti di finanziamento tra unità in avanzo e unità in disavanzo e l’intermediario si limita a collegare la domanda e l’offerta di titoli; in quanto tale, le sue dimensioni sono relativamente limitate. Nella prima, le attività finanziarie del pubblico sono in larga parte costituite da depositi, nella seconda, esse sono più ampiamente diversificate.
Un paio di esempi valgono a comparare le due configurazioni. Nei primi anni Sessanta[1], in Italia l’intermediazione era prevalentemente bancaria, non esistevano intermediari di mercato. Le banche[2] detenevano oltre il 70% delle attività del sistema finanziario. Tra le attività finanziarie del pubblico, la maggior parte era detenuta in forma di circolante o di depositi, forma che sopravanzava, nel portafoglio delle famiglie, i titoli sia azionari sia obbligazionari (prevalentemente di Stato): un paese “banco-centrico”[3]. In un sistema “orientato al mercato” come quello degli Stati Uniti, le banche[4] detenevano solo il 50% delle attività del sistema e il pubblico investiva ampiamente in strumenti diversi dai depositi. I classici intermediari mobiliari – le banche d’investimento, o broker-dealers – impegnati nell’intermediazione in titoli sul mercato primario (underwriting), e secondario per conto clientela (brokers) o per proprio conto (proprietary trading), avevano, come sopra accennato, attività relativamente limitate, e il loro bilancio complessivo era pari a circa l’1% delle attività del sistema finanziario[5].
Le strutture bancarie ora menzionate erano il frutto di importanti riforme del periodo interbellico, le quali avevano introdotto una specializzazione funzionale delle banche, come reazione a quelli che erano stati ritenuti i fattori principali di instabilità: negli S.U., il coinvolgimento delle banche “universali” (financial supermarkets) nella speculazione borsistica; in Italia, la simbiosi stretta fra banche e imprese attraverso partecipazioni azionarie reciproche ed esposizioni a lungo termine (banche “miste”). Negli S.U., col Glass-Steagall Act (1933) le banche di deposito furono confinate ai prestiti commerciali e industriali, e ai prestiti al settore delle famiglie. Le banche d’investimento, inibite dalla raccolta di depositi, furono confinate all’intermediazione in titoli, che le esponeva non tanto al rischio di credito (insolvenza del debitore), essendo i titoli ceduti sul mercato, quanto al rischio di mercato (oscillazioni nel valore dei titoli); con bilanci di dimensioni ridotte, le loro insolvenze erano sostanzialmente prive di conseguenze sistemiche. In Italia, con la legge bancaria (1936), le banche di deposito furono confinate, in via di principio, al credito a breve termine, mentre quello a medio-lungo termine fu riservato a speciali istituti. Tale specializzazione funzionale non fece a lungo avvertire la necessità di uno sviluppo del mercato mobiliare. Inoltre, gli incroci azionari tra Banca e Industria furono dismessi e fu a lungo assicurata – anche se non per legge – una sostanziale separatezza tra le due. In America, questa separatezza fu sancita dal Bank Holding Company Act (1956).

2.    Forme diverse di banca universale

La limitata redditività della banca di deposito, la spinta verso tecniche innovative di gestione del rischio, la “titolarizzazione” dei prestiti e quindi l’orientamento verso un’attività di transazioni di mercato piuttosto che di prestiti, la convergenza dell’Europa verso un modello uniforme di banca, furono tra i diversi fattori che spinsero a un graduale abbandono della specializzazione per funzioni, e alla riconduzione delle banche a uno schema “universale”, o “polifunzionale”. Tuttavia, questo schema si configurò con caratteristiche differenti, che risentivano di normative e comportamenti pre-esistenti. Per tornare agli esempi suddetti, negli S.U., col Financial Modernization Act 1999, la banca polifunzionale si sviluppò sul modello della bank holding company: una società capo-gruppo avente il controllo di diverse sussidiarie, operanti nei diversi campi d’intermediazione e soggette a diversi organi di supervisione. La banca di deposito, pur se inserita in un gruppo, sarebbe rimasta separata dalle altre componenti, e “speciale” nel senso di essere la sola componente del gruppo avente accesso al credito d’ultima istanza della banca centrale e all’assicurazione pubblica dei depositi. Ma, di fatto, la convinzione dell’ “universalità” dell’istituzione fece sì che le diverse funzioni all’interno del gruppo fossero viste come strettamente integrate, con un’unitaria gestione del rischio, e l’intera struttura fu strumentale al crescente fenomeno del trasferimento del rischio di credito dalla banca al mercato, attraverso la “finanza strutturata”: la sussidiaria bancaria avrebbe originato i prestiti, questi sarebbero stati trasferiti a un “veicolo” gestito dalla sussidiaria mobiliare, il quale avrebbe acquisito quei prestiti finanziandosi sul mercato, con emissioni di titoli rappresentativi dei prestiti stessi. Grazie a un vacuum regolatorio – un allentamento della normativa d’attuazione degli artt. 23A e 23B del Federal Reserve Act – le barriere alle transazioni tra affiliate dello stesso gruppo vennero quasi smantellate.

In Europa, la banca universale si affermò, sotto l’aspetto regolamentare, più pienamente, ma a livello nazionale risentì della configurazione che, di fatto o per l’azione degli organi di vigilanza, i sistemi bancari avevano assunto nel corso del tempo. In Italia, la composizione dei bilanci bancari rimase orientata all’attività di prestito piuttosto che all’intermediazione in titoli. Il sistema bancario del Regno Unito fornisce un interessante caso, poiché ha le caratteristiche della banca universale europea, cioè senza l’adozione di una struttura di holding con diverse sussidiarie funzionalmente specializzate, ma con un’intensa attività nel mercato mobiliare e in derivati. Nel R.U., particolarmente dopo il Big Bang[6] del 1986, emerse invece una dicotomia tra un settore orientato al prestito a famiglie e piccole imprese (al dettaglio, retail), e un enorme settore di banche con complesse strutture, operanti anche sul piano internazionale e in prevalenza con grandi imprese (all’ingrosso, wholesale),e con ampia diversificazione funzionale, spesso controllate da case-madri americane.
In ogni caso, la costruzione di prodotti finanziari strutturati e di complessi prodotti derivati sembra essere rimasta una caratteristica delle grandi banche americane, mentre in Europa le banche sono apparse principalmente come acquirenti di prodotti generati negli S.U.
A seguito di tale evoluzione, la distinzione rilevata al paragrafo 1. si è opacizzata (blurred), particolarmente nei sistemi anglo-sassoni, con una crescita dei titoli negli attivi bancari e un notevole affidamento a strumenti di mercato, più che ai depositi, dal lato della raccolta. Nel 2007[7], nelle banche inglesi i titoli non azionari costituiscono il 34% dell’attivo (l’attività in derivati, ivi inclusa, occupa il 25% dell’attivo). Nelle banche americane essi costituiscono il 20%, ma occorre aver presente che l’attività in titoli ha luogo principalmente nelle banche d’investimento, spesso inserite nella stessa holding. E i bilanci di queste ultime sono saliti dall’1% del totale degli intermediari nel 1960 al 5% nel 2007. Nelle banche italiane il peso dei titoli non azionari è solo del 10%. I prestiti sono solo il 35% dell’attivo delle banche inglesi, ma il 61% in quelle italiane. L’elevata percentuale dei prestiti nelle banche commerciali americane, 68%, è fuorviante perché, ancora una volta, è trascurata l’attività in titoli di altri intermediari, nello stesso gruppo[8].
Dal lato del passivo, il ridotto ruolo dei depositi è assai visibile nei paesi anglo-sassoni. Nel 2007, negli S.U., i “veicoli” ad hoc costituiti (“issuers of asset-backed securities”, essenzialmente parte integrante del sistema bancario) sono per dimensioni pari a oltre il 50% delle banche commerciali. I depositi sono solo il 44% della raccolta[9]. In Italia, ne sono il 60%. Alta è, per converso, la raccolta, più volatile, meno vischiosa, sull’interbancario e tramite strumenti di mercato (obbligazioni, commercial paper): l’importo di questi è pari al 34% della raccolta nel R.U., al 39% negli S.U., solo al 18% in Italia[10]. Tali strumenti erano quasi inesistenti nel nostro primo anno d’osservazione, 1960.
In molti casi (ad esempio, nel fallimento dell’inglese Northern Rock, una banca di deposito specializzata in mutui immobiliari, nel 2007), si è riscontrato un funding gap, cioè un’eccedenza dei prestiti erogati sui depositi raccolti, essendo il gap coperto appunto con ricorso al mercato attraverso un proprio “veicolo”.
Nei tre paesi, queste tendenze si sono accompagnate a una forte espansione dei bilanci bancari, particolarmente accentuata nei primi anni 2000. Il rapporto fra questi e il rispettivo PIL è salito, tra il 1990 e il 2007, da 1 a 2,3 in Italia, da 2,2 a 6,6 nel R.U.[11]. Dato che negli S.U. la statistica delle sole banche è fuorviante, essendo esse parte di più ampie aggregazioni (holdings) come sopra s’è detto, si preferisce qui indicare il rapporto tra istituzioni finanziarie in genere e PIL, salito da 2,4 nel 1990 a 4,5 nel 2007: in tutti e tre i casi, si tratta di ascese storicamente senza precedenti.

3.    La crisi: debolezza degli attivi e volatilità della raccolta delle banche
Esula da questa nota l’intento di soffermarsi sulle motivazioni, profonde e prossime, della crisi finanziaria. I punti deboli della struttura finanziaria sono stati peraltro rinvenuti essenzialmente in due aspetti: nel subitaneo deprezzamento delle attività in titoli, in particolare dei titoli strutturati, la cui alta valutazione non ne rifletteva la rischiosità, e delle operazioni derivate su di essi costruite, ove il rischio di controparte è emerso particolarmente nel mercato dei CDS[12]; e nell’eccessivo affidamento al mercato interbancario e mobiliare dal lato della raccolta. Infatti, sono risultate particolarmente colpite dalla crisi le banche largamente attive nel mercato mobiliare dei titoli strutturati e nelle operazioni derivate, ma, d’altro lato, anche le banche retail che avevano fatto affidamento su una provvista di fondi diversa dai depositi, più volatile.
Il primo fattore ha costretto le banche, anche e soprattutto di investimento, a un precipitoso de-leveraging, proprio nel momento in cui l’affidamento al mercato si inaridiva. In America, le grandi banche d’investimento indipendenti, cioè non facenti parte di gruppi polifunzionali, hanno avvertito l’impossibilità di aver sostegno dalla sussidiaria bancaria o dal prestatore d’ultima istanza, finendo per fallire (Lehman), o per essere salvate da altri istituti con l’intervento pubblico (Merrill Lynch, Bear Stearns), o per trasformarsi in bank holding companies , così ottenendo accesso al credito d’ultima istanza (Goldman Sachs, Morgan Stanley).
Il secondo fattore ha fatto sì che la provvista venisse a cessare non appena fosse percepito il subitaneo indebolimento dell’attivo: la raccolta interbancaria non ha la vischiosità dei depositi.

4.    Il Rapporto Vickers

Come accennato all’inizio di questa nota, la crisi finanziaria ha determinato ingenti perdite e cospicui interventi di salvataggio da parte del settore pubblico, particolarmente negli S.U. e nel R.U. Questi interventi sono stati rispettivamente valutati in circa il 50 e 60% del loro PIL (contro meno del 5% in Italia)[13], e hanno indotto entrambi i paesi a ripensare la regolamentazione bancaria anche in termini di struttura del sistema. In America è stato approvato il Dodd-Frank Act 2010. Esso si innesta in una struttura – sopra descritta – di holding che continua a distinguere tra diverse sussidiarie entro il gruppo, rafforza i presidi che limitano le transazioni tra di esse, e pone per le banche l’esplicito divieto di intermediare titoli per proprio conto (il divieto di proprietary trading, o “Volcker rule”, dal nome del proponente).
Nel R.U., una più radicale revisione della struttura finanziaria è stata proposta dall’Independent Banking Commission (Vickers Commission), creata dal nuovo governo conservatore, che ne ha ora accettato le conclusioni.
Alla base del suo Rapporto[14] vi è l’idea che occorra “salvaguardare in ogni circostanza i servizi bancari la cui fornitura deve essere continua e per i quali la clientela non ha alternative”(p. 11): una frase che sembra echeggiare, con parole diverse, il concetto di salvaguardia della moneta che si produce attraverso il credito, come bene pubblico fondamentale. Tale salvaguardia è raggiunta, secondo il Rapporto, isolando poche fondamentali funzioni della banca: la raccolta di depositi assicurati da, e l’erogazione di credito in conto corrente a, persone fisiche e piccole e medie imprese (ring-fencing): in breve, ciò che compone la banca al dettaglio (retail). Su un totale di attività bancarie pari a circa £6.000 miliardi, il Rapporto stima che verrebbe incluso nel ring-fencing tra 1/6 e 1/3 di quest’importo (p. 12). Rimarrebbero al di fuori di tale “steccato” le esposizioni interbancarie e sul mercato finanziario, l’attività d’intermediazione in titoli (che è contabilizzata al valore di mercato, come distinta dall’attività di investimento in titoli, contabilizzata al valore storico), l’attività in derivati (a meno che non sia effettuata a scopo di copertura del rischio presente anche nell’attività retail). I depositi da, e i prestiti a, grandi imprese possono essere o meno inclusi nel ring-fencing, ma tali prestiti – se inclusi – non possono finanziarsi sul mercato, cioè vanno finanziati con depositi (p. 11). Non si intende includere obbligatoriamente tali prestiti nel ring-fence: ciò precluderebbe alle banche all’ingrosso di estenderli, il che appare indesiderabile (p. 37). L’inclusione obbligatoria dei depositi del pubblico nella banca al dettaglio mira a impedire che si costituiscano depositi fuori di essa, quindi non assicurati, che sono proibiti dalla normativa europea (p. 39). Questa banca dovrà avere, secondo il Rapporto, una capitalizzazione più alta di quella attualmente prevista in sede internazionale, 10% contro il 7% di Basilea III ( p. 13).
Deve la banca retail essere indipendente? Il Rapporto respinge la sua totale separazione, che comporterebbe più alti costi, l’impossibilità per la banca di essere sostenuta da altre componenti di un più vasto gruppo (ma non è consentito l’inverso, cioè il sostegno della banca retail ad altre istituzioni del gruppo), e sarebbe contraria alle regole europee (p. 26). Ma il Rapporto risponde affermativamente in termini di capitalizzazione, di minima liquidità, di raccolta, di limiti di fido, di governance: tali regole si applicano come se essa fosse un’entità a sé (on a stand alone basis). L’inserimento in un gruppo polifunzionale permette vari benefici che si intendono mantenere: diversificazione dei profitti, relazioni unitarie con il singolo cliente (one-stop relationship), economie di scopo, condivisione di infrastrutture operative e di “nome”. D’altro canto, i rapporti tra la banca retail e il resto del gruppo sarebbero considerati come con “soggetti terzi” (at arms’ lenght) e ogni transazione tra di essi avverrebbe a valore di mercato (pp. 12 e 71). La separatezza funziona anche nei rapporti di proprietà: la banca al dettaglio, ring-fenced, può essere controllata da un altro intermediario, ma non può a sua volta controllare un istituto o una banca non ring-fenced (p 72).
Una volta tagliato il nodo gordiano che connette i due settori della banca, l’attività all’ingrosso andrà condotta, secondo il Rapporto, secondo gli standard normativi che stanno emergendo sul piano internazionale, così non compromettendo la competitività della piazza di Londra. Il Rapporto raccomanda che ogni banca – al dettaglio o non – abbia un rapporto di leverage di almeno il 3%[15], che le banche non al dettaglio emettano obbligazioni ibride, c.d. bail-in (che assorbano le perdite), che sia il capitale sia tali obbligazioni siano più elevati per le grandi istituzioni, quale che ne sia la forma , ring-fenced o meno, fino a raggiungere una capacità di assorbire perdite pari al 17% dell’attivo commisurato al rischio, aumentabile al 20% se necessario (p. 30). Piani e procedure atte a risolvere la propria crisi andrebbero definiti dalle stesse istituzioni a complessa struttura, soprattutto se operanti in più giurisdizioni, i c.d. living wills (“testamenti viventi” (!)). Essi renderebbero più agevole alle autorità lo smembramento o la chiusura di una banca in crisi.
Scopo finale di una siffatta riforma strutturale è una maggior stabilità, e una più facile liquidazione di istituti insolventi senza esborso di denaro pubblico, ponendo termine al “troppo grande per fallire” e salvandone al contempo le funzioni essenziali.

5.    Conclusioni

Ci si può chiedere perché gli S.U. – con il Dodd-Frank Act e, in particolare, con la Volcker rule – e il R.U. – con il Rapporto Vickers – si siano orientati verso revisioni, particolarmente radicali nel caso del R.U., della regolazione di struttura del sistema bancario: regolazioni basate comunque sul ripristino di forme di separatezza nell’attività bancaria. Ci si può anche chiedere perché tale dibattito sia quasi assente in altri paesi, come in Italia. Un tentativo di risposta può forse rinvenirsi in diversi stili di vigilanza. Alcuni paesi – il nostro in primo luogo – hanno una lunga tradizione di vigilanza strutturale, intrusiva: uno stile significativamente evocato, di recente, anche dal governatore inglese: “Le autorità di vigilanza dovrebbero avere la libertà di dire a una banca: “Francamente, non capiamo perché il vostro istituto ha bisogno d’essere così complesso. Non riusciamo a capire quello che state facendo, quindi dovete cambiare. Non avete infranto le regole, ma dovete cambiare”[16]. Se questo stile di vigilanza è ben radicato (in Italia esso ha prevalso per decenni), è difficile pensare che un sistema regolatorio diverso, basato sul rispetto di coefficienti prudenziali sempre più complessi, abbia potuto annullarlo. Nelle parole del governatore Draghi: “La Vigilanza italiana non si limita a stabilire principi prudenziali generali lasciandone l’interpretazione al mercato. Non si limita a verificare il rispetto delle regole; valuta strategie e gestione degli intermediari”[17]. Nei sistemi orientati al mercato come quelli anglosassoni, la vigilanza è consistita principalmente – in particolare nel periodo recente – di un controllo quasi giudiziale di legittimità e rispetto delle regole, piuttosto che di esercizio di discrezionalità, le rules hanno a lungo prevalso sulla discretion. In aggiunta, forse le enormi dimensioni di molti istituti hanno reso l’intrusione della vigilanza più complicata, o impraticabile. In questo contesto, di fronte al collasso recente del sistema, le proposte che consolidano o ripristinano canoni di separatezza, volti a proteggere la essenziale funzione monetaria della banca, possono essere viste come “mezzo per riconciliare la posizione del R.U. come centro finanziario internazionale con un sistema bancario stabile entro il Regno stesso”[18].

Note

1.  In questo periodo la suddetta dicotomia era molto evidente.

2.  Inclusive degli istituti di credito speciale.

3.  Vds. Bonci R., Coletta M., Italy’s Financial Accounts since 1950, table A1, A5, A7; De Bonis R., Italy’s Financial Wealth and Indebtedness from 1950 to 2004, table 2, in Banca d’Italia, Financial Accounts: History, Methods, the Case of Italy and International Comparisons, 2008

4.  Inclusi gli istituti di risparmio, come le Savings and Loan associations.

5.  www.federalreserve.gov/Flow of Funds/Historical Data, anni vari.

6.  Liberalizzazione del mercato mobiliare.

7.  Questo è l’anno in cui la bolla finanziaria raggiunge l’apice.

8.  Per le banche inglesi: Office for National Statistics, Blue Book 2010, p 152. Per quelle statunitensi: www.federalreserve.gov/Flow of Funds/Hstorical Data. Per le banche italiane: Banca d’Italia, Relazione annuale per il 2007, Appendice, p 152.

9.  Per gli S.U., la percentuale è calcolata sommando i passivi delle banche di deposito e dei loro “veicoli”, gli issuers of asset-backed securities. Vds www.federalreserve.gov/Flow of Funds/Historical Data.

10.  Vds. nota 8.

11.  Le statistiche bancarie del R.U. contabilizzano, diversamente da quelle italiane e americane, il valore dei prodotti derivati, che è imponente: nel 2007, il 25% circa del totale attivo. Ciò può spiegare almeno in parte la differenza rispetto agli indici di finanziarizzazione degli altri due paesi. Per tali indici: Roselli A., Financial Structures and Regulation. A Comparison of Crises in the UK, USA and Italy, Palgrave Macmillan, 2011, pp 145-149

12.  Credit Default Swaps: operazioni nelle quali l’acquirente protezione (ad es., una banca che eroga un prestito, o detiene un titolo) corrisponde una commissione al venditore di protezione (altra banca, società assicurativa, etc.), nel caso in cui si verifichi un “evento” negativo (fallimento del debitore, caduta del prezzo del titolo sotto un certo livello). In tal caso, il venditore di protezione corrisponderà l’importo “assicurato” (ad es., del prestito o del titolo) all’acquirente protezione (il rischio di controparte si concreta quando il primo soggetto non è in grado di corrispondere l’importo, come nel caso dell’assicuratrice americana AIG).

13.  Queste percentuali sono calcolate sulla base dell’entità potenziale di ciascun intervento al momento del suo annuncio, e includono forme di assicurazione, investimenti, prestiti. Come tali, vanno chiaramente distinte dalle perdite subite dagli intermediari finanziari, comunque calcolate. Vds. Miles D. (membro del Comitato di politica monetaria della Banca d’Inghilterra), The future financial landscape, discorso del 16 dicembre 2009, in www.bankofengland.co.uk/speeches.

14.  Independent Commission on Banking, Final Report. Recommendations, September 2011.

15.  Calcolato sul Tier 1 (capitale azionario).

16.  www.parliament.uk/Joint Committee on the Draft Financial Services Regulation Bill. Oral evidence,  Mervyn King, 3 November 2011, p. 24 (uncorrected transcript).

17.  Draghi M., Considerazioni finali, 31 maggio 2010, p. 15.

18.  Vicker’s Report, p. 2.